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 2016  febbraio 17 Mercoledì calendario

IO SONO LEGGENDA


I grandi divi del cinema invecchiano diversamente da noi comuni mortali. Robert Redford è alla soglia degli 80 anni. L’azzurro acceso dei suoi occhi si è un po’ attenuato, e la sua famosa chioma, un tempo così bionda da far dire alla critica cinematografica Pauline Kael che non era platino, bensì plutonio, ha perso parte della sua brillantezza. Eppure Redford conserva un notevole fascino e un aspetto ancora giovanile, non tanto diverso da quello che, nel 1969, si impresse nell’immaginario collettivo – quando interpretò Sundance Kid in Butch Cassidy – come perfetta incarnazione di quel che significa essere una star: sfavillante, ma anche lontana, irraggiungibile. Barbra Streisand, protagonista accanto a Redford in Come eravamo (1973), ha detto di lui: «Non si sa mai di preciso a che cosa sta pensando, e per questo si resta affascinati a vederlo sullo schermo. Bob conosce il grande potere della moderazione: non si riuscirà mai a scoprirlo fino in fondo, e qui sta il suo segreto, il suo mistero. E per questo che si ha voglia di guardarlo».
Di persona Redford esercita lo stesso fascino, non appena si supera la sorpresa dovuta al fatto che, a differenza di molti suoi colleghi attori, è più basso di quel che si potrebbe immaginare: appena sotto il metro e ottanta. L’occasione per incontrarlo è l’uscita negli Usa di A Walk in the Woods, Una passeggiata nei boschi, il film di Ken Kwapis tratto dal libro di Bill Bryson. Siamo a New York, nel suo ufficio nella sede del Sundance Channel.
Gli ultimi anni sono stati pieni di soddisfazioni per Redford. Di recente è stato impegnato come non gli capitava da tempo: in quattro film, l’ultimo dei quali è Truth, un docu-drama ambientato durante la campagna elettorale che nel 2004 portò alla rielezione di George W. Bush alla presidenza degli Stati Uniti, in cui Redford interpreta il giornalista Dan Rather. Una delle ragioni di questa iperattività, dice Redford, è la sua età. Non essendo più soltanto un attore dalla bella faccia, ora ottiene parti che prima gli erano precluse. «Credo di essere stato inquadrato in uno stereotipo», dice. «Lo percepivo in modo netto, fisicamente, che i margini di scelta si riducevano. Io volevo essere indipendente e sentirmi libero, ma sono rimasto intrappolato nel ruolo del vincente, e la gente non riusciva a vedermi in nessun altro modo».
altra ragione alla base di questo rinnovato attivismo è quella che Redford chiama “perversità”, un termine da lui usato più volte quando vede se stesso agire da bastian contrario. «Sai perché sono così impegnato?», dice, ridendo. «Perché mi ero ripromesso di non esserlo. Un anno e mezzo fa mi sono detto: ora rallento e tiro un po’ i remi in barca, e invece sono ripartito in quarta. È perverso!». Secondo Redford, questo aspetto della sua psiche ha derivazioni genealogiche. «Vengo da una famiglia scozzese-irlandese», spiega. «Era gente davvero cupa. I miei antenati arrivarono in America nel 1849 e si portavano dietro questa mentalità. Mio nonno diceva che se succede qualcosa di buono, dev’esserci sotto qualcosa di sbagliato».
Questa perversità – che può manifestarsi come diffidenza o anche come ostilità – è stata una costante nella vita di Redford. La sua carriera, sia come regista, è costellata di personaggi solitari e di outsider che si ritrovano a combattere contro i grandi e i potenti, contro il sistema nelle sue varie forme: i Pinkerton (in Butch Cassidy), la mafia (ne La stangata), la Cia (ne I tre giorni del Condor). In altri casi, come in Corvo rosso non avrai il mio scalpo e, per certi versi, anche in Una passeggiata nei boschi, interpreta l’esploratore solitario che va alla ricerca di se stesso nella natura, lontano dal resto dell’umanità.
Redford ama ricordare un periodo magico, negli Anni 70, in cui poteva fare praticamente tutto quel che voleva. Grazie alla sua immensa popolarità, gli Studios gli consentirono di realizzare alcuni suoi piccoli progetti a basso costo: Gli spericolati e Il candidato, elementi di una prevista trilogia su quello che, secondo Redford, è il risvolto negativo della mentalità americana per cui bisogna essere vincenti a tutti i costi. La Warner Bros, gli permise di fare Corvo rosso non avrai il mio scalpo, la storia epica di un trapper solitario, anche se poi la casa di produzione lo tenne sullo scaffale per qualche anno prima di mandarlo nelle sale.
Poi, secondo Redford, il mondo del cinema è cambiato. «Si è puntato sempre di più sul denaro e sul mercato, che era dominato dai giovani, perciò certi film a basso costo furono abbandonati». Oggi persino Robert Redford incontra difficoltà a realizzare i film che gli piacciono e, quando ci riesce, fa fatica a distribuirli. Per Una passeggiata nei boschi ci sono voluti anni: il fatto che ci sia riuscito lo si deve essenzialmente alla sua cocciutaggine.
Il libro da cui è tratto racconta l’esperienza vissuta da Bryson e da un suo amico, tale Katz, che per combattere una crisi di mezza età decidono di fare un’escursione lungo l’Appalachian Trail. È una versione selvaggia de La strana coppia, con Oscar e Felix in giro per i monti. Gli scenari naturali hanno senz’altro esercitato una forte attrazione su Redford, che da tempo è un sostenitore delle cause ambientali, ma ancora più allettante è stato lo sfondo esistenziale. Bryson era uno sregolato che faceva bagordi in giro per l’Europa e che poi si è rimesso in carreggiata. Redford è stato una specie di Bryson ma è tornato per tempo sulla retta via (ha avuto tre figli dalla prima moglie, Lola Van Wagenen, sposata nel 1958, alla quale attribuisce il merito di averlo aiutato a dare un senso alla sua vita. Nel 2009 si è risposato con Sibylle Szaggars, un’artista tedesca conosciuta al Sundance Festival). Per un certo periodo, però, le cose sono state più complicate: «La mia vita era un casino. Ero proprio fuori controllo». Cresciuto a Los Angeles, figlio di un padre ansioso che sbarcava a fatica il lunario e che fu prima lattaio e poi dipendente di una compagnia petrolifera, Robert fece tutto il possibile per deludere le aspettative di ascesa sociale della famiglia: pessimi voti a scuola, a zonzo su auto rubate, alcol, droghe, violazioni di domicilio. Una volta fu arrestato su un’auto non sua, con della merce rubata nel bagagliaio.
A18 anni, Redford, che è stato sempre un buon atleta, ebbe una borsa di studio come giocatore di baseball alla University of Colorado, ma ben presto abbandonò la squadra, preferendole l’alcol, e nel 1956 lasciò gli studi, per inseguire il miraggio della vita da artista. Si iscrisse al Pratt Institute di New York, ma mettendo in conto un possibile fallimento come studente d’arte andò a fare un provino alla American Academy of Dramatic Arts.
Il resto appartiene alla mitologia del cinema. Lavorò per un po’ in televisione e poi ebbe un gran successo a Broadway (prima di bissarlo nella versione cinematografica) con A piedi nudi nel parco di Neil Simon, dimostrando un talento per la commedia che da quel momento in poi avrebbe raramente avuto l’occasione di sfoggiare. Ciò che cambiò la sua vita fu Butch Cassidy, per il quale non era stato preso in considerazione neppure come terza scelta. Lo Studio, per quella parte, voleva Marlon Brando, Steve McQueen o Warren Beatty. Fu Paul Newman, che in origine doveva impersonare Sundance Kid, a insistere perché venisse scritturato Redford, finendo addirittura per accettare lo scambio di ruoli.
Ed è stato invece Redford a volere Newman – dato che tra i due si era creata una sintonia indimenticabile – come prima scelta per Una passeggiata nei boschi, un film per il quale gli studios sarebbero stati disposti a pagare qualunque cifra: l’ultima cavalcata, o passeggiata, di Butch e Sundance. Poi, però, Newman si è ammalato. Il ruolo fu assegnato a Nick Nolte, che con la sua biografia piena di eccentricità (per non parlare della voce rauca, dei capelli da elettroshock e degli occhi spiritati) è perfetto per Katz. «Non dico certo che l’assenza di Paul sia stata un bene», spiega Redford, «ma il modo in cui si è risolta la questione è perfetto. L’ultimo film che ho diretto si è portato via un anno e mezzo della mia vita. Questa volta volevo solo recitare, era l’occasione per tornare alle origini e fare di nuovo l’attore in affitto».
Quando non ha impegni di lavoro, Redford si diverte soprattutto ad andare a sciare al Sundance Mountain Resort, il suo buon ritiro nello Utah. È in mezzo a quella natura selvatica che ha anche fondato il Sundance Institute, una colonia dove gli aspiranti film-maker potevano imparare da maestri come Sydney Pollack, George Roy Hill, László Kovács e Alan Pakula. Pochi anni dopo, quando quegli stessi film-maker ebbero bisogno di un luogo dove proiettare le loro opere, Redford rilevò un declinante festival del cinema a Salt Lake City e lo ribattezzò Sundance Festival. «Quanto si può essere bastian contrari?», dice ora. «Andare in pieno inverno ad assistere a un festival del cinema a Park City, Utah, nella terra dei mormoni... Be’, ho pensato che la semplice stranezza dell’idea avrebbe indotto la gente a farci un salto».
Per certi versi, il Sundance Festival ha ormai troppo successo ed è diventato troppo chic per i gusti di Redford. «Ne sono felice, però un po’ mi manca l’atmosfera dei primi tempi», dice, per poi passare alle ragioni che lo fanno lavorare a un’età in cui gran parte delle persone è da tempo in pensione. «Si cerca di fare il meglio possibile con quel che si è ricevuto: io la vedo così. E ci si impegna sempre al massimo. Non vedo ragioni per smettere: credo che la pensione possa condurre alla morte, e questa cosa non fa per me».