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 2016  febbraio 17 Mercoledì calendario

Panorama, 17 febbraio 2016 È l’esatto contrario della Perpetua di don Abbondio, descritta dal Man¬zoni come una donna che «sapeva ubbidire e comandare, secondo l’occasione»

Panorama, 17 febbraio 2016 È l’esatto contrario della Perpetua di don Abbondio, descritta dal Man¬zoni come una donna che «sapeva ubbidire e comandare, secondo l’occasione». Giampaolo Pansa si dichiara un rompiscatole, cioè «un tizio cui non va né di ubbidire né di comandare». Definizione calzante, però monca: chi vuole comandare deve a sua volta ubbidire a qualcuno, mentre chi non ha la fregola di dare ordini sottostà unicamente a quelli che s’impartisce da solo. «Hai ragione» dice Il rompiscatole, titolo della sua nuova fatica letteraria di 400 pagine, in libreria per Rizzoli da questa settimana con il sottotitolo L’Italia raccontata da un ragazzo del ’35. L’equivalente femminile di Pansa è Adele Grisendi, «la più grande fortuna capita¬tami nella vita», tosta ex dirigente della Cgil originaria di Montecchio Emilia, che lui chiama alternativamente Grisendi o Adele, ubi consistam nella quotidianità del rompiscatole, a giudicare dal numero di citazioni che le riserva nel libro (15, più di Walter Tobagi, 12; Carlo Caracciolo, 11; Carlo De Benedetti, 10; Indro Monta¬nelli, 9; Pietro Nenni, 6; Aldo Moro, 5) e dalla devota insistenza nell’evocarla («dico bene, Grisendi?», «anche Adele è scrittrice», «Grisendi, ho dimenticato le sigarette su in studio», «Adele non vuole che usi la parola “cazzo”», «Grisendi, hai aperto il cancello?», «Adele e io», «io e Grisendi»). «Siamo una coppia di fatto dal 1989» chiarisce Pansa, che per mettersi con la sindacalista lasciò la moglie. «Ho imparato a usare il computer scriven¬dole lettere d’amore». Galeotto fu il Pci. «Stavo andando in treno a Firenze per un dibattito. Sento una voce: “Dottor Pansa, permette una domanda?”. Dall’aspetto mi sembrava una professoressa del Manife¬sto. “Sono una comunista sofferente. Che notizie ha dal comitato centrale?”. Non potei rispondere, avendo smesso di seguirlo il giorno prima, irritato da un’osservazione di Eugenio Scalfari: “Dimostri troppa simpatia per la svolta di Achille Occhetto”. Anche Grisendi tifa¬va per il compagno Akel. Ci scambiammo i numeri di telefono. Dopo due mesi era¬vamo insieme». Il rompiscatole e la sua vice hanno lasciato Roma per la Toscana 13 anni fa. Abitano in una palazzina sen¬za lussi acquistata con i diritti d’autore del Sangue dei vinti. La occupano tutta. Al terzo e ultimo piano c’è l’ufficio dome¬stico che Pansa condivide con Grisendi. Un’intera stanza è riservata all’archivio dello scrittore: «Prima o poi morirò. Adele è del 1947, durerà di più, e dovrà decidere che farne. Mi piacerebbe che finisse a Giuseppe Parlato, uno storico cattolico di destra». Sei affezionato ai tuoi ritagli. Ho imparato da Vittorio Gorresio. Ero da pochi mesi praticante alla Stampa. Mi disse: «Pansa, si sente che sei portato per la politica. Però devi farti un archivio.Quando sarai vecchio, avrai scoperto da tempo che copiare dagli altri è infame, ma che rubare in casa propria è molto comodo». Com’è che questo libro non l’hai intitolato Il rompicoglioni o Il rompibal¬le? Non ci ho neppure pensato. Avrei voluto chiamarlo Vita da gufo. Non capisco di che cosa si lamenti il Chiacchierone fiorentino: il mestiere dei giornalisti è gufare. Alla fine ho scelto l’esortazione di mia madre: «Giampa, non fare il rompi¬scatole». A chi le hai rotte di più? Ah, non c’è alcun dubbio: al cosiddetto ceto dei resistenti, comunisti che hanno costruito le loro fortune sul mito della Liberazione. E te lo dice il primo studente universitario a essersi laureato con una tesi di 800 pagine sulla guerra partigiana tra Genova e il Po. Ho sempre creduto che la Resistenza non fosse finitail 25 aprile 1945. Da quel giorno in poi accadde di tutto. Ma l’unico a scriverne fu Giorgio Pisanò, un fascista. Poi è arrivato Pansa con il suo «ciclo dei vinti». Anche qui ho imparato da Gorresio: «Non andare dove vanno gli altri. Prendi sempre un’altra strada». Sono passati 13 anni, Il sangue dei vinti ha venduto un milione di copie e ancora oggi mi scrivono: «Nei suoi libri non ho trovato la storia di mio nonno, di mio padre, di mio zio...». Torturati, trucidati, spariti. Più di 20 mila lettere ho ricevuto, finora. Su Facebook esiste un gruppo pubblico intitolato «Giampaolo Pansa è una merda». Ieri ero alle Scotte, il policlinico di Siena, per un controllo medico. Si avvicina un chirurgo senologo: «Ma lei è Pansa?». Sì, rispondo. «Posso abbracciarla?». Perché voleva abbracciarti? Non gliel’ho chiesto, per rispetto. Non lo faccio mai. Ho questo pudore. Però hai perso per sempre tanti estimatori e amici. Ezio Mauro mi redarguì: «Ma perché non torni a scrivere per i tuoi vecchi lettori?». Gli risposi: tu sei di Dronero, cuneese, ma io sono di Casale Monferrato, e lo sai che cosa diceva mia nonna? «Dui munfrin: tre ladar e ’n asasin», su due monferrini, tre sono ladri e uno assassino. T’è toccato andartene dall’Espresso, di cui eri vicedirettore. Mi sentivo mal sopportato. Ogni volta che consegnavo Il bestiario, la mia rubrica, capivo che alla direttora Daniela Hamaui mancava il fegato per dirmi: «Basta, vattene!». Che tu non sia incline a ubbidire, si vede a occhio nudo. Ma davvero non ti è mai venuto l’uzzolo di comandare? Guarda, nella mia vita professionale ho cambiato parecchi indirizzi: La Stampa, Il Giorno, di nuovo La Stampa, Il Messag¬gero, Corriere della Sera, La Repubblica, L’Espresso, Il Riformista, adesso Libero. Ho scritto anche per Panorama e per Epoca. Ma questa voglia non l’ho mai avuta. La più stramba delle accuse che intellò, colleghi e presunti opinion leader mi hanno rivolto dopo l’uscita del Sangue dei vinti è che avrei scritto quel libraccio per ingraziarmi Silvio Berlusconi, nella speranza che il Cavaliere, allora ben più potente di oggi, mi aiutasse ad agguanta¬re la direzione del Corriere della Sera. Minchioni! Dopo Scalfari, 50 citazioni, Berlusconi è il personaggio nominato più spesso nel Rompiscatole: 42. Eppure l’ho incontrato a tu per tu una sola volta. Era il 21 novembre 1977. Comincia¬va a nevicare. Mi telefona Scalfari: «Amintore Fanfani tiene una conferenza su Giorgio La Pira a Milano, nella sacrestia di Santa Maria delle Grazie. Prova ad avvicinarlo». Vado. Trovo sull’uscio il suo addetto stampa, Gian Paolo Cresci. Gli chiedo di farmi parlare con il presidente del Senato. «Non posso» svicola. Allora gli ricordo del Vajont. Stento a seguirti. Cresci nel 1963 lavorava al Giornale del Mattino di Firenze, che era stato diretto dal mitico Ettore Bernabei. Fu mandato sul luogo del disastro. Il pool dei cronisti si accordò per rinviare di 24 ore la pubblicazione della notizia relativa a una perizia sulla diga. Ma lui non stette ai patti e diede il buco a tutti. Guido Nozzoli era inviato del Giorno, alloggiavamo nello stesso albergo di Belluno. Fu tirato giù dal letto all’alba dal vicedirettore Angelo Rozzoni e spellato vivo. Riattaccato il telefono, andò a bussare completamente nudo alla porta del collega. Devi sapere che Nozzoli aveva un pisello enorme, asinino. Quella fu l’ultima immagine rimasta impressa negli occhi increduli di Cresci, perché Guido gli sferrò un frontino di tale potenza da spedirlo all’ospedale. Spiacevole. Eravamo al 1977. Alla parola «Vajont», il portavoce di Fanfani diventa subito complimentoso: «Ti faccio conoscere una persona ben più importante». In quel momento da una Mercedes nera scendeva Berlusconi. Cresci me lo presenta. «Ah, lei è Pansa!» esclama Sua Emittenza. «Ho letto il suo libro appena uscito, Comprati e venduti. A pagina...» e cita il numero preciso «mi definisce un palazzinaro di lusso. Non è vero! Io costruisco città nel verde. Una cosa ben diversa». Sai, il Berlusca è un signore che ha un anno esatto meno di me, a settembre ne ha fatti 79, io 80 due giorni dopo. Si è speso parecchio: nel lavoro, nella vita pubblica, con le donne. Questo spiega il record di citazioni. Vale anche per Scalfari, un patriarca che sulla soglia dei 92 scrive ancora il suo arti¬colo ogni domenica. Con Barbapapà ho sempre lavorato bene. Tutti i direttori dovrebbero cercare di assomigliargli. La Repubblica contava per lui più della moglie, dell’amante, della figlia numero uno, della figlia numero due e di qualche altra donna che gli correva dietro. Era lo scopo della sua vita. Prova a metterti nei panni di Mario Calabresi, il nuovo direttore. Formalmente è equiparabile a papa Bergoglio, però si ritrova in casa il papa emerito Scalfari, il papa quasi emerito Mauro e il papa ombra Carlo De Benedetti. Da spararsi. I più presenti in assoluto nel tuo libro sono i Pansa. Ne ho contati ben 13 nell’indice. La famiglia fa parte della mia buona stella. Papà era un uomo di elevata moralità, anche se mi diede un ceffone una sola volta. In casa vigeva questo ordinamento giuridico: mio padre consigliava, mia madre comandava, mia nonna puniva. E come ti puniva? Tirandomi appresso lo zoccolo di legno. Era analfabeta. Indicava stupita i fumetti nei fotoromanzi di Bolero Film e Grand Hôtel e mi chiedeva: «Che cosa sono questi segni neri nelle nuvolette bianche?». A proposito di famiglia, che cosa pensi delle unioni civili? Un passo inevitabile. Ciò che mi fa rabbia è che siano diventate uno strumen¬to in mano ai gay, con tutto il rispetto. Come si dice? A dieci centimetri dalla mia schiena, fate un po’ quello che vi pare. Ma non mi convince l’adozione dei figli. Magari sbaglio. Posso essere sincero? Devi. Delle unioni civili non m’importa un cazzo. E neppure di Monica Cirinnà, relatrice del disegno di legge. Grisendi mi ha spiegato che Francesco Rutelli, quand’era sindaco di Roma, l’aveva nominata consigliera delegata alle politiche per i diritti degli animali. Dai gatti ai bambini, pensa un po’. Torniamo all’indice del Rompiscatole. Achille Occhetto ha lo stesso numero di citazioni, 8, di Alcide De Gasperi. Vistosa sproporzione, direi. Ho praticato di più il segretario del Pci-Pds. De Gasperi lo vidi una sola volta. Avevo 13 anni. Venne a tenere un comizio a Casale Monferrato. In piazza del Cavallo c’era anche la contessa Margheri¬ta Z., ninfomane scatenata. Aveva sedotto fra gli altri un gerarca fascista, un famoso docente di filosofia, un calciatore, un colonnello degli alpini, un campione di automobilismo, un facoltoso dentista, un canonico del duomo, persino un omosessuale. Benché De Gasperi avesse già 67 anni, lei se ne invaghì. Andò a Roma per vederlo parlare a Montecitorio. Cominciò a dire in giro d’essere la sua amante. Spiegava: «Di certe faccende Alcide non sapeva niente. Ho dovuto insegnargli tutto io». Fu convocata al commissariato di polizia e diffidata dal riferirsi al capo del governo. Da quel giorno la contessa non uscì più dalla sua villa. Fece testamento, lasciando ogni avere all’ospizio dei poveri, e smise di mangiare. Dopo tre mesi era morta. Aveva 52 anni. Una sola citazione per Oriana Fallaci. La incontrai a New York. Si presentò a cena in camicia da notte, con sopra una pelliccia. Un’inarrivabile giornalista, ma una donna molto infelice. Una sola citazione per Matteo Renzi. Figura di passaggio. Io spero che il Parolaio duri poco. Ha fatto della bugia un metodo di comando. Promette e non mantiene. Si circonda solo di amici e amiche. Asfalta chi non è prono al suo volere. Tiene bordone a una bella donna, Maria Elena Boschi, che non mi pare una cima. Tenta di affidare i servizi segreti al suo sodale Marco Carrai. Ma dove cazzo ci vuole portare? Con il Bullo di Palazzo Chigi rischiamo tutti. Ci stiamo avviando verso una Turchia italica, dove si tengono le elezioni però non esiste più la democra¬zia politica. Chi ci difende se l’Erdogan di Rignano sull’Arno tenta una svolta autoritaria? L’Europa, ormai ridotta a un rottame? Ma tu per chi voti? Da tre tornate elettorali non vado alle urne. La politica è morta. Nell’ipotesi peggiore ci attende il Califfato nero, in quella migliore un colpo di Stato dell’esercito o dei carabinieri. Però una volta hai confessato che, se rinascesse la Dc, potresti votarla. Dipende da chi la guida. Se fosse Enrico Letta, o Romano Prodi, la voterei. Vittorio Feltri nel Rompiscatole non è nominato. Eppure nel libro Buoni e cattivi ti ha assegnato un 8 in pagella e questo giudizio: «Pansa è per la politica ciò che Gianni Brera fu per lo sport. Unico». Esagerato. Feltri mi piace, dice quello che pensa in modo tale che tutti possano capirlo, anche in tv. Il fatto che la sinistra lo abbia sempre sottovalutato dimostra che al 95 per cento è fatta di coglioni. Io gli do 9. Anzi 10, toh. Da chi hai imparato di più nella tua vita? Da mio padre Ernesto. Senza volerlo, mi ha insegnato a non avere paura e a dire sempre la verità. Era un guardafili del telegrafo, penultimo di sei bimbi rimasti orfani: mio nonno Giovanni Eusebio, bracciante, fu stroncato da un infarto a 38 anni mentre zappava i terreni del padrone. In quarta elementare papà dovette smettere di studiare e finì a pulire le stalle per mantenere i fratelli. E nel giornalismo chi è stato il tuo maestro? Giulio De Benedetti. Nel 1960 mi assunse alla Stampa. Era un monarca assoluto. Il giorno in cui fu assassinato il presidente Kennedy, Enzo Biagi si vide cestinare da Gidibì la corrispondenza che aveva mandato dagli Stati Uniti, ciò che lo indusse a dimettersi. A me stracciò sotto il naso il pezzo d’esordio. Ma applicava lo stesso rigore a se stesso. Il sabato matti¬na scriveva il suo fondo domenicale. Poi aspettava che tornasse dal liceo la figlia Simonetta e glielo leggeva ad alta voce. «Hai capito che cosa intendo dire?» le chiedeva. E la ragazza, pur di toglierselo di torno: «Ma certo, papà». Lui tornava alla carica: «Allora ripeti!». Ovviamente la poverina non si ricordava un’acca. A quel punto De Benedetti strappava l’editoriale e si metteva a riscriverlo, convinto che fosse poco chiaro. Il che spiega perché Simonetta, da adulta, sposò Scalfari. Credi che i giornali abbiano un futuro? Credo che sia vecchio il modo in cui li facciamo. Io mi rifugio nei classici, I promessi sposi su tutti. In questi giorni ho ripreso in mano Sempre più bandiere di Evelyn Waugh. La guerra è il tuo assillo. Di natura sarei ottimista. Ma tutte le sere devo prendere una compressa di Halcion contro gli incubi notturni. Giuliano Ferrara, lasciando nel gennaio 2015 la direzione del Foglio, affermò che «a 63 anni bisogna imparare a morire». Ti capita mai di fare i conti con l’appuntamento ineluttabile? Da giovane no, non mi capitava, benché i terroristi rossi mi avessero condannato a morte. Marco Barbone era così assiduo nel farmi la posta mentre portavo a spasso il cane che, dopo l’arresto, fornì una descrizione perfetta del mio épa¬gneul breton. Per fortuna il giorno dell’esecuzione dovetti correre a Roma a sostituire Scalfari, che s’era buscato l’influenza. Così al posto mio fu ammaz¬zato Walter Tobagi. Adesso è come se avessi superato una barriera invisibile, che mi spinge a riflettere sul futuro come mai mi era capitato in passato. Comprensibile. Spero che il Padreterno, se esiste, dica: vabbè, lasciamo che il Pansa rompa le scatole ancora per un po’. Ogni mattina mi alzo, accendo il pc e comincio a scrive¬re il capitolo di un nuovo libro. Quello di stamattina s’intitolava per l’appunto «Paura di morire». Dunque hai paura. Vorrei vivere ancora un po’ per non lasciare sola Adele. La quale peraltro senza di me se la caverebbe benissimo. Nell’introduzione leggo: «Qualche volta mi capita di pestare sulla tastiera per ricostruire l’ultimo sogno che ho fatto all’alba». Mi racconti quello della notte scorsa? Ero bambino e tenevo mia madre Giovanna per mano. Mi pareva di essere innamorato di lei, più da fidanzato che da figlio. Sarà il complesso di Edipo... Toglimi una curiosità: hai ancora il binocolo che usavi per osservare i leader di partito durante i congressi? Come no! Uno Zeiss costruito nella Germania dell’Est. Me lo regalò un capufficio stampa della Fiat. I colleghi bisbigliavano: «Hai visto Pansa? S’è portato il binocolo». Oh, ce ne fosse stato uno disposto a imitarmi. Niente. Solo Maria Laura Rodotà una volta mi chiese di prestarglielo per una sbirciatina, ma io trattenevo la cinghietta nel timore che me lo fregasse. Prudenza sabauda, binocolo salvo. Quando non ci sarò più, spero che qualcuno ci guardi dentro e dica: «Vedo un pezzo della storia di Giampaolo». Stefano Lorenzetto LORENZETTO Stefano. 59 anni, veronese. È stato vicedirettore vicario del Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Attualmente in Marsilio come consigliere dell’editore. Scrive per Panorama, Arbiter e L’Arena. Ultimi libri: Buoni e cattivi con Vittorio Feltri e L’Italia che vorrei (entrambi Marsilio). LORENZETTO Stefano. 59 anni, veronese. Prima assunzione a L’Arena nel ’75. È stato vicedirettore vicario di Vittorio Feltri al Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Attualmente in Marsilio come consigliere dell’editore. Scrive per Panorama, Arbiter e L’Arena. Quindici libri: Buoni e cattivi con Vittorio Feltri e L’Italia che vorrei (entrambi Marsilio) i più recenti. Ha vinto i premi Estense e Saint-Vincent di giornalismo. Le sue sterminate interviste l’hanno fatto entrare nel Guinness world records.