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 2016  gennaio 07 Giovedì calendario

PROTOCOLLO DI KYOTO


Paesi aderenti Kyoto –

Il 16 febbraio del 2005 entrava in vigore il Protocollo di Kyoto, un documento sottoscritto da più nazioni con l’intento di ridurre le emissioni di gas serra. Prima del Protocollo, una conferenza organizzata dalle Nazioni Unite a Rio de Janeiro nel 1992 aveva dato vita a una convenzione che non dava limiti obbligatori alle emissioni, ma indicava la necessità di adottare nuove regole. L’obiettivo del Protocollo di Kyoto era ridurre le emissioni di anidride carbonica (CO2) e dei gas inquinanti derivanti dall’attività umana: metano, protossido di azoto, idrofluorocarburi, perfluorocarburi, esafluoruro di zolfo. La prima fase è durata dal 2008 al 2012 e ha obbligato i Paesi firmatari a ridurre le loro emissioni del 5% rispetto a quelle del 1990. Per la UE, il vincolo di riduzione previsto era pari all’8%, per l’Italia, in particolare, del 6,5%. Alla fine della prima fase, con l’“emendamento Doha” (dicembre 2012), si decise di avviarne una seconda, con una nuova serie di impegni validi fino al 2020. In questa occasione, però, dal Protocollo si sfilarono Canada, Russia e Giappone. A Doha si è stabilita anche la data del 2015 per raggiungere una nuova intesa sul clima e le emissioni, come poi è avvenuto al Cop21 di Parigi, a novembre.
Il protocollo di Kyoto non ha previsto vincoli alle emissioni per tutti i paesi firmatari (oltre 160), ma solo per quelli compresi nell’elenco chiamato Annex I: una lista di 39 paesi che include i paesi Ocse e quelli con economie in transizione verso il mercato. Gli Stati Uniti, che rappresentano, da soli, oltre un terzo delle emissioni dei Paesi industrializzati, non hanno mai aderito al Protocollo, neppure alla prima fase.
Il meccanismo di base del Protocollo di Kyoto prevede che le emissioni siano trattate come un bene che si può scambiare. Così, per esempio, l’emission trading (Et) consente lo scambio di “crediti di emissione” tra Paesi: una nazione che è riuscita a diminuire le proprie emissioni di gas serra più del limite stabilito, può cedere i “crediti”, cioè i punti in eccedenza, a un’altra che, al contrario, non è stata in grado di rispettare gli impegni. Oppure la joint implementation (Ji) consente alle nazioni industrializzate di realizzare progetti per la riduzione delle emissioni di gas-serra in un altro Paese e di utilizzare i crediti di emissione insieme alla nazione che li ospita. I Paesi, dunque, possono collaborare per raggiungere gli obiettivi fissati, accordandosi su una diversa distribuzione degli obblighi rispetto a quanto sancito dal Protocollo, purché venga rispettato l’obbligo complessivo. Infine con i clean development mechanisms (Cdm) i privati o i governi dei Paesi dell’Annex I che forniscono assistenza ai Paesi non inclusi nella lista possono ottenere, in cambio dei risultati raggiunti nei paesi in via di sviluppo, i “certified emission reductions” il cui ammontare viene calcolato ai fini del raggiungimento del target.
I dati sulla riduzione delle emissioni al termine della prima fase del Protocollo di Kyoto non sono definitivi, ma sono incoraggianti e si parla di un calo del 22,6%.


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Paesi non aderenti a Kyoto -

Nel 1997, alla Cop3 di Kyoto, quando fu elaborato il protocollo per la riduzione delle emissioni di gas, si stabilì che gli Stati Uniti, responsabili del 36,2% del totale delle emissioni di biossido di carbonio (secondo quanto dichiarato nel 2001), avrebbero dovuto tagliare il loro inquinamento del 7%. Gli Usa nel 1998 firmarono il protocollo con il presidente Bill Clinton e il suo vice, Al Gore. Ma il successore George W. Bush ritirò l’adesione, pure promessa in campagna elettorale. Secondo alcune valutazioni di esperti americani, infatti, il Protocollo sarebbe costato ai Paesi industrializzati fino al 2,5% all’anno del loro Pil. Sacrificio che, in cambio, avrebbe fruttato solo una riduzione delle temperature medie terrestri di uno o due decimi di grado, a fronte di quasi un grado di aumento registrato nel 1900, e di altri 2 o 3 gradi previsti entro il 2100.
Tra gli altri esclusi dalle regole di Kyoto furono anche Cina, India e altri paesi in via di sviluppo, firmatari del Protocollo. Queste nazioni furono esonerate dagli obblighi poiché si riteneva che i vincoli alle emissioni avrebbero potuto rallentare la loro crescita socieconomica. Nel Protocollo fu inoltre riconosciuto che a questi Paesi non fosse attribuita la responsabilità delle emissioni di gas serra durante l’industrializzazione di massa responsabile dei cambiamenti climatici. Era questo il cosiddetto principio di responsabilità comune ma differenziata.
Un altro Paese che arrivò molto in ritardo fu l’Australia, che firmò solo nel 2007, alla quale il Protocollo poneva un limite di crescita delle emissioni fino all’8%.
Questi stessi Paesi furono più volte protagonisti di iniziative pensate per il superamento di Kyoto. Per esempio a luglio del 2005 Stati Uniti, Australia, India e Corea del Sud (che però aveva già aderito al Protocollo) firmarono un patto per lo sviluppo di tecnologie e sistemi energetici puliti.
Quali siano stati i risultati di questo accordo non si sa. Resta che l’ostilità al Protocollo rimase anche in seguito: nel 2009, prima ancora del vertice di Copenaghen indetto per estendere l’accordo sui tagli alle emissioni, il presidente americano, Barack Obama, e quello cinese, Hu Jintao, annunciarono la loro contrarietà a ulteriori decisioni vincolanti.
Infine nel 2014 Cina e Stati Uniti, le due potenze responsabili del 45% delle emissioni totali di anidride carbonica, si sono trovati di nuovo d’accordo quando hanno firmato un patto non vincolante per tagliare le emissioni di gas serra. «Considerato che siamo le due più grandi economie e anche i maggiori consumatori di energia e produttori di gas serra, abbiamo una speciale responsabilità nel guidare lo sforzo globale contro il cambiamento climatico», ha spiegato Obama in una conferenza stampa congiunta con il presidente Xi Jinping. Gli Stati Uniti si impegnarono a raddoppiare la velocità del loro attuale tasso di riduzione degli inquinanti. Il progetto è arrivare a -26% entro il 2025. La Cina promise la riduzione a partire dal 2030 e l’uso sempre più massiccio di fonti energetiche pulite.