Giacomo Papi, Linus 1/2016, 7 gennaio 2016
I MASCHI ALFA
Come nel Far West, vince chi ha il dito più veloce
Chi pensa e parla velocemente ha più carisma di chi pensa e parla lentamente, ma chi pensa e parla velocemente spesso pensa e dice cazzate. È questa la sintesi, piuttosto scoraggiante, di un esperimento pubblicato il mese scorso su Psychological Science e condotto da un gruppo di ricercatori delle università del Queensland in Australia e Vrije di Amsterdam (Quick Thinkers Are Smooth Talkers: Mental Speed Facilitates Charisma). Il professor William von Hippel – detto Bill – e i suoi quattro colleghi (R. Ronay, E. Baker, K. Kjelsaas e S. C. Murphy) hanno reclutato 417 studenti di un college e posto a ognuno trenta domande comuni, del tipo “dimmi il nome di una pietra preziosa”, valutando la loro velocità di risposta. A un altro gruppo di studenti dello stesso college è stato chiesto, in parallelo, di valutare il carisma dei 417 partecipanti. La conclusione è stata che i veloci appaiono più carismatici, ma in media non danno più risposte esatte dei lenti. Insomma, velocità e carisma sono legati tra loro, ma non hanno niente a che fare con l’intelligenza. “Ci aspettavamo un legame tra velocità mentale e carisma”, ha spiegato Bill von Hippel a Science Daily, “ma pensavamo che la velocità fosse meno importante del quoziente d’intelligenza. Invece abbiamo scoperto che sul piano sociale l’intelligenza vale molto meno della velocità”. Che la velocità sia trainante è una situazione che sperimentiamo ogni giorno: quando in un gruppo si presenta un problema, c’è sempre qualcuno che non ha dubbi e dice agli altri del gruppo che cosa devono fare. È quasi sempre il più veloce, è quasi sempre un maschio ed è quasi sempre il capo. Non sempre, però, è il migliore. I veloci - oltre a non essere più intelligenti – non dispongono neppure di particolari abilità sociali, come sapere intuire le emozioni degli altri o comporre i conflitti all’interno dei gruppi. Quindi, la velocità potrebbe servire a mascherare la propria incapacità di analizzare la situazione per prendere la giusta decisione. Sarebbe una specie di diversivo tattico per sfuggire, invece che affrontare, una situazione problematica.
La velocità di pensiero e reazione è connessa al coraggio – cioè all’unica qualità oltre alla fama che gli uomini siano tutti propensi a seguire (lo diceva John Fitzgerald Kennedy, credo). Il coraggio, però, ha sempre a che fare con la paura e con il rischio, non è mai un tentativo di comprendere la situazione. Anche se può avere successo, non è mai un atto di conoscenza. Il coraggio implica l’impulso: Davide scaglia la pietra senza calcolare quanto è grosso Golia. Non è un meccanismo esclusivo dei gruppi umani. È probabile che alla base della vita sociale di tutti gli animali politici – dai topi alle api – agisca la tendenza a seguire chi rischia di più, cioè spesso il più veloce a reagire. Il maschio alfa è forte e aggressivo anche perché è quello che attacca per primo. Vale per i branchi di lupi e per i ministeri, nelle foreste del Serengeti e nei CdA della Silicon Valley, per i gorilla di Diane Fossey e gli hipster di East London, tra i pierre di corso Como, i black bloc e gli scimpanzé descritti nel 1982 dal primatologo olandese Franciscus Bernardus Maria de Waal – detto Frans – nel suo fondamentale Chimpanzee politics del 1976, il libro che dimostrò una volta per tutte che la politica è una cosa preumana. Capire il mistero del perché molti decidano di sottomettersi a un leader – e che caratteristiche abbia il leader – è la questione politica per eccellenza.
In vita mia mi è capitato di osservare da vicino decine di capi. Alcuni mi sono sembrati affascinanti, altri insulsi, alcuni simpatici, altri odiosi, altri ancora ripugnanti, alcuni li ho giudicati intelligenti, altri totalmente imbecilli. Ma se dovessi indicare un unico tratto caratteriale comune tra esseri umani tanto diversi (per dire, Tony Blair, Di Pietro, Salvini, D’Alema, Monti, Renzi, Fini, Bersani, Condoleezza Rice, Pier Ferdinando Casini) sarebbe una certa impermeabilità alle circostanze esterne. I capi sono tutti molto concentrati su se stessi e su come apparire agli altri, hanno la risposta pronta (ecco la velocità), sanno alternare simpatia e aggressività, ma soprattutto non cambiano in base alla fortuna o alla sfortuna. Gli esiti a volte sono paradossali, tristi e comici al contempo: i capi rimangono tronfi e sorridenti, con il petto in fuori e la cresta impettita, a distribuire ganascini e pacche sulla spalla anche quando è chiaro che hanno perso tutto. Essere imperturbabili è un segno di forza, ma può esserlo anche di imbecillità. Non farsi cambiare da quello che ti accade intorno, infatti, significa non capirlo o non volerlo capire. Significa rinunciare programmaticamente alla facoltà della conoscenza.
Naturalmente la leadership ha varie gradazioni, e capita che ci si ritrovi a comandare senza essere dei capi veri e propri. Da un punto di vista politico, però, la conclusione, piuttosto scoraggiante, è che il leader non sarebbe – come volevano Hobbes o Machiavelli – l’individuo scelto dai gruppi per garantirsi dalla paura dell’altro cedendo il proprio potere a un unico sovrano, né – come voleva Robert Carlyle – un eroe, cioè un individuo eccezionalmente dotato e coraggioso incaricato di trainare la storia, ma soltanto un tipo veloce e furbetto, pieno di sé ma piuttosto impaurito e incline al rischio e all’impostura. Se tutti gli altri sono pronti a seguirlo è per non rischiare in prima persona e avere sempre qualcuno a cui dare la colpa, quando le cose vanno male. Il carisma della velocità e del coraggio deriva dal risparmiarci la fatica di pensare. Non è questione di sistema politico, è questione di politica. È il modo in cui gli animali politici si organizzano in gruppi. Il capo si sceglie per pigrizia e comodità, ma non è quasi mai il migliore. Vale nel Serengeti e nella Silicon Valley, nei mobilifici di Seregno e a Kobane, vale in democrazia e nelle dittature, vale anche nel tuo ufficio: il tuo capo è quasi sempre un cretino.