Marina Cappa, Vanity Fair 6/1/2016, 6 gennaio 2016
LA FEDELTA’? È SEMPRE UN PIACERE –
A tavola, di fronte al Golfo di Napoli, Leo Gullotta gioca con l’acqua, versando insieme frizzante e naturale, e gioca con i ricordi. Il 9 gennaio fa 70 anni e li festeggia in teatro con Spirito allegro di Noël Coward che mette in scena un vedovo, il fantasma della moglie defunta, una seconda moglie, equivoci e risate. In tournée per l’Italia (all’Ambra Jovinelli di Roma fino al 10 gennaio, poi a Fano, Viareggio, Bologna...), Gullotta si sposta in macchina. «Ma non ho mai guidato. Neanche il triciclo rosso, che mi avevano regalato da piccolo, e che ho appena ritrovato: intonso, mai usato».
Pensa molto all’infanzia?
«Tengo molto a quei ricordi. Sono stato un bambino fortunato, curioso, tranquillo e sempre sorridente. Sono nato, ultimo di sei figli, in un quartiere popolare di Catania, mio padre era operaio pasticciere. Mi hanno chiamato Salvatore. Ma per tutti sono sempre stato Leopoldo – come il fratello di mamma che si uccise in cattedrale per amore – oppure Poldo, Polduccio».
La curiosità dove l’ha portata?
«Curiosavo al Centro universitario teatrale, e così ho iniziato, poi mi sono ritrovato allo Stabile di Catania, con Salvo Randone, Turi Ferro, Ave Ninchi... 10 anni e 90 commedie».
55 anni di carriera più tardi, è ancora curioso?
«Sì. Ed entusiasta del mio lavoro. Del teatro, del cinema, di come sono entrato gioiosamente nelle case degli italiani».
Sta parlando del Bagaglino, con Oreste Lionello e Pippo Franco.
«Era seguito da 15 milioni di italiani. Abbiamo raccontato da professionisti gli anni ’80 e quello che sarebbero diventati».
Lei si travestiva da donna.
«Ci si divertiva. Eravamo come i Beatles. Per 22 anni».
Anche come testimonial dei Condorelli lei è durato moltissimo.
«Sempre 22 anni. Chi pensa ai Condorelli pensa a me e a: “È sempre un piacere”. Sono felice di aver lavorato per un’azienda siciliana, un’azienda sana».
I soldi guadagnati con la pubblicità le hanno permesso di essere più libero?
«Io ho sempre scelto liberamente. Anche quando facevo le partecipazioni straordinarie al cinema, da Tornatore alle “Soldatesse”. Un medico non opera solo appendiciti, e così l’attore».
Con Tornatore la ricordiamo in Nuovo Cinema Paradiso, ma avete lavorato insieme anche molte altre volte.
«È un poeta della macchina da presa. In Una pura formalità non c’era una parte per me, e ho doppiato Polanski. Non ho il problema del protagonismo».
Quando la rivedremo sullo schermo?
«La prossima stagione, su Raiuno, nella Catturandi, dal nome di una squadra investigativa vera che agisce a Palermo».
E il cinema?
«Non ho progetti, ma ci sono autori molto interessanti, come Saverio Costanzo».
In teatro invece lavora molto. Che cos’è Spirito allegro?
«È una commedia del 1940: c’era la guerra e il teatro esorcizzava la paura della morte. Ebbe un grandissimo successo, adesso ce n’è una versione in scena a New York, con Angela Lansbury e Rupert Everett. Nel testo si rappresenta una upper class degli anni ’40, in fondo uguale alla nostra di oggi: dallo smoking per il tè alla Sagra dell’olivella di Rignano Marino, è sempre la stessa cosa».
Lei pensa spesso alla morte?
«No, ma mi secca. Mi fa incazzare non poter più vedere tutto questo».
Non crede che vedrà qualcosa di meglio?
«No, una volta finito è finito».
Il suo personaggio ci prova con le sedute spiritiche.
«Io non ne ho mai fatte. Credo che dietro a questo bisogno ci sia la volontà di sistemare qualche cosa con se stessi, guardare fuori nella speranza di un aiuto».
È tempo di anniversari: vent’anni fa, ai tempi dell’uscita del film Uomini uomini uomini, lei ha fatto coming out...
«No, ho risposto serenamente a una domanda. Ho vissuto la mia vita sempre serenamente. Il successo nella vita è quello con se stessi, e io l’ho raggiunto».
Quella risposta la danneggiò?
«Ci fu un passo indietro di molte persone che mi conoscevano. Ma per me non era andare in battaglia, rispondere era la cosa più naturale del mondo».
Everett però sostiene di avere avuto la carriera rovinata.
«Io ho sempre sorriso, non è stato facile a volte, ma alla fine ho sempre affrontato tutto in maniera normale».
Avrebbe voluto sposarsi?
«Non c’è bisogno di contratti. Due persone perbene si parlano, tenendo sempre presente il rispetto e la fiducia nell’altro».
E la questione delle unioni civili e delle nozze fra persone dello stesso sesso?
«Quella è una battaglia di diritti. Non vedo perché, essendo un cittadino perbene, dovrei essere discriminato».
Le sarebbe piaciuto avere figli?
«No, forse perché ho cresciuto tanti nipotini. Le mie sorelle erano molto più grandi, me li lasciavano e io mi occupavo di pappe, pannolini...».
È fedele nella vita come nel lavoro?
«Da 38 anni ho un rapporto gioioso, basato su affetto, stima, amore, rispetto».
Fa il suo stesso mestiere?
«No, si occupa di comunicazione».
Quindi in una coppia non è indispensabile condividere gli interessi.
«No. L’importante è che ci sia amore, e che invece non ci siano ansie».
Ansie di che tipo?
«Successo, carriera... Ansie che bisognerebbe allontanare».
Preferisce recitare a Roma, dove vive, oppure in tournée?
«Dopo tanti anni, poter tornare a casa la sera fa molto piacere. Amo star lì con le mie musiche, oppure a leggere. Alzo lo sguardo e vedo qualcosa che mi ricorda un momento della mia vita. Il mio appartamento è pieno di queste piccole cose, che sono presenza di ricordi».
Colleziona qualcosa?
«Non proprio, ma mi diverto con le paperelle. Ho cominciato per caso, forse perché le papere sono sempre date per sciocche, e invece sono animali intelligentissimi, sa?».