David Gallerano, Pagina99 2/1/2016, 2 gennaio 2016
UNA VITA DA PRECARIO NEL CALCIO PROLETARIO
Federico Masi ha 25 anni e da quattro mesi ha preso la decisione di smettere con il calcio. Soltanto cinque anni fa esordiva in Champions League con la Fiorentina. Poi infortuni, la crisi sportiva del suo club successivo – il Bari – e una lenta discesa verso la serie C. La scorsa estate lo svincolo, il raduno con i disoccupati di Coverciano e infine la sofferta decisione: «Tra poco mi laureo in giurisprudenza alla magistrale. Solo un miracolo potrà riportarmi al calcio».
Il miracolo si chiama Serie B, dove ancora – ma per poco – fare i calciatori è un mestiere da privilegiati. «In moltissime società della vecchia serie C», racconta Masi a pagina99, «il professionismo è solo sulle maglie, sulla pecetta Lega Pro». Nell’ultima serie del calcio professionistico italiano lo stipendio medio dei calciatori è di 26 mila euro, contro i 76 e i 258 di B e A; la maggior parte dei tesserati gioca al minimo sindacale – intorno ai 1200 euro mensili – oltre a essere soggetta a una carriera breve e ai sempre più frequenti fallimenti societari e mancate iscrizioni al campionato (107 dal 1985 a oggi), causate da crisi economica e mala gestione. Non solo: nell’ambiente si mormora che alcuni presidenti e persino alcuni allenatori si facciano pagare dai calciatori per metterli in campo.
Le riforme federali non sono bastate per risolvere i problemi e in alcuni casi li hanno addirittura peggiorati. Se la riduzione dei club professionistici da 72 a 60 è stata accolta positivamente, all’indice è finita invece la regola del minutaggio dei giovani, una retribuzione federale legata all’impiego di ragazzi sotto i 23 anni. «Una misura quasi diabolica», secondo Fabrizio Ferrario, presidente dell’Equipe Lombardia (la società che ogni estate organizza un raduno per i giocatori senza squadra). «Li schierano fino ai 23 anni per avere i soldi, illudendoli di essere dei professionisti, poi li abbandonano».
L’atmosfera dell’Equipe, nel bel mezzo del Parco delle Groane, tra la provincia di Milano e quella di Como, ricorda quella di un orfanotrofio. Tra duri allenamenti e amichevoli con squadre professionistiche, i giocatori aspettano ogni giorno la chiamata di una società. Si inizia in 60-70 («ma sono sempre di più», dice Ferrario) e pian piano la rosa si sfoltisce. «Chi trova un contratto ci paga una cena o una bevuta».
Alcuni sono molto sconfortati, c’è bisogno del supporto psicologico degli istruttori del Csi, la federazione sportiva che lavora con gli oratori. «Quest’anno abbiamo proiettato un video di un ragazzo senza gambe e senza braccia che si divertiva giocando. Il messaggio: oltre al calcio c’è altro», aggiunge Ferrario. Alla fine del ritiro sono ancora in tanti a non trovare una squadra. Alcuni, come Masi, rinunciano. L’ultima offerta l’ha ricevuta dal Monopoli, Lega Pro: «1300 euro. Volevo andare con la mia ragazza, ma mi sono fatto due conti: almeno 1000 euro tra vitto e alloggio, se ci metti anche bollo e assicurazione della macchina hai finito». Altri, come Antonio Cilfone – cresciuto nella Roma con Florenzi – si sono dati del tempo e continuano a provarci: «La passione è troppa e non ho rinunciato all’adolescenza per nulla. Ho provato la C portoghese, forse a gennaio me ne torno là». Ad allenare i ragazzi dell’Equipe edizione 2014 è stato chiamato un guru del nostro calcio, Emiliano Mondonico: «La realtà è triste; non ci sono solo i giovani, ci sono anche capifamiglia che si trovano all’improvviso senza lavoro».
Secondo Nicola Bosio, organizzatore del raduno svincolati di Coverciano, «questi ultimi sono in calo. Per aver giocato tutta la vita tra i professionisti devi essere stato un big; e gli ex big non accettano più di giocare in serie C, piuttosto si cercano una dilettanti vicino casa e aprono un’attività».
Un’evoluzione positiva è lo scatto culturale fatto da molti calciatori, specie i più giovani: «Molti hanno capito che a un certo punto devi smettere e dedicarti ad altro. Che provare la strada del professionismo senza tutelarsi, che so, con una laurea in scienze motorie, è un suicidio», prosegue Bosio.
Mondonico ammette di aver «consigliato ad alcuni di aprirsi un’attività alternativa, di mettersi a studiare». Normalmente non ne ha la forza, vuole vederli riuscire: «Gli dico di allenarsi più duramente, di provare con categorie inferiori. Hanno fatto tanti sacrifici, è giusto che continuino a crederci».