Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  gennaio 05 Martedì calendario

IL PONTE DI ORESUND

«Dimenticare gli insulti e le imprecazioni/ e brindare gli uni agli altri/ Così che Loro e Noialtri diventiamo Noi/ Questo è meglio che combattere». Benny Andersen, un poeta danese, sognava così l’apertura del ponte stradale e ferroviario più lungo d’Europa. «Loro» erano gli svedesi, «Noialtri» i danesi, e il «Noi» finale entrambi i popoli più quasi mezzo miliardo di europei. Più ancora, lo si è visto solo negli ultimi due-tre anni, altri milioni di esseri umani in fuga dall’Africa e dall’Asia.
Ora che il ponte sembra chiudersi, sbarrato da timbri e protocolli, c’è in gioco ben altro che il trattato di Schengen. Perché quei 15,9 chilometri di cemento con 54 campate, da quando Margherita II di Danimarca e Carlo XVI Gustavo di Svezia li inaugurarono il primo luglio 2000, hanno riunito il Grande Nord e tutto il resto d’Europa: separati da qualche millennio, fino ad allora, nella geografia fisica, nella storia, nell’economia, nella cultura. Non c’erano aerei e navi, già nel 2000? Certo che sì, ma il cemento e i binari sono stati il sigillo, il simbolo di due mondi che si saldavano. Da allora un europeo — e da poco un africano, un asiatico, chiunque — ha potuto andare dal Sud dell’Europa al Circolo polare artico e simbolicamente allo stesso Polo Nord, senza sollevare i piedi dalla terra, e altrettanto simbolicamente senza dover scavalcare barriere e fili spinati.
Il ponte è stato inaugurato 15 anni fa ma in fondo era da 100 anni in progettazione, almeno nelle menti e nei sogni di governanti, ingegneri, poeti. Anzi, forse da prima. Da quando Eric Dahlberg, ingegnere spione svedese, fu mandato dal suo re Carlo X Gustavo a tastare, letteralmente, il ghiaccio degli stretti di Danimarca. Si era nell’inverno 1658, Carlo Gustavo tornava a rotta di collo dalle disastrose scorrerie in Polonia per gettarsi su un bottino più prestigioso: la Danimarca, rivale di sempre. Ma la Danimarca era, appunto, protetta dal suo mare e dai suoi stretti. Risolse tutto l’ingegner Dahlberg. A fine gennaio 1658 rientrò dalle sue ispezioni segrete, compiute con i meteorologi di corte, riferendo che entro un paio di giorni il ghiaccio sarebbe stato ormai così solido da reggere un‘armata. Così settemila soldati, scelti fra i veterani più duri, con migliaia di cavalli e spingarde, varcarono gli stretti: Copenaghen fu stretta d’assedio, e un patto umiliante fu imposto al suo Federico III. Soprattutto, i generali e i sovrani d’Europa presero atto: il Grande Nord non era un pianeta quasi irraggiungibile, né i suoi mari una barriera quasi invalicabile; e altrettanto pensarono di Berlino, Parigi o Roma gli altri, i discendenti dei Vichinghi. Dalle parti di Copenaghen, un detto scaramantico spiegava: se lo stretto di Oresund gela e uno svedese cammina sul ghiaccio verso la Danimarca, i danesi hanno il diritto di accoglierlo a bastonate. Ma l’inverno, e il ghiaccio, erano ovviamente solo una scappatoia precaria per gli uni e per gli altri. Solo un ponte, prima o poi, poteva essere la soluzione vera, in guerra o in pace. E dopo qualche secolo, il ponte arrivò.
Verso il 1995, si pensava molto in grande: costruire alte dighe attraverso l’Oresund, e crearvi in mezzo la base di terraferma per il futuro ponte. Poi, i ministri delle finanze fecero un paio di conti, e i preventivi calarono. Il progetto fu anche una grande sfida ambientale, ancora non si sa bene se vinta o no. L’acqua del mar Baltico che giunge allo stretto di Oresund mantiene equilibri delicatissimi perché è essenziale, ricca com’è di sale e ossigeno, all’armonica sopravvivenza di pesci come i merluzzi o le aringhe: così draghe gigantesche hanno scavato sul fondo marino, per far sì che piloni, campate o isole artificiali non riducessero proprio gli scambi d’acqua.
Per l’Unione Europea, tutto il progetto fu dall’inizio obiettivo fondamentale. E non solo per ragioni economiche: si calcolò che — simbolo per simbolo — il ponte avrebbe ancorato assai di più alla casa comune la Danimarca, che dal 1973 sta nella Ue ma non nell’eurozona, e conserva gelosamente alcuni «opt-out», possibilità di esonero da certe norme europee.
Nel frattempo è arrivato il trattato di Schengen, compimento di uno dei principi fondatori dell’Ue, la libertà di circolazione. «Oresund», quel nome che per tanti era stato una finestra di speranza, è divenuto per altri un’ombra minacciosa, più gelida dei ghiacci sui quali galopparono i cavalieri svedesi.