Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  gennaio 02 Sabato calendario

MALEDETTO CALIFFO QUESTA GUERRA NON CI SERVE

Sostiene il Pentagono che per contenere l’Isis (finora senza riuscirci), il contribuente americano paga già tra i 7 e i 10 milioni di dollari al giorno; un missile Tomahawk è valutato un milione e mezzo, un F22 Raptor brucia 68 mila dollari per ogni ora di volo. Secondo l’Institute for Economics and Peace (Iep), che ha pubblicato il Global Peace Index 2015, le violenze nel mondo sono costate 14 mila e 300 miliardi di dollari, pari al 13,4% del Pii mondiale, equivalente alle economie di Brasile, Canada, Francia, Spagna e Regno Unito messe insieme. Soltanto per gestire una massa di rifugiati e sfollati (almeno 50 milioni) che non ha paragoni se non con il 1945-46, sono stati spesi lo scorso anno 128 miliardi. E poi ci sono le macerie e le rovine che restano sul terreno. C’è l’effetto psicologico, l’incertezza, la strategia della paura, tutto ciò che influenza le menti degli uomini a cominciare da quelli che manovrano e manipolano montagne di denaro.
Tutto questo va messo nel segno meno, i costi della guerra sono evidenti e terribili. Ma le sue conseguenze economiche sono anche piene di benefici. Ebbene sì, il mostro bifronte offre occasioni, opportunità, crescita, salto tecnologico. Forme, tempi e ritmi dipendono naturalmente dalla natura dello scontro e quel che si sta combattendo oggi ha caratteristiche nuove.
Senza voler riaprire la vexata quaestio se sia stato il New Deal rooseveltiano o il secondo conflitto mondiale a mettere fine alla Grande depressione degli anni ’30, il recente passato ci mostra una relazione positiva tra guerra e crescita economica. Alla campagna di Corea fece seguito il primo boom degli anni ’50; il Vietnam mise in moto il prodotto lordo americano negli anni ’60 (poi la sconfitta, mentre scoppiava la crisi petrolifera, riportò indietro l’orologio); la corsa agli armamenti tra SS20 e missili cruise negli anni ’80 ebbe un impatto benefico sugli Stati Uniti e sull’Europa. Anche dopo l’11 settembre la campagna in Afghanistan e quella in Iraq (prima fase) coincisero con una ripresa che finì con il crac del 2008. E adesso, ci sarà uno stimolo alla crescita e da dove verrà il moltiplicatore?
La torta non è piccola, anche se i sette anni di vacche magre l’hanno ridotta nei Paesi occidentali. Secondo la classifica del Sipri (Stockholm International Peace Research Institute), la fonte più autorevole sui bilanci militari, nel 2014 sono stati spesi 1.776 miliardi di dollari, circa 600 destinati a nuovi sistemi d’arma. Gli Usa restano i principali esportatori di armi con una quota del 31%, incalzati dalla Russia con il 27, più lontana la Cina con il 5 (anche se ha raddoppiato l’export nell’ultimo decennio). L’Italia è al 3%, ma la vendita all’estero è aumentata del 30% negli ultimi cinque anni.
Nell’ultimo decennio due Paesi hanno guidato la danza, innanzitutto la Cina e poi, in una fase più recente, la Russia, mentre gli Stati Uniti (spendono il 4% del Pil contro il 3,5 della Russia e il 2 della Cina) hanno avuto stop and go legati sia al ciclo economico (la lunga recessione ha inciso e dal 2010 la spesa militare si è ridotta di quasi il 20%) sia alle priorità strategiche. Un vero salto mortale lo ha compiuto l’Arabia Saudita passando dal 7,7 al 10% del prodotto lordo, il che la dice lunga su come gli eredi di Ibn Saud vedono il loro posto al sole del Golfo Persico. Da due anni a questa parte, tutti i governi vengono sollecitati a spendere di più. Persino la neutrale Svezia ha allargato il bilancio militare e aumentato gli effettivi dell’esercito nel timore del neoimperialismo russo.
La Cina ha costruito un esercito non solo imponente (lo è sempre stato), ma ben armato, e fino ai denti. Ha investito molto in cibernetica, ha imparato benissimo a controllare le informazioni (metà degli attacchi a siti e indirizzi e-mail negli Stati Uniti provengono da hacker cinesi privati o pubblici), s’è lanciata nello spazio e adesso il suo obiettivo strategico è diventare quel che non è mai stata nella storia: una potenza navale. La Russia di Putin non si è limitata a scrostare la ruggine al vecchio arsenale dell’Armata rossa, si è appropriata delle nuove tecnologie e rafforzata nell’elettronica, la spina dorsale, di ogni esercito moderno.
Gli Stati Uniti hanno adottato la dottrina Rumsfeld sulla guerra leggera, puntando soprattutto su sistemi d’arma sempre più sofisticati e precisi (la teoria e la pratica delle bombe cosiddette intelligenti) che possano fare a meno dell’intervento diretto dell’essere umano sul campo. Il drone, sperimentato per la prima volta nel 2004 in territorio pakistano, può diventare il cacciabombardiere del futuro mentre a terra la realtà s’avvicina sempre più alla fantasia, perché il nuovo soldato Ryan (per lo meno il suo modello ideale) assomiglia allo Schwarzenegger di Terminator.
Tutto ciò corrisponde alle caratteristiche della new war, categoria sulla quale si è esercitata Mary Kaldor (figlia del vecchio economista keynesiano Nicholas), che diventa il paradigma dominante dopo la fine della guerra fredda. Di che si tratta? I punti principali sono: 1) la combinazione di Stati e soggetti non statali che si combattono o che interagiscono; 2) il richiamo identitario per battersi in nome di un marchio al posto delle vecchie ideologie; 3) il tentativo di ottenere il controllo politico piuttosto che fisico della popolazione attraverso la paura e il terrore; 4) gli eserciti si finanziano non attraverso le tasse imposte dagli Stati, ma con una varietà di altri mezzi, spesso predatori; 5) c’è poi il contesto, la globalizzazione che offre non solo un teatro mondiale, ma una panoplia di mezzi e strumenti, si pensi soltanto all’uso di internet e dei social media.
È la «digitalizzazione della guerra», come la chiama Anja Kaspersenn, responsabile della geopolitica al World Economic Forum che organizza gli annuali seminari di Davos e influenza l’élite dei decision maker. Gli eserciti si fanno interdisciplinari, debbono essere in grado di contenere, prevenire e intervenire, operare a bassa intensità e in modo sotterraneo, ma dispiegare anche il massimo potenziale di fuoco, Non solo, tocca loro assistere le popolazioni e farsi carico del nation building. Il soldato oggi ha molte facce e non tutte sono quelle feroci del guerriero. Le università si militarizzano, i politecnici, le facoltà umanistiche (si pensi a quanto serviranno gli arabisti). Di nuovo, pace e guerra diventano sempre più storie parallele, come aveva capito Lev Tolstoi.
Così, le conseguenze economiche della guerra non si misurano solo nella spesa annua calcolata dal Sipri, bisogna mettere in conto la ricaduta d’insieme. Più che un bilancio dello Stato ci vuole una tavola input-output su scala mondiale. Se anche Facebook può essere un’arma da combattimento, è chiaro che tra industria bellica e civile si crea un confine così poroso che tende a scomparire. È sempre esistito un intreccio, naturalmente, il caso della rete militare americana Intranet culla di internet è il più evidente; adesso arriviamo alla simbiosi.
Dai tempi dei tempi, lo spionaggio ha una funzione fondamentale, tuttavia nei nuovi conflitti l’intelligence esercita il ruolo chiave. È stato Leon Palletta a far compiere alla Cia il gran passo con l’uso delle killing machines che ripristina in forma tecnologica la licenza di uccidere eliminata dopo la sconfitta in Vietnam. Anche questo ha costi e benefici. Da un lato il bilancio dell’agenzia può essere ridotto (è più caro mantenere degli uomini che delle macchine), dall’altra la sua domanda di marchingegni sempre più sofisticati, da caverna di Batman, di computer super-intelligenti e ultra potenti, di esperti che sappiano usarli, rappresenta un volano per l’industria e per la scuola.
L’osmosi tra civile e militare non è favorita solo dal primato dell’information technology, ma dal mutato ruolo dei governi. Finanziatori e committenti dopo la fine della guerra fredda hanno assunto un ruolo attivo, diretto come in Francia o in Italia, indiretto, di guida e programmazione, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, favorendo la concentrazione del settore degli armamenti, il suo ammodernamento, la metamorfosi tecnologica. Il nuovo complesso militar-industriale si presenta ancor più integrato del vecchio, ed è diventato pervasivo, come spiega il World Economic Forum (Wef), «influenza la politica interna e internazionale, l’innovazione tecnologica, il clima, la gestione delle risorse, non solo quelle energetiche».
Torniamo al punto di partenza: un conflitto armato su vasta scala può dare quell’impulso che manca agli animal spirits? La storia ci dice che nel breve periodo ha senza dubbio un impatto positivo. Nel passato, però, abbiamo visto conflitti, anche lunghi e devastanti, che hanno provocato shock definiti nel tempo. «I conflitti bellici moderni non hanno un chiaro inizio e nemmeno una fine precisa», sottolinea il rapporto del Wef, e una guerra asimmetrica, a bassa intensità, finisce per spossare l’economia, come una febbre continua, un mal sottile. Le società occidentali verrebbero trasformate da cima a piedi, dal governo alla scuola, la militarizzazione sarebbe inevitabile, e a quel punto non ci sarebbe differenza tra il primo ministro e il comandante in capo. Fantapolitica? Forse, ma la guerra c’è già, quanto ai suoi effetti, li misureremo molto presto.