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 2016  gennaio 05 Martedì calendario

Perché il petrolio costa così poco L’Arabia Saudita, il più grande esportatore al mondo di petrolio, è costretta a varare misure di austerità come una Grecia qualsiasi

Perché il petrolio costa così poco L’Arabia Saudita, il più grande esportatore al mondo di petrolio, è costretta a varare misure di austerità come una Grecia qualsiasi. Mazza: «Succede in un momento delicato, mentre Riad ha una serie di sfide aperte per la sicurezza e il predominio regionale: innanzitutto la battaglia con l’Iran sciita, anche attraverso le guerre in Yemen e in Siria; l’Isis alle porte; il sostegno al governo del Cairo. Sfide che richiedono il dispiegamento di enormi risorse» [1]. Re Salman bin Abdulaziz Al Saud, salito al trono undici mesi fa a 79 anni, ha presentato un bilancio 2016 che prevede un deficit fino a 326 miliardi di riyal (87 miliardi di dollari, poco meno di 80 miliardi di euro). E ha annunciato tagli alle spese, una riforma dei sussidi (quelli energetici costano il 13% del Pil) e privatizzazioni in una varietà di settori. Il primo decreto reale riguarda la benzina, che costerà il 50% in più (comunque 24 centesimi al litro), le bollette della luce (più salate per i ricchi) e dell’acqua (per tutti). Misure ritenute necessarie perché il paese è in deficit da due anni. Nel 2015 il disavanzo di bilancio ha toccato il 15-16% del Pil. Livelli greci [1]. Pochi giorni fa anche l’Oman, altro stato della penisola arabica, ha annunciato una maxi manovra all’insegna dell’austerità: per l’anno che è appena iniziato ha deciso di tagliare la spesa pubblica del 15,6%. La previsione del sultano Qabus bin Said Al Said è di investire 113 miliardi di riyal, vale a dire 30,9 miliardi di dollari, contro i 36,6 miliardi spesi tra sgravi e opere pubbliche nel 2015. Le entrate attese per quest’anno ammontano a 22,3 miliardi di dollari, ovvero in un ulteriore calo del 26% rispetto allo scorso anno. Pertanto la spending review era inevitabile. Resta che anche dopo i tagli il deficit 2016 del sultanato è stimato a quota 8.6 miliardi di dollari, oltre il 10% del Pil. Grecia anche qui [2]. Qualcosa di simile sta per succedere anche dall’altra parte del mondo, in un’altra zona dove si estrae molto e il greggio finanzia il 90% dei circa 5 miliardi di dollari del bilancio statale: l’Alaska I suoi 500mila abitanti hanno un reddito medio di 64mila dollari all’anno, cioè il quarto più alto degli Stati Uniti. Non pagano imposte e ogni anno ciascuno di loro beneficia di un assegno di duemila dollari staccatogli dal governo locale. Nel 2016, per la prima volta negli ultimi 35 anni, potrebbero essere costretti a pagare le tasse [3]. La ragione di queste misure di austerity in paesi ricchissimi fino a pochi anni fa è l’ormai nota e prolungata discesa del prezzo del petrolio. A dicembre il Brent ha raggiunto i 36 dollari al barile, arrivando ai minimi dal 2004. Un crollo di quasi il 70% dal giugno 2014, quando girava intorno ai 115 dollari. Un evento del genere non l’aveva previsto nessuno [4]. Il prezzo è sceso ancora nel mese scorso, soprattutto dopo la riunione dell’Opec del 4 dicembre. L’Opec è l’organizzazione che riunisce alcuni dei maggiori paesi produttori di petrolio (tra i principali: Arabia Saudita, Iraq, Iran, Kuwait, Venezuela, Algeria, Emirati Arabi Uniti, Libia, Nigeria, Qatar). Durante le riunioni i membri cercano di mettersi d’accordo su come gestire la produzione. Si tratta sostanzialmente di un oligopolio: un mercato composto da pochi produttori che possono accordarsi per mantenere livelli di produzione che tengano alti i prezzi, oppure litigare per cercare di ottenere ognuno una fetta di mercato maggiore. La riunione del 4 dicembre è finita senza l’accordo per una riduzione della produzione che in molti aspettavano, lasciandola invariata agli attuali 31,5 milioni di barili al giorno. Conseguenza: il greggio è andato ancora più giù [5]. Il prezzo del petrolio così basso deriva da un eccesso di offerta (l’offerta è la quantità prodotta dalle aziende petrolifere) mentre la domanda (la quantità di petrolio che la gente vuole comprare) è rimasta piuttosto stabile. C’entrano le politiche produttive di Arabia Saudita, Stati Uniti, Russia e Iran [5]. L’Arabia Saudita, a fronte di un calo dei prezzi nel 2014 dovuto al boom di petrolio Usa prodotto da scisto (lo shale oil), non ha risposto tagliando la propria produzione ma pompando volumi record di greggio sul mercato per tentare di soffocare i concorrenti americani (che hanno costi di produzione più alti degli arabi) e ridurre le quote di mercato degli altri paesi Opec. Una linea che dura da un anno e mezzo e lascia Riad con pesanti ammaccature ma che la monarchia di re Salman non vuole cambiare. Bernard Haykel, docente di Princeton: «L’Arabia Saudita può tollerare questa situazione per altri tre quattro anni, grazie alle riserve valutarie e ricorrendo al mercato obbligazionario. L’altra scelta non è migliore: se cede ora quote sul mercato del greggio, verranno subito occupate da altri» [1]. Gli Stati Uniti, grazie appunto allo sviluppo di nuove tecnologie di estrazione e lavorazione, sono diventati negli ultimi due anni il primo paese produttore di petrolio al mondo. E la massiccia produzione di petrolio shale, ottenuto dalle argille, ha causato anch’esso un eccesso di offerta nel mercato domestico. Inoltre, a peggiorare le cose c’è la pagina di storia che si è scritta il 31 dicembre 2015 al porto di Corpus Christi in Texas, dove ha salpato la prima nave cisterna di greggio americano destinato all’esportazione. Semprini: «È il primo atto del nuovo capitolo scritto da Barack Obama con la legge che elimina il divieto di esportazione di greggio adottato negli anni ’70 in risposta alla crisi petrolifera». Se durante il 2015 la discesa del greggio ha prodotto l’abbandono di importanti progetti di sviluppo in Alaska e nel mare di Bering e il fallimento di compagnie di trivellazione per quasi 2 miliardi di dollari, è altrettanto vero che la fine del blocco all’export potrebbe rivelarsi un cannone commerciale puntato contro l’Opec e la Russia [6]. La Russia, appunto. L’estensio-ne delle sanzioni applicate da molti paesi occidentali al secondo maggiore produttore di petrolio al mondo, ha costretto il governo ad aumentare molto la produzione. Mai, dopo il crollo dell’Unione sovietica, la Russia aveva tirato fuori dal sottosuolo così tanto petrolio. A novembre è stata toccata quota 10,8 milioni di barili al giorno, superando quella dell’Arabia Saudita, cui Mosca contenderà quest’anno il primato dell’export mondiale. Tacconi: «La Russia ha innalzato l’asticella perché deve cercare la quadratura dei conti, in ragione della complicata congiuntura economica che sta vivendo. Da una parte ci sono gli strascichi della crisi globale, dall’altra le sanzioni adottate da Washington e Bruxelles che la accusano di fomentare la destabilizzazione in Ucraina. Il 2015 si è chiuso in recessione, il 2016 dovrebbe sancire la crescita zero. Servono soldi per coprire le falle e provare al contempo a ridare slancio al sistema. L’energia, non può essere altrimenti, è la leva primaria. Il petrolio, in particolare, l’arma in più in questo momento (l’inverno mite ha fatto scendere domanda e produzione di gas)» [7]. Alexander Novak, il ministro russo dell’Energia, punta l’indice contro l’Arabia Saudita. A suo avviso sono stati gli sceicchi a destabilizzare il mercato, aumentando la produzione e facendo flettere verso il basso la curva dei prezzi. Mosca s’è dovuta adeguare. Qualcuno sostiene che la scelta del Cremlino di intervenire in Siria, dove Riad ha un ruolo chiaro e ambisce a spazzare via il regime di Assad, dipenda anche da questo. Corrisponderebbe, in pratica, al tentativo di costringere l’Arabia Saudita a tagliare la produzione facendo gonfiare i prezzi. Di contro, c’è chi crede che le opzioni petrolifere degli sceicchi si leghino alla volontà di affossare i rivali iraniani e i loro alleati russi, che sulla Siria e sull’intero scacchiere mediorientale si prefiggono obiettivi opposti [7]. Infine, al contrario della Russia, la recente distensione politica di molti paesi occidentali nei confronti dell’Iran, e la seguente rimozione delle sanzioni, permetterà al paese guidato da Rouhani di inserirsi nella competizione per accaparrarsi la maggior quota di esportazione possibile. Secondo gli economisti del Fmi, «l’aumento dell’offerta di petrolio da parte dell’Iran dovrebbe mettere sotto pressione i prezzi globali di un valore compreso tra 5 e 15 dollari al barile». L’Iran quest’anno sarà dunque un player pesante sul mercato petrolifero se riuscirà a mantenere gli ambiziosi target produttivi che si è voluto dare, allacciando rapporti commerciali con una fitta rete di paesi clienti. A tal riguardo, la notizia che l’India sarebbe pronta a importare la quota di greggio iraniano a livelli pre-sanzioni (Cina e Corea del sud si sono già accordate per farlo) potrebbe modificare l’assetto sui mercati asiatici [8]. E così, in una sorta di rovesciamento della geopolitica del petrolio, il mini-barile ha causato un effetto domino sui mercati finanziari con le contrazioni dei ricavi di diversi paesi emergenti, grandi produttori di petrolio, aggravato anche dal calo della domanda della Cina dovuto alle incertezze finanziarie di questa estate. Fubini: «Ma l’offerta non scenderà: ciascun paese produttore cercherà di difendere le proprie quote di mercato e far fruttare gli investimenti fatti. Oggi nel mondo si producono 3 milioni di barili al giorno di troppo. Continuerà così» [9]. (a cura di Francesco Billi) Note: [1] Viviana Mazza, Corriere della Sera 30/12/2015; [2] Sara Bennewitz, la Repubblica 2/1; [3] Paolo Mastrolilli, La Stampa 27/12/2015; [4] Ester Corvi, MilanoFinanza 2/1/2015; [5] Il Post, 21/12/2015; [6] Francesco Semprini, La Stampa 2/1; [7] Matteo Tacconi, Il Foglio 30/12/2015; [8] Gabriele Moccia, Il Foglio 2/1; [9] Federico Fubini, Corriere della Sera 2/1.