Matteo Della Vite, La Gazzetta dello Sport 2/1/2016, 2 gennaio 2016
MURILLO: «IL MIO DOVERE È LOTTARE»
Il corpo è il nostro manifesto: lo puoi tinteggiare come vuoi. Per capirci: Jeison Murillo detto Il Muro 2.0 (post Samuel), tipo educatamente tosto, sul proprio interno avambraccio ha tatuato un nome. Quello del papà, Jose James. «Il pane a casa non mancava, papà faceva l’imprenditore ma eravamo in tanti e non è stato facile portare avanti una famiglia numerosa. Ecco: se non ho preso brutte strade nelle vie della mia città, in Colombia, dove l’infanzia può andare per traiettorie sbagliate, beh, è grazie alla cultura del rispetto, della famiglia, della correttezza e dell’amore verso Dio che lui e mia madre mi hanno dato da piccolo». Il Muro dell’Inter ha un partner nerazzurro di nome Miranda: ma questa è un’altra storia, altrettanto pulsante.
NELLO SPOGLIATOIO Il Muro dell’Inter è un Giovane Adulto di 23 anni che decide di raccontarsi dentro lo spogliatoio dell’Inter qui al Lekhwiha sports club, zona universitaria di Doha: una salutare chiacchierata a base di sogni realizzati, pericoli scampati, una celebrità che arriva dopo aver ammutolito Messi e un approccio con l’Inter sorprendente. Ma non per lui. «Ho sempre voluto fare il calciatore. Fin dai tempi in cui io, piccolo piccolo, venni raggiunto dall’Inter prima di diventare interista veramente». Storie di Inter Campus. E di guerrieri.
Apparentemente lei è tranquillo, posato, riflessivo. Poi?
«Credo di essere più maturo dei miei 23 anni, sono il sesto di sei figli e nel crescere dentro una famiglia splendida secondo una vita umile si capiscono molte cose. E forse ci si sviluppa prima».
Lei però, in campo, si trasforma davvero.
(sorride) «Sì sì. Perché quando sei dentro alla battaglia la tua cabeza , la testa, cambia. E lì divento un guerriero: bisogna lottare, guadagnarsi ogni cosa. Detto questo, sono poi sempre un chico , un ragazzo che ama vivere bene, molto e con semplicità».
Oltre al calcio cosa c’è?
«La mia fidanzata Samantha (ingegnere petrolifero che frequenta un Master a Milano, ndr), tanto relax fuori dal campo, poi Bella e Dante che sono i miei due bellissimi cani».
Dante: ma la serie A è un Inferno o un Paradiso?
«Ovvio: un Paradiso. E’ il campionato nel quale tutti prima o poi vogliono arrivare. Se lo pensavo così? Lo sognavo, ecco».
Storia nota ma va ripetuta: un bel giorno, nella sua squadretta in Colombia, arriva il timbro di Inter Campus. Quel che si chiama destino è tutto dentro a quell’inizio.
«Destino, davvero. Quella prima squadretta del mio quartiere si chiamava Andresanin e divenne partner del progetto Inter Campus, quello che porta il calcio e aiuti ai bambini nel mondo. Bene, un giorno arrivarono portando un mare di regali nerazzurri: maglie, palloni, scarpe, anche foto autografate».
E lei voleva quella di?
«Ivan Ramiro Cordoba: era l’idolo della mia mamma, e di tutti in Colombia. Ricordo che regalavano maglie a maniche lunghe e faceva caldo: ecco, io quella maglia la indossavo da mattina a sera, fino alla sfinimento, sudando all’infinito».
Quando dicono che l’Inter gioca male cosa pensa?
«Penso al primo posto. Penso che sia importante capire le cose che non vanno bene, migliorare sempre, acchiappare il momento e anche il risultato. Nel calcio, alla fine, conta quello».
Sta contando, e pesando molto, la perfetta «connection» con Miranda. Come ci siete riusciti in sei mesi?
«Ci troviamo come fossimo insieme da sempre. I motivi? Veniamo dallo stesso campionato, da due squadre robuste e forti, c’è esperienza anche tattica, collaborazione, comunicazione, semplicemente ci capiamo al volo».
Ecco: quanto parlate fra voi due e Handanovic?
«Molto. E Samir ci urla le cose in italiano. In cosa dobbiamo migliorare? C’è sempre qualcosa di invisibile da perfezionare».
Miranda fuori pare timidissimo.
«E’ vero, ma in campo anche lui cambia testa: gioca senza paura di nulla, da leader».
E’ un’Inter che può essere piena di leader.
«Siamo una squadra nuova, ma di gente che ha grosse personalità e unione. Se sai di avere a fianco compagni forti, di carattere, grossi fisicamente e che fanno paura, beh, allora vieni contagiato, trascinato. E questo succede a ognuno di noi, a me e a tutti. Questa è l’Inter, e questa è anche la sua forza».
E la forza di Mancini?
«Dà tranquillità, sa guidare la squadra e va seguito: l’esperienza che ha è una garanzia in ogni senso».
Ed è garantito che lei resterà all’Inter? Secondo alcuni rumors, prima il Real Madrid poi anche il Barcellona e il Liverpool si sono interessati a lei.
«E’ bello che si dicano certe cose. Com’è quella citazione? Nel bene o nel male, basta che se ne parli. Ma io sono un professionista e rispetto la mia camiseta , la maglia che indosso. Fino all’ultima goccia di sudore».
Si parla di lei come nuovo Samuel: era soprannominato «Il Muro», mentre Murillo lo chiamano «La Muralla». Ci siamo...
«E’ un grande piacere sentirmi accostato a giocatori di valore, come lui o Cordoba. Ma è il momento di essere... Murillo».
Che come idolo ha?
«Thiago Silva è un riferimento. Cosa penso di avere di lui? Io penso di avere tutto di... Murillo. L’altra sera, qui a Doha, ci siamo incontrati: era già successo, ma mai come in questo caso siamo riusciti a parlare un po’. Mi ha fatto i complimenti per il mio lavoro, mi ha incoraggiato e poi alla fine ci siamo scambiati la maglia. Bellissimo momento».
Scudetto è una parola bellissima ma da non pronunciare?
«Pronunciare la parola scudetto all’Inter non è un pensiero: è un dovere».
Sarà una lotta fra Inter e Juventus?
«Noi pensiamo a noi, e basta».
Il miglior attaccante affrontato?
«Quando non stai attento, tutti».
Avremmo detto Messi: nell’aprile 2014, Granada-Barcellona, Murillo ammutolì Leo fino a diventare celebrità.
«Giocare contro Messi è speciale: lui è uno dei migliori, se non il miglior giocatore del mondo. Ma quella volta non fu merito mio ma dell’intera squadra».
A volte, nel vostro lavoro, capita di essere espulsi.
«Tutti sbagliamo, ma il mio rosso di Palermo proprio non lo capii. E ci rimasi male perché non era fallo. Comunque è passata, come la sconfitta con la Lazio: andiamo oltre».
Nel futuro, quale regola farebbe cambiare nel calcio?
«Non da difensore ma da giocatore: mi pare che gli arbitri fischino troppo. Uno sfiora col dito un altro, questo si butta per terra e fischiano. Mi pare eccessivo».
Quanti tatuaggi ha?
«Quattro, perché?».
Se vince lo scudetto se ne fa un altro?
«No, no. Se vinciamo festeggio a casa, sul divano con Samantha, Bella e Dante». Non proprio un inferno, ecco.