Stefano Lorenzetto, Il Giornale 2008, 1 gennaio 2016
Da quando faccio questo mestiere, solo due intervistati hanno avuto l’ardire di propormi il giorno di Natale per la nostra chiacchierata: il primo è stato Hamza Roberto Piccardo, all’epoca segretario dell’Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia; il secondo Vittorio Sgarbi
Da quando faccio questo mestiere, solo due intervistati hanno avuto l’ardire di propormi il giorno di Natale per la nostra chiacchierata: il primo è stato Hamza Roberto Piccardo, all’epoca segretario dell’Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia; il secondo Vittorio Sgarbi. Qualcosa vorrà pur dire. Ancor più preoccupante è che il critico e storico dell’arte, sommo pontefice degli extravaganti, sia riuscito nel suo intento, al contrario del musulmano. L’avevo rintracciato alle 16 della vigilia, dopo aver digitato per una settimana i nove numeri di cellulare accumulati nell’agenda alla voce «Sgarbi», con l’intento di sondare la sua disponibilità per l’inizio di gennaio. Mi ha colto di sorpresa: «Possiamo fare domani, no? Uno di ’sti giorni inutili del cazzo». Così, dopo aver partecipato alla messa dell’aurora in una clinica per malati psichici e consumato il pranzo di mezzogiorno in una casa di riposo per anziane, colto da un estremo sussulto di generosità ho tenuto compagnia a Sgarbi dalle 16.30 alle 20.30 del più santo dei nostri giorni inutili. Il Natale non la intenerisce? «Non capisco perché tutti mi facciano gli auguri il 25 dicembre. Sono nato l’8 maggio. L’unico Natale che conosco è il mio. Devono farli a Gesù, gli auguri. Che c’entro io? Non siamo nemmeno parenti». Con chi l’ha passato? «Con nessuno. Per me i giorni di festa sono gli unici giorni feriali. Durante la settimana la gente mi applaude, mi ferma per strada, mi chiede l’autografo. Da antipatico d’Italia sono diventato beniamino dei gay, degli extracomunitari, dei graffitisti, della sinistra, dei derelitti». Mi ricordo che il massimo della sua eccentricità, 20 anni fa, si esprimeva con un corsivo sull’Europeo, a corredo di una mia inchiesta, nel quale dichiarava disgustato che evitava i ristoranti dove si serviva la Ferrarelle. È peggiorato. «Sono piuttosto esigente. Per fortuna ho trovato un ristorante dove c’è la carta delle acque minerali. Conduco una vita di grande semplicità, non capisco chi si complica l’esistenza». Per esempio? «Quelli che acquistano i jeans già rotti, invece di rovinarseli da soli arrampicandosi sugli alberi. La compravendita di stracci usati dimostra che l’alterazione è nella mente degli altri. Oggi la vera anormalità consiste nell’essere normali». Era un battitore libero già da bambino? «Sì, mi ribellai fin da subito alle orribili gite domenicali, quando partivamo da Ferrara per andare a mangiare il pesce nei ristoranti di Fano o di Ancona. Siccome a 6 anni tutte le donne che entravano nella farmacia di mio padre mi sbaciucchiavano, la sera mia madre avrebbe voluto disinfettarmi con l’alcol. Io allora ostendevo i palmi gridando: “Mani pulite”. Sono stato un precursore. Il mio antagonismo fiorì nel 1962, quando fui messo in collegio dai salesiani, a Este. Due anni di galera. Alla fine mi cacciarono». Per indegnità? «Per aver buttato l’insegnante di ginnastica giù dalle scale di una chiesa trasformata in palestra. E per essere stato scoperto a leggere di nascosto Pavese, D’Annunzio e Proust, ma soprattutto Senilità di Italo Svevo. Tutti gli autori erano all’Indice, tranne Collodi e De Amicis. Il direttore, don Silvino Pericolosi, voleva che leggessi I dolori del giovane Werther, ignorando che anche Goethe figurava nell’Index librorum prohibitorum. Da noi l’Ottocento è durato fino agli anni 60. In fondo non era male. Esisteva un’autorità, per cui aveva senso ribellarsi. Il punto di svolta fu il ’68, con la liberazione sessuale e la fine della repressione. Feci guadagnare una generazione a mia madre e mio padre, li trasformai in miei coetanei. Da allora per me sono Rina e Nino». A che cosa fa risalire la sua spiccata originalità? «Ho preso da mio zio, Bruno Cavallini, che fu insegnante di latino e greco nei licei, prima all’Ariosto di Ferrara e poi all’Omero e al Beccaria di Milano. Gli ho dedicato un premio letterario a Pordenone, con una commissione che per statuto è composta da un numero dispari di giurati inferiore a tre, cioè da me solo. Mi convoco, decido chi premiare e stacco io l’assegno». Vogliamo passare in rassegna le sue stravaganze? Posare nudo in copertina, per esempio. «Accettai l’offerta, 80 milioni di lire, perché era il modo migliore per calpestare L’Espresso. E anche per prendere in giro Luciano Benetton». Che aveva contro Benetton? «Ma come? Il più ricco del Parlamento risultava Gianni Agnelli, con 11 miliardi di reddito, seguito da Sgarbi, con 1,8, mentre il senatore Benetton dichiarava appena 600 milioni. Per ritorsione Resto del Carlino, Nazione e Tempo, dov’ero editorialista, mi licenziarono. Contraccambiai annunciando in tv che i tre quotidiani avevano chiuso. Richiesta di danni miliardaria». Che altro? «Siccome Silvio Berlusconi, ben prima dell’editto bulgaro contro Enzo Biagi, Michele Santoro e Daniele Luttazzi, aveva minacciato di licenziare Giuliano Ferrara e me da Canale 5, a Sgarbi quotidiani mi censurai da solo: 13 minuti di silenzio assoluto, 3,7 milioni di spettatori, un ascolto mai visto. Fino a che il regista Filippo Martinez non agitò un cartello con su scritto “Basta!”. Era finita la puntata». Rifarebbe quella copertina senza le mani davanti, stile David Beckham? «Se mi dessero 100 mila euro, subito. Per due milioni di euro sarei andato anche all’Isola dei famosi. Me ne avevano offerti prima 400 mila, poi 800 mila. Fossero arrivati a un milione e 600 mila, avrei accettato». Il pudore l’hanno inventato gli uomini, le donne o la natura per entrambi? «Il pudore è un equivoco. Nasciamo nudi, quindi non dovrebbe esistere. Prive per secoli di un ruolo sociale, le donne non si sono spogliate di altro che del loro abito. Gli uomini invece si spogliano del ruolo: la divisa i generali, la veste talare i preti, la fascia tricolore i sindaci. È il nudo maschile che porta con sé il pudore». Vede qualcuno in Italia degno d’essere considerato suo pari? «Guido Ceronetti. In un Paese normale sarebbe senatore a vita e invece gli fanno l’elemosina del sussidio previsto dalla legge Bacchelli. E poi Francesco Cossiga, lo storico del mobile Alvar González-Palacios, l’editore Alberto Castelvecchi». Viceversa so che non ritiene nessuno indegno della sua ira. «Per temperamento sono mite, cordiale, affettuoso. Ma di fronte a comportamenti sgradevoli o irritanti non sto a guardare se chi ho davanti è grande o piccolo. Punisco anche il debole, acciocché sia di monito agli altri». In questo momento chi detesta? «Ogni giorno dimentico quelli del giorno prima». Che fa, glissa? «Gianni Alemanno, sindaco di Roma, è fra i meno degni della mia considerazione. Idem Antonio Di Pietro. Mi fa rimpiangere l’altro Antonio, Gava. Il fatto che gli abbiano dato una laurea dimostra la corruzione intellettuale del mondo universitario. Neanche Umberto Bossi ha osato candidare o raccomandare il proprio figlio, anzi ha lasciato che lo bocciassero a scuola: un padre esemplare». Lei quanti figli ha sparsi per il mondo? «Tre. Il più grande di 20 anni». E non sente nostalgia di loro neanche a Natale? «Neanche a Pasqua». Invece secondo me poteva essere un buon padre. «In effetti ogni tanto qualche genitore benestante mi affida il suo rampollo perché lo fortifichi, m’è capitato anche con una Moratti. Un miliardario di Torino voleva che gli curassi il figlio anoressico. Decisi di portarmelo sull’Etna a vedere un’eruzione. M’era venuto questo impulso goethiano di ammirare il sublime naturale e avevo noleggiato un elicottero. Da Bologna dovevamo imbarcarci su un volo diretto per Catania. Vai a fare il check-in, gli dissi. Dopo un po’ vidi il nostro aereo che decollava. Scoprii così che l’idiota ignorava il significato della parola check-in. Credo di non aver mai urlato tanto in vita mia. Intorno a noi si aprì un cratere più grande di quello del vulcano. La frase più distaccata fu: tu non sei un uomo, sei una merda». È vero che il suo conto corrente è in rosso di un milione e mezzo di euro? «Anche di più. Sono sempre in rosso. Ho guadagnato molto e ho speso molto, soprattutto in cause e querele. Il mio amico Valerio Zurlini morì nel 1982 lasciando un buco di 30 milioni di lire. Io già allora ero sotto di 2 miliardi, ma non me ne preoccupavo. Credevo che con l’avvento dell’euro il deficit sparisse, invece sono diventati 2 milioni». Come pensa di uscirne? «Ho già venduto all’asta 200 delle 3.900 opere d’arte della mia collezione privata, ricavandoci 1,6 milioni. Non mi pento d’aver trasformato in spirito, con un processo alchemico, il denaro percepito in televisione, cioè nel luogo più volgare che esista. Il valore di un’opera d’arte è meramente convenzionale. Il paradosso è che quando avevo i soldi, non c’erano le opere; oggi che ho le opere, non ci sono i soldi. Per cui l’unica soluzione è comprare le opere quando ci sono. Anche se non hai i soldi». Teoria interessante. «Al Kimbell Art Museum di Fort Worth, nel Texas, c’erano due capolavori: I bari del Caravaggio e il Ritratto di Francesco Righetti del Guercino. Oggi del Guercino nel museo trova solo la cartolina, perché la tela è a casa mia. La comprai all’asta per 380 mila sterline, ma non avevo i soldi per pagarla. Telefonai ad Alessandro Profumo, l’amministratore delegato di Unicredit. Era il 13 agosto, stava facendo una passeggiata. Scese dalla bicicletta e ascoltò il mio racconto. Mi concesse il prestito. Adesso quel dipinto vale dieci volte di più. È assurdo lasciare sul mercato un quadro quando il suo valore è sottostimato». Meglio fare un debito. «Ovvio. Ho anche comprato un Tiziano, uno dei tre che ancora rimanevano in vendita nel mondo. È il Ritratto del comandante Gabriele Tadino, un “capitano da mar” veneziano. Siccome non avevo i soldi per pagarlo, alla fine l’ho dovuto lasciare alla banca». A Roma è lei che non va per salotti o sono i salotti che non vogliono lei? «Ho smesso da anni di frequentarli. Ci andavo solo per vedere le collezioni d’arte. Sono interessato alle opere, non agli uomini. Spesso sbaglio città. O arrivo troppo tardi. Una volta mi hanno invitato a cena i Gazzoni, quelli dell’Idrolitina. Ero quasi in orario, le 22.45. Di solito prima delle 23.30 non mi presento. Ho trovato tutti gli ospiti sull’uscio, stavano andando a dormire. Ho dovuto trattenerli». Capitolo sberle. Non è da tutti farsi schiaffeggiare in diretta da Dagospia. «La cosa buffa è che a distanza di anni gli amici si complimentano con me: “Che pappina hai tirato a Roberto D’Agostino!”. Mentre accadde l’esatto contrario». Poi avete ricucito? «Non mi occupo di lui. È lui che si occupa di me, che osserva i miei difetti e i miei vizi. Io non posso osservare il nulla». Come riesce a farsi eleggere ogni tanto sindaco di qualche comune, prima San Severino Marche, adesso Salemi? «È l’incarico più lontano dalle mie attitudini. Il sindaco è come il marito, una forma di monogamia insopportabile. Soltanto l’emergenza del destino mi ha costretto a farlo. Fosse dipeso da me, sarei ancora il primo assessore d’Italia nella prima città d’Italia». Il litigio col sindaco di Milano, “suor Letizia” Moratti per usare una sua definizione, è stato voluto o casuale? «Mai credevo che fosse così poco intelligente. Mi ha accusato d’aver trattato male Marco Travaglio ad Annozero, immagini un po’, e d’aver chiamato Cancronesi il professor Umberto Veronesi». Ma come poteva pensare che le passasse una mostra sull’arte gay dove figurava un sosia di Benedetto XVI in perizoma e autoreggenti? «Quella scultura si poteva togliere, mi ero subito dichiarato disponibile in tal senso. Ho attaccato Alessandro Cecchi Paone per difendere il Papa. E ho difeso anche i gay. La realtà deve contenere gli uni e gli altri. Ma gli omosessuali non possono pretendere la benedizione di Ratzinger. Solo Giovanni Testori voleva essere gay con l’approvazione della Chiesa». In che modo reagiscono gli 11 mila abitanti di Salemi alle provocazioni del loro sindaco? «Sono euforici. Grazie a me hanno appena avuto un’intera pagina su Le Monde. In precedenza erano usciti sul Times, sul Guardian, sull’Independent, sul País. Una campagna stampa, un restauro d’immagine che gli sarebbe costato qualche milione di euro. In Germania i pizzaioli di Salemi non vengono più licenziati». Ha nominato Oliviero Toscani assessore ai Diritti umani e alla Creatività e Graziano Cecchini al Nulla, Philippe Daverio bibliotecario, il magistrato Giuseppe Ayala garante della legalità. Ma queste sono trovate, vecchie come il cucco, di Mario Caligiuri, sindaco di Soveria Mannelli, che designò Giordano Bruno Guerri assessore alla Dissoluzione dell’Ovvio. «Caligiuri ha avuto solo Guerri. E comunque ha fatto ciò che gli avevo ispirato io fin dal 1990. Adesso mi telefona perché vorrebbe diventare mio vicesindaco. Ci sto pensando». Non c’è niente di sacro nella sua gerarchia morale, ammesso che ne abbia una? «Il rispetto delle scadenze. La patente a 18 anni, la laurea a 22 e il Senato a 40. Ma, più che parlamentare, avrei preferito diventare cardinale. La mia stravaganza suprema è l’aspirazione alla santità. Ho anche già fatto due miracoli da vivo, però mi dicono che non valgono per la causa di beatificazione». Due miracoli? «Esatto. Erika, una bella signora di Milano innamorata di me, è uscita dal coma perché suo marito le sintonizzava tutti i giorni la tv su Sgarbi quotidiani. E il professor Manlio Brusatin, docente di architettura allievo di Carlo Scarpa, mi ha scritto che una settimana di radioterapia con La casa dell’anima lo ha guarito da un’afasia». La rivelazione che lei s’è appropriato di un testo critico su Botticelli, scritto da Mina Bacci per i Maestri del colore circa quarant’anni fa, ha arrecato un grave vulnus al suo ego? «Mi ha arrecato malinconia. A nulla tengo più che alla mia scrittura, che è di un virtuosismo dannunziano. Avendo in antipatia i maestri maggiori, da Leonardo a Michelangelo, su Botticelli ho scritto poco o niente. Quindi m’ero raccomandato di estrapolare qualcosa dalle mie conferenze. Mia madre, per la fretta, ha fatto confusione. Sono rimasto vittima di un plagio edipico. Mi ritengo colpevole e inconsapevole». Tra la modella Sabrina Colle e la pornostar Milly D’Abbraccio perché la sua scelta è caduta sulla prima? «Perché Milly parla troppo, smaniava per mostrarsi alla mia altezza. Invece Sabrina si accontenta della definizione riportata nel Catalogo dei viventi edito da Marsilio: “Nota soprattutto per la love story con Vittorio Sgarbi”». Se non fa sesso con Sabrina, come ha sempre dichiarato, con chi allora? «Con tutte le altre». Con la sua fidanzata proprio mai? «Mai, mai. Vado oltre il nono comandamento. Non voglio la donna d’altri: desidero solo quella che non conosco». Chi è la persona che ama di più? (Prolungato silenzio). «Non lo so. Padre, madre, sorella, Sabrina». Nella sua vita per chi ha pianto? «Ho pianto solo due volte, entrambe nel 1984: per la morte di mio zio Bruno e per un articolo denigratorio apparso sull’Espresso». Le capita di pensare alla morte sovente, qualche volta o mai? «Mai. Ho fatto la scelta di andare così veloce proprio per non pensare al destino ineluttabile. Altrimenti mi fermerei». In percentuale quanto dedica alla politica, quanto all’arte e quanto al corpo nell’arco di una giornata? «Politica 30 per cento, arte 45, corpo 25». Che cosa la annoia di più, escluso le interviste? «I comitati e i convegni». Qual è il difetto che non sopporta in un uomo? «Che si profumi». Visto da vicino, nessuno è normale. Condivide questa frase? «Al contrario: trovo che la normalità sia fin troppo diffusa. Non bisogna confondere norma e media. Per non invecchiare, ho scelto di farmi curare dal più famoso gerontologo italiano, Francesco Antonini di Firenze. Siccome una suora ha predetto a una mia ex fidanzata che morirò a 84 anni, ho chiesto al professore se è normale spegnersi a quell’età. Mi ha risposto: “No, lei parla della media. La norma è vivere fino a 117 anni”». Come giudica la gente normale che fa una vita normale e finisce sul giornale solo per il necrologio? «Penso che sprechi la vita. Quelli che si sposano, che fanno bambini, che rispettano gli orari sono dei disperati, vittime del cortocircuito fra tempo perso e tempo libero. La gente comune perde tempo nel lavoro per guadagnare denari da spendere nel tempo libero e non si rende conto che sono due tempi buttati via. La mia idea è che la vita debba essere un tempo aggiunto. L’unico tempo vero è il tuo e il mio». Stefano Lorenzetto LORENZETTO Stefano. 52 anni, veronese. Prima assunzione a L’Arena nel ’75. È stato vicedirettore vicario di Vittorio Feltri al Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café su Raitre. Scrive per Il Giornale, Panorama, Monsieur e Quattroruote. Sei libri: Fatti in casa, Dimenticati, Italiani per bene, Tipi italiani, Dizionario del buon senso e Vita morte miracoli. Ha vinto i premi Estense e Saint-Vincent di giornalismo. LORENZETTO Stefano. 52 anni, veronese. Assunto a L’Arena nel ’75. È stato vicedirettore del Giornale e autore Rai. Scrive per Il Giornale, Panorama, Monsieur e Quattroruote. Sei libri: Fatti in casa, Dimenticati, Italiani per bene, Tipi italiani, Dizionario del buon senso e Vita morte miracoli. Ha vinto i premi Estense e Saint-Vincent di giornalismo.