Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  dicembre 30 Mercoledì calendario

PERISCOPIO

Per dirigere una discussione fra italiani ci vuole il mitra, parlano di democrazia, facendo della dittatura oratoria. Indro Montanelli, I conti con me stesso. Diari 1957-1978. Rizzoli.

Mi martella sempre in testa il solito interrogativo. Come un popolo, quello tedesco, nutrito di cultura, di musica, di umanesimo e di fede, abbia potuto lasciare che si installasse sul suo suolo il sistema nazista e partecipare all’universo concentrazionario? Hélie de Saint Marc, Mémoires. Perrin, 1995.

Il populismo (basato sulla dicotomia buoni-cattivi) porta al disconoscimento della democrazia rappresentativa, alla nascita di un rapporto diretto tra leader e popolo. Per questo il termine oggi ha un’accezione negativa che indica la democrazia rappresentativa e le leggi come qualcosa di fastidioso. Non contano le norme, non contano le regole né le istituzioni: solo il volere del popolo, interpretato dal leader. Piero Ignazi, docente di politica comparata all’università di Bologna (Virginia della Sala). il Fatto.

Il più grande progetto di Albert Speer a Norimberga era senza dubbio il Grande Stadio che doveva accogliere fino a 400 mila persone. Doveva misurare 550 metri di lunghezza per 460 di larghezza; avrebbe richiesto per la sua costruzione 8 milioni e mezzo di metri cubi di materiali, vale a dire il triplo di quelli che furono necessari per realizzare la piramide di Cheope. Contemplando tutte e due i plastici, Hitler avrebbe dichiarato a Speer che i Giochi Olimpici avrebbero avuto luogo per sempre in questo stadio di Norimberga. Il più grande stadio del mondo che doveva essere pronto per il Congresso del partito nazista nel 1945, non fu mai costruito. Appena prima della fine della guerra le sue immense fondazioni furono inondate dalle SS. Albert Speer, Au coeur du Troisième Reich. Pluriel, 2010.

Il crack economico è sempre possibile, domani mattina vai in banca e non ci sono i soldi, cala il reddito, diminuiscono le possibilità, e ti ci adatti come se il destino imponesse le sue regole. Accadde in Germania dopo la guerra, arrivò la fame, ci abituammo. Adesso si è verificato un calo del tenore di vita in Europa, e guarda come ci stiamo abituando. Dobbiamo abituarci: potrebbe arrivare l’iceberg. Hans Magnus Enzenberger, saggista tedesco (Juan Cruz). la Repubblica.

Al mio paese, Lazzaretto, un paese sulla collina non lontano da Livorno, si festeggia la Liberazione non il 25 aprile del 1945 ma il 2 settembre del 1944. Perché grazie agli alleati ci liberammo in anticipo dalla presenza dei tedeschi. La notte prima nessuno del paese dormì. C’era forte inquietudine. Ero bambino e ricordo la nonna e la mamma agitarsi su un giaciglio di fortuna in cantina. Mio padre con il fucile a fare la guardia. Qualche giorno prima una banda ubriaca di SS aveva rastrellato e catturato in paese un po’ di gente. Tra cui mio padre. Alcuni furono fucilati. Pochi, e mio padre tra essi, miracolosamente si salvarono. E ora era lì con il fucile a difendere le nostre vite. Fu così che uscimmo dall’ombra e dalla dittatura. Adriano Prosperi, storico (Antonio Gnoli). la Repubblica.

Federico Fellini mentiva su tutto con puerile sfacciataggine. Diceva che era stato come me in collegio dai salesiani, ma non era vero: fu il fratello Riccardo a studiare dai preti. Quanto al transatlantico Rex, non solcò mai il mare di Rimini. Il regista nel 1977 si trovava a Parigi e promise di venirmi a vedere a teatro con la moglie Giulietta Masina. Recitavo in francese Jacques ovvero la sottomissione di Eugène Ionesco. Gli feci tenere due posti in prima fila. Figurarsi l’eccitazione dei colleghi. La direzione convocò stampa e tv. Ma lui non si presentò. Il giorno seguente trovai in camerino un biglietto in cui si scusava tantissimo: si era scordato di un invito a cena con Giulietta dall’ambasciatore italiano. Peccato che il diplomatico la sera prima fosse anch’egli con la consorte al Théâtre de la Ville proprio per incontrarvi Fellini. Da ridere. Più bugiardo di lui, se escludiamo il sottoscritto, non ho conosciuto mai nessuno. Bruno Zanin, il Titta di Amarcord di Federico Fellini (Stefano Lorenzetto). Panorama.

Dalla pianura del Vietnam gli scoppi dei mortai si levavano uniformi, il fiume denso come pietra, e sullo spiazzo del mercato le fiamme ardevano pallide alla luce del sole. Le esili figure dei paracadutisti francesi si muovevano in fila indiana lungo i canali, ma, da quell’altezza, apparivano ferme. Il prete che leggeva il breviario in uno degli angoli del campanile non si dava nemmeno la pena di cambiare posizione. La guerra era una cosa molto ordinata e pulita, da quella distanza. Graham Green, L’americano tranquillo. Mondadori, 1957.

A una delle porte in fondo, Biron diede alla porta due colpi lievi. Quarant’anni di pratica e di leggerezza di polso per imparare questo tocco discreto che allertava senza irritare e preveniva senza insistere. Il vecchio usciere, ne era molto fiero. Una companella, in risposta, tintinnò. Biron aprì la porta, avanzò nella sala scivolando da parte (tutta un’arte) e annunciò belando: «Sua eccellenza il colonnello maggiore Silve de Pikkendorff». Poi uscì rinculando, l’aria lugubre, mormorando come se parlasse a se stesso: «Questo castello prende alla gola. Non ho più voce...». Jean Raspail, Sept cavaliers. Roberto Laffont, 1993.

Io avevo dimenticato i colori dei miei paesi, ed ora mi appaiono come li vidi fanciullo; Lugo, Bagnacavallo, Alfonsine. Ad ogni stazione ritrovo una Romagna perduta che il tempo non ha invecchiato. Ritornano all’orecchio le voci degli anni lontani, le cadenze famigliari dei facchini delle stazioni. I viaggiatori sono sempre gli stessi, cialtroni ed espansivi personaggi della terza classe, tutti amici che riprendono i discorsi interrotti al mercato. Leo Longanesi, Parliamo dell’elefante. Longanesi, 1947.

Era un signore anche se temeva costantemente le mani in tasca, benché non in quelle dei pantaloni alla maniera dei manovali, ma in quelle della giacca, come usano i ricchi, che non badano molto alla buona conservazione dei loro vestiti e, pur di star comodi, li deformano senza riguardo. Piero Chiara, Vedrò Singapore?. Mondadori, 1981.

Essere un eletto. Ma non a suffragio universale. Robert Sabatier, Le livre de la déraison souriante. Albin Michel, 1991.

Un marito che non crede alle bugie della moglie merita di essere ingannato. Roberto Gervaso. Il Messaggero.

Paolo Siepi, ItaliaOggi 30/12/2015