varie, 30 dicembre 2015
ARTICOLI SU ARABIA SAUDITA E PETROLIO PER IL FOGLIO DEI FOGLI
FRANCESCA CAFERRI, LA REPUBBLICA 30/12 –
La rivoluzione a volte si nasconde dietro agli oggetti comuni: in un paese dipendente dal petrolio come è l’Arabia Saudita, può assumere l’aspetto innocuo di un erogatore di benzina. Lo hanno verificato ieri i sauditi che si sono avvicinati ai distributori e hanno scoperto che nel giro di 24 ore il prezzo della benzina era passato da 60 a 90 ryal (0.15 da 0.22 centesimi di euro) al litro: una sciocchezza per un automobilista europeo, la fine di un’era per uno saudita. L’aumento dei prezzi della benzina è il primo effetto sulla vita dei comuni cittadini della legge di bilancio varata lunedì da re Salman bin Abdulaziz Bin Saud, salito al trono a gennaio dopo la morte del fratellastro Abdallah. Una legge che per uno dei paesi più ricchi del mondo non è soltanto una manovra finanziaria, ma un cambio di mentalità e di approccio senza precedenti.
Alla prese con un prezzo del petrolio sceso del 50% in un anno e mezzo, il re ha annunciato un taglio del 14% delle spese statali per il 2016: si fermeranno a 224 miliardi di dollari, nel tentativo di arginare il deficit di bilancio da 98 miliardi di dollari registrato nel 2015. Di conseguenza con effetto immediato ieri in tutto il paese sono saliti non soltanto il prezzo della benzina, ma anche quello dell’elettricità e dell’acqua, finora calmierati dai sussidi. Nei prossimi mesi le spese dei ministeri e di tutti gli organismi statali saranno sottoposte ad una drastica riduzione: stop agli aumenti, ma anche all’acquisto di auto e mobili nuovi, come già stabilito qualche mese fa da un decreto reale. E ancora: via libera alla privatizzazione di diversi settori dell’economia e introduzione di nuove tasse. La priorità nelle spese sarà data ai settori della Sicurezza interna e della Difesa, controllati rispettivamente dall’erede al trono e ministro dell’Interno Mohammed bin Nayef e dal vice-erede e ministro della Difesa Mohammed Bin Salman, figlio del re ed astro nascente del paese.
Finito il tempo delle spese folli, è dunque arrivato quello delle scelte: e messo alle corde dalla discesa costante del prezzo del petrolio, da cui dipende il 90% dell’economia, il regno ha deciso di dare priorità alle due minacce più forti alle sue porte: l’offensiva dell’Is (che considera la monarchia saudita uno dei suoi principali nemici) e la guerra in Yemen. A pagarne le conseguenze nei prossimi mesi saranno una serie di voci di spesa – dalle borse di studio all’estero per gli studenti, agli investimenti nello stato sociale e nella sanità – che erano state il fiore all’occhiello della gestione di re Abdallah. «È l’inizio della fine dell’era dei soldi facili – commenta Ghanem Nuseibeh della Cornestone Global associates, attento osservatore della realtà saudita – l’intera società dovrà abituarsi a un nuovo tipo di relazione con il governo: questa è una sveglia per tutto il paese».
Una sveglia non priva di rischi: «I reali devono fare molta attenzione, sotto la calma apparente covano molte tensioni – spiega Liisa Limatainen, autrice di “L’altra faccia dell’Arabia Saudita”, in uscita a primavera dall’editore Albeggi - gli altissimi tassi di disoccupazione giovanile, l’aumento della povertà nella classe media e la mancanza di case sono elementi di una miscela esplosiva. Rimuovere i sussidi potrebbe accendere la miccia». Non a caso commentando la manovra, lunedì il ministro dell’Economia Adel Fakeih ha voluto sottolineare che sono allo studio misure di tutela per le fasce più deboli della popolazione.
Basterà questo per tenere a bada un paese che da decenni si basa su patto non scritto fra una famiglia regnante che distribuisce posti di lavoro e livelli accettabili di benessere alla popolazione in cambio della pace sociale? È la scommessa di re Salman e ancora di più di suo figlio Mohammed, a capo (fra le molte altre cose) del neonato Consiglio per lo sviluppo economico e le politiche giovanili, organismo incaricato di disegnare le strategie future di un paese che vorrebbe essere sempre meno legato al petrolio ma ancora non ha una strada chiara per il domani.
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VIVIANA MAZZA, CORRIERE DELLA SERA 30/12 –
Il 2016 non sarà un anno facile per l’Arabia Saudita. Il più grande esportatore al mondo di petrolio è costretto a varare misure di austerità. Succede in un momento delicato, mentre Riad ha una serie di sfide aperte per la sicurezza e il predominio regionale: innanzitutto la battaglia contro l’Iran sciita, anche attraverso le guerre in Yemen e in Siria; l’Isis alle porte; il sostegno al governo del Cairo. Sfide che richiedono il dispiegamento di enormi risorse.
«Con l’aiuto di Allah, la nostra economia supererà le sfide», ha annunciato l’altro ieri in tv il re Salman bin Abdulaziz Al Saud, salito al trono alla morte del fratello Abdullah. Undici mesi dopo aver preso il potere, a 79 anni, si trova a gestire una nuova era. Il re ha presentato un bilancio 2016 che prevede un deficit fino a 326 miliardi di riyal (87 miliardi di dollari, poco meno di 80 miliardi di euro). E ha annunciato tagli alle spese, una riforma dei sussidi (quelli energetici costano il 13% del Pil) e «privatizzazioni in una varietà di settori». Il primo decreto reale riguarda la benzina, che costerà il 50% in più (comunque solo 24 cent al litro), le bollette della luce (più salate per i ricchi) e dell’acqua (per tutti). Misure ritenute necessarie perché il Paese è in deficit da due anni. Nel 2015 il disavanzo di bilancio ha toccato il 15-16% del Pil. Livelli greci.
La ragione è il prolungato crollo del prezzo del petrolio, da cui dipende l’economia saudita: la scorsa settimana il Brent è arrivato ai minimi da 11 anni. È il risultato della politica della stessa Riad che, a fronte di un calo dei prezzi nel 2014 dovuto al boom di petrolio Usa prodotto da scisto, non ha risposto tagliando la propria produzione ma pompando volumi record di greggio sul mercato (per soffocare i concorrenti americani con costi di produzione più alti).
L’impatto del crollo dei prezzi è stato ammorbidito dalle riserve valutarie pari a 640 miliardi di dollari. L’anno scorso Riad ha attinto a 100 di quei miliardi, sia per finanziare da marzo la guerra contro i ribelli sciiti houthi in Yemen (e per nuovi armamenti) che per pagare «i bonus». Re Salman, infatti, appena salito al trono, ha concesso due mesi in più di stipendio a tutti i dipendenti pubblici e uno in più a quelli del ministero della Difesa e dell’esercito.
È la prima volta che Riad sceglie l’austerità. A mettere a punto le nuove riforme economiche è stato il prediletto figlio trentenne del re, Mohammed bin Salman, già nominato vice erede al trono nonché ministro della Difesa. Il suo staff definisce la crisi un’occasione per correggere gli sprechi. Spesso fotografato nella «war room», è lui che gestisce la guerra in Yemen. Chiaro, la Difesa sarà un’area nella quale il governo non prevede tagli: 57 miliardi di dollari per il 2016. Ma basteranno? Questo mese il principe Mohammed ha annunciato la formazione di una coalizione antiterrorismo di 34 Paesi, uno sforzo in chiave anti Isis e Al Qaeda (ma anche anti Iran), oltre che un modo per far tacere le accuse di non fermare i finanziamenti a gruppi jihadisti. Il principe poi è appena stato al Cairo, dove ha promesso 8 miliardi di investimenti in cinque anni; a marzo Riad promise 4 miliardi di aiuti. E se la guerra in Yemen, che costa 6 miliardi al mese, non finisse con i colloqui di pace di gennaio? E chi sosterrà i costi della ricostruzione?
L’austerità significa anche che Riad intende tenere i prezzi del greggio bassi. È una scommessa. «L’Arabia Saudita può tollerare questa situazione per altri tre-quattro anni, grazie alle riserve valutarie e ricorrendo al mercato obbligazionario – spiega il docente di Princeton Bernard Haykel —. L’altra scelta non è migliore: se cede ora quote sul mercato del greggio, verranno subito occupate da altri». Primo tra tutti l’odiato Iran, che con la fine delle sanzioni occidentali nel 2016 potrebbe iniettare mezzo milione di barili al giorno sul mercato, ma anche l’America, la Russia e l’Iraq (sciita). Se invece i prezzi restano sotto ai 40 dollari al barile, a pagarne il prezzo più alto potrebbero essere gli americani.
È una scommessa anche perché i tagli ai sussidi potrebbero provocare tensioni dentro il Regno, dove ogni ribellione viene sedata con il bastone ma anche con la carota del benessere e della stabilità. Una certa preoccupazione si registra tra i privati, settore cruciale per garantire impiego ai giovani. Una certa opposizione si registra nella corte reale. La scommessa è aperta.
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LUIGI GRASSIA, LA STAMPA 30/12 –
L’Arabia Saudita sta per finire gambe all’aria? Il ricchissimo gigante mondiale del petrolio può fare bancarotta come un’Argentina o una Grecia qualunque? Rispondere con un netto «sì» sarebbe azzardato, ma il dubbio serpeggia. Il sito economico americano Quartz pubblica un rapporto pieno di numeri e grafici sotto il logo «Il fondo del barile» e conclude che Riad si sta suicidando con un consumo eccessivo di risorse finanziarie nella guerra allo «shale oil» degli Stati Uniti.
Il crollo del prezzo del petrolio (ieri ai minimi da 11 anni, anche se la chiusura è stata in rialzo) ha prosciugato le entrate saudite. Il bilancio statale concluderà il 2015 con un deficit record di 98 miliardi di euro, e anche nel 2016 è atteso un enorme disavanzo (altri 87 miliardi) nonostante forti tagli alle spese e un aumento del 50% del prezzo della benzina (impensabile da queste parti fino a poco tempo fa). L’Arabia Saudita deve finanziare un costoso stato sociale per comprare il consenso di una popolazione molto sensibile ai richiami dell’estremismo religioso. Per far quadrare i conti il governo attinge alle riserve di valuta estera, che nel 2015 sono calate da 725 a 625 miliardi di dollari, e cerca prestiti all’estero (non lo faceva da molti anni).
I sauditi hanno pilotato la caduta del prezzo del barile aumentando l’estrazione per mandare fuori mercato i produttori americani di petrolio alternativo. Questi sono agli sgoccioli: sempre più chiedono l’amministrazione controllata. La compagnia Samson Resources ha bruciato capitale per 4,2 miliardi di dollari e un’altra, la Walter Energy, annuncia che resterà a secco all’inizio del 2016. E quando molte aziende «shale» avranno chiuso, l’attuale eccesso produttivo di 2 milioni di barili al giorno sarà eliminato e il prezzo del petrolio tornerà alto.
Ma sarà davvero l’Arabia Saudita a vincere, o invece sarà la prima a fare crac? A dir la verità, bruciando 100 miliardi di riserve valutarie all’anno Riad può andare avanti per altri 6 anni. Dice Alberto Clò, economista e direttore della Rivista Energia: «Non credo che i sauditi stiano raschiando il fondo del barile. Non hanno mai avuto problemi a rifinanziarsi sul mercato dei capitali, possono resistere più a lungo dei concorrenti. Nel 2016 una parte dell’eccesso di produzione degli Stati Uniti verrà riassorbita dai fallimenti e dalle chiusure, e nella seconda metà dell’anno il prezzo del barile torneranno a oscillare fra i 50 e i 60 dollari, poi a 70 e oltre». Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia: «L’Arabia Saudita ha petrolio a bassissimo costo di estrazione con cui può mandare fuori mercato chiunque la sfidi. All’inizio del 2016 i prezzi resteranno bassi, anche più di adesso. Usciranno dal mercato non solo molti produttori di shale oil ma anche quelli tradizionali che avranno rinunciato a investire, per il prezzo di vendita che non compensa i loro costi di estrazione. E in due anni il petrolio potrà tornare a 100 dollari per barile». A beneficio dei sauditi, che avranno difeso con successo le loro quote.
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UGO TRAMBALLI, IL SOLE 24 ORE 30/12 –
È il primo bilancio di Salman, monarca da meno di un anno, ed è tutt’altro che entusiasmante. Un deficit che si avvicina ai cento miliardi di dollari, tagli alle spese e ai sussidi, aumento del 50% della benzina nel paese che ogni giorni produce 10,19 milioni di barili di greggio. Non è quello che i sauditi si aspettavano quando undici mesi fa, salendo al trono, Salman aveva elargito l’equivalente di tre miliardi e mezzo in bonus sui salari dei dipendenti dello stato.
Il bilancio di previsione 2016 prevede un deficit di 97,9 miliardi di dollari, il 15% del Pil. Ieri mattina, immediatamente dopo l’annuncio del ministero delle Finanze, la Borsa di Riad ha perso il 3% nei primi quindici minuti dall’apertura, ristabilendosi in parte nel corso della giornata. È il più alto deficit dell’ultimo decennio ma ci sono state annate peggiori, non molto tempo fa: nel 2008 la crescita economica era stata del 2% e nel 1999 era piombata al di sotto dello zero. Nel 2016 salirà comunque del 3,35%. Ci saranno pesanti tagli alle spese, verranno congelati alcuni importanti progetti, pesante riduzione dei sussidi, fonte garantita di consenso popolare.
Le cause e le dimensioni principali della crisi sono illustrate dal paragone di due semplici dati: nel marzo del 2012 il barile di greggio costava 125 dollari; nel dicembre 2015 il prezzo è a 37,18. Nonostante questo, non si fermerà il processo di trasformazione non solo industriale di un sistema che continua a dipendere pesantemente dal petrolio: il 77% delle entrate del 2015.
Progressivamente nei prossimi cinque anni sarà riformato il sistema dei sussidi di energia, acqua ed elettricità. Ma le tariffe dei consumi interni di quest’ultima dovrebbero aumentare subito del 40% e del 50 la benzina per gli automobilisti ai distributori. Le spese di bilancio saranno di 840 miliardi di riyal, 360 miliardi di dollari: erano state di 970,9 nel 2015 e di mille e 14 miliardi l’anno precedente. Le entrate saranno di 514 miliardi di riyal, circa 138 miliardi di dollari, col Brent a 37 dollari; col barile di greggio a 54, nel 2015 sono state di 608 miliardi di riyal.
Lo si potrebbe chiamare un bilancio lacrime e sangue. Ma è sempre una questione di prospettive. Se l’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi ammettesse un deficit di 97 miliardi di dollari e fosse costretto a simili tagli della spesa pubblica, dichiarerebbe bancarotta. Per l’Arabia Saudita è una perdita fastidiosa ma non compromette la stabilità dei conti e probabilmente nemmeno quella del consenso popolare. «La nostra economia ha il potenziale per affrontare ogni sfida», aveva detto qualche giorno fa re Salman, preannunciando il pessimo bilancio ma ricordando anche che non c’è nulla d’irreparabile in un regno che ha riserve in valuta per oltre 700 miliardi di dollari accumulati a partire dal 2005, e il più basso costo d’estrazione del petrolio al mondo.
A ottobre il Fondo monetario internazionale aveva ammonito che senza riforme strutturali, una severa austerità nelle spese e senza risalita del prezzo al barile, in cinque anni l’Arabia Saudita resterà senza soldi. Fra gli esperti del mercato petrolifero internazionale è iniziato un dibattito acceso per stabilire per quanto il greggio rimarrà a 37 dollari: cioè per quanto tempo l’Arabia Saudita deciderà di mantenere alta la produzione e bassi i prezzi per contrastare la concorrenza americana e iraniana. Qualcuno prevede un decennio: la maggioranza, soprattutto i sauditi, non più di due o tre anni.
In ogni caso la frenata (rispetto al super-boom degli anni passati) ha un lato positivo: aiuterà il governo ad applicare riforme necessarie, superando l’ostilità dell’opinione pubblica saudita a qualsiasi forma di cambiamento. Le riforme fino ad ora realizzate, e che in Occidente appaiono minime, in Arabia Saudita sembrano quasi rivoluzioni.
Il comunicato del ministero delle Finanze che illustra il Bilancio 2016, parla esplicitamente dell’obbligo di «privatizzare uno spettro di settori e di attività». La necessità di destatalizzare l’economia è più che urgente, insieme alla diversificazione dal petrolio. Di questo doppio dossier strategico è incaricato Mohammed, il giovane vice principe ereditario e figlio di Salman.
Lo stesso principe che ha un ruolo decisivo nelle ambizioni geopolitiche saudite, dallo Yemen alla Siria. Non sarà un deficit di un centinaio di miliardi a cambiarle. Anche nel 2016 la voce più costosa, il 25% del totale, è quella delle spese militari e per la sicurezza.
Ugo Tramballi
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ANDREA FRANCESCHI, IL SOLE 24 ORE 30/12 –
Si avvicina la fine dell’anno ma per chi lavora nei settori petrolifero e minerario c’è ben poco da festeggiare. Il bilancio del 2015 che si chiude è disastroso. Il crollo del mercato delle materie prime (-34% la performance del paniere Goldman Sachs Commodity Index) è stato pesantissimo e si rifletterà negativamente sui conti delle aziende del settore. Le stime del consensus S&P Capital IQ per l’anno in corso mettono in conto una flessione del 58,5% degli utili per il comparto energia negli Stati Uniti e del 38% in Europa mentre per quello minerario, che in Europa ha i suoi più importanti rappresentanti, le stime parlano di un crollo del 17,9 per cento.
La performance delle azioni dei settori legati alle commodities hanno condizionato negativamente l’andamento dei mercati azionari nell’ultimo mese dell’anno (l’indice Msci World risulta in calo di un punto e mezzo percentuale a dicembre). La forte correlazione tra azioni e materie prime si è vista anche nella giornata di ieri, seduta caratterizzata da volumi di scambio molto ridotti come solitamente accade nei periodi estivi. Ma, contrariamente a quanto avvenuto nell’ultimo mese e anno, questa correlazione ha giocato in senso positivo. Le aspettative su indicazioni migliori del previsto dai dati sulle scorte di greggio negli Stati Uniti (statistiche che saranno pubblicate oggi) hanno spinto gli investitori a riposizionarsi sul greggio riportando oltre quota 37 dollari le quotazioni sia del Brent che del Wti. Ben poca cosa certo per parlare di ripresa ma di certo uno spunto per tornare a rischiare. Ad esempio tornando a comprare i mercati emergenti ieri protagonisti di un recupero sia in Borsa che sul mercato valutario. Il segmento delle economie in via di sviluppo, al pari di quello delle materie prime, chiude l’anno in profondo rosso: l’indice di Borsa Msci Emerging Markets ha perso oltre il 16% quest’anno mentre quello delle valute (Msci Em Currencies) ha perso il 6,7 per cento. Colpa del rallentamento dell’economia cinese, del contestuale crollo delle commodities (di cui molti Paesi emergenti sono grossi esportatori) e del rialzo dei tassi negli Stati Uniti che ha provocato pesantissime fughe di capitali da questi asset. Le Borse europee hanno retto bene il colpo della volatilità che ha penalizzato questi mercati. Tuttavia nell’ultimo mese le vendite hanno colpito duro anche nel Vecchio Continente dato che il saldo per il mese di dicembre del paniere Stoxx Europe 600 risulta sotto di oltre il 4 per cento. Il clima di rinnovata propensione al rischio che si è visto ieri ha aiutato gli indici continentali a rimediare in parte alla deludente performance natalizia. La giornata si è così chiusa all’insegna dei rialzi con Francoforte in positivo dell’1,94%, Parigi dell’1,81%, Madrid dell’1,23%, Londra dello 0,96% e Piazza Affari che ha guadagnato l’1,37 per cento.
Ieri è stata anche giornata di aste per il Tesoro impegnato con collocamenti di BoT e CTz per 7,5 miliardi di ammontare. Operazioni che sono andate in porto senza problemi seppur con una domanda non particolarmente sostenuta visto il periodo festivo. Per i BoT semestrali il rendimento è in lieve risalita ma resta negativo a -0,038% con una richiesta (7,9 miliardi) di poco superiore all’offerta (6 miliardi). Meglio è andata ai CTz biennali per cui la richiesta è stata pari al doppio dell’importo assegnato (1,5 miliardi) ed il tasso ha segnato un nuovo minimo storico a -0,109 per cento.
Andrea Franceschi
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MARCELLO BUSSI, MILANOFINANZA 30/12 –
Il crollo dei prezzi del petrolio comincia ad avere effetti preoccupanti proprio nel Paese che più di tutti l’ha voluto: l’Arabia Saudita. A causa della diminuzione delle entrate relative al petrolio, che costituiscono il 73% del totale, il deficit pubblico di Riyad quest’anno è salito a 367 miliardi di riyal (97,9 miliardi di dollari), pari al 15% del pil, un livello record. «L’era delle spese pazze è alle nostre spalle», ha commentato Jean-Michel Saliba, economista di Bank of America. «La società saudita dovrà abituarsi al nuovo modo di lavorare del governo», ha osservato Ghanem Nuseibeh, fondatore della società di consulenza Cornerston Global Associates.
Il governo saudita ha infatti annunciato la riduzione dei sussidi ai settori dell’energia e del carburante (sì, la benzina alla pompa costa meno dei prezzi di mercato che già sono bassissimi), come contromisura per far fronte al calo del prezzo del petrolio. Riyad sta inoltre valutando anche l’aumento dei prezzi dei servizi pubblici e l’introduzione dell’Iva. Il tutto avviene mentre l’Arabia Saudita aumenta le spese militari per fare fronte all’intervento diretto delle sue forze armate nello Yemen, dove è in corso una guerra contro i ribelli houthi, sciiti come gli iraniani. La situazione economica è instabile, visto che i prezzi del petrolio sono previsti in ulteriore diminuzione.
Il rialzo di ieri del Wti (+2,2% a 37,64 dollari al barile) non fa testo. E così sui mercati è iniziata a circolare la voce che i sauditi potrebbero addirittura abbandonare l’ancoraggio del riyal al dollaro per lasciarlo fluttuare liberamente. Una mossa adottata poche settimane fa dall’Azerbaijan, altro Paese che deve tutto al petrolio e al gas, e ha avuto come conseguenza la svalutazione della valuta locale, il manat, di oltre il 50% sul dollaro. Difficile che Riyad arrivi a tanto, anche perché può contare su riserve in valuta estera superiori ai 600 miliardi di dollari. Le munizioni ci sono ed è davvero difficile pensare a un attacco speculativo contro i sauditi.