Giorgio Dell’Arti, Wimbledon 1992 (?), 29 dicembre 2015
Milano, gennaio. Dopo il libro uscito adesso da Einaudi (Ritratti arbitrari) Pericoli terrà una mostra a Milano il prossimo maggio
Milano, gennaio. Dopo il libro uscito adesso da Einaudi (Ritratti arbitrari) Pericoli terrà una mostra a Milano il prossimo maggio. Una mostra a quanto pare molto significativa. Non solo il pittore esporrà cose sue nuove, ma sistemerà le opere pensando agli studenti degli istituti d’arte, a quelli che possedendo un talento e un desiderio non sanno bene che fare, da che parte rivolgersi. Che cosa mostrano però i nuovi quadri che l’artista sta preparando? Su questo diremo qualcosa poi. Intanto, basterà far sapere che anche in queste nuove opere si respira l’aria fresca di Pericoli, quell’azzurro che sempre ci riempie gli occhi e i polmoni e che imparenta il pittore con Poliziano, Ariosto, Calvino e altri nostri grandi Sorridenti. Come fai ad avere una mano così mostruosa, è chiaro che passi tutto il tempo a disegnare. «Sì, non faccio altro e in definitiva non mi piace altro. E inoltre ho avuto due grandi scuole di disegno». Racconta. «Prima di tutto Emesto Ercolani, pittore di Ascoli, direttore della Pinacoteca della città. Andavo da lui il pomeriggio e lui mi insegnava. Dovevo copiare gessi e, cosa ben più difficile per via dei riflessi, bronzi. Ercolani mi lodava, mi incoraggiava e, soprattutto, non mi perdonava. «Non ti pare che ilcollo vada più piegato, mica tanto, uno-due centimetri7. Il disegno magari era finito, ma per via della testa che andava posizionata in modo esattissimo (e non c’era scampo) dovevo ricominciare daccapo. Tremendo e meraviglioso. Ero così perso in quei pomeriggi che mi bocciarono due volte, in prima e in seconda liceo e mio padre andò a dirgli di lasciarmi perdere». E lui ti lasciò perdere? «No, no, ci andavo di nascosto. Del resto come fame a meno? E’ lui che mi ha insegnato a guardare e a vedere» E la seconda scuola? «Un’esperienza molto singolare. In Ascoli a quell’epoca, il ‘55-56, c’erano le pagine locali di due quotidiani, «Il Messaggero» e ‘11, Resto dei Carlino». «Il Resto dei Carlino» vendeva settecento copie e «Il Messaggero» trecento. In tutto mille. Da Roma chiamarono un bravo giornalista ascolano, Carlo Paci, e gli diedero carta bianca, purché recuperasse lo svantaggio. E tra le tante cose che gli vennero in mente ci fu quella dei ritratti alla città». Cioè? «Mi incaricò di fare il ritratto agli ascolani in qualche modo in vista. Ogni giomo «Il Messaggero» pubblicava in fondo alla pagina una striscia suddivisa in quindici rettangoli e in ogni rettangolo c’era un profilo ... ». Quindici? «Sì, quindici. Si procedeva per gruppi. Per esempio, oggi facciamo i camerieri, domani quelli della Cassa di Risparmio ... ». Quindici ritratti al giorno? «No, quindici ritratti in mezz’ora. Paci telefonava, diceva: guardate, domani verso le tre viene Pericoli, per favore dategli una mezz’oretta... 1 quindici prescelti si sedevano di fronte a me, stavano in posa due minuti, io schizzavo il profilo e via. Se non li pigliavi erano guai, perché la seduta si svolgeva davanti a tutti gli altri e non sopportavo di fare figuracce». Però imparasti a pigliare le facce. «Si, in ogni faccia c’è un particolare che la caratterizza. Se lo prendi, puoi fare del viso tutto quello che vuoi. Mettergli un naso finto, tre orecchie, baffi, barba. Non importa, la faccia è quella e quella resterà». Tuo padre continuava a esserti contrario? «Beli, a quell’epoca studiavo legge come lui aveva voluto e col lavoro per 1l Messaggero» lo aiutavo a pagarmi l’università. Tanto contrario non era più. Purché, naturalmente, facessi l’avvocato». Lui era avvocato? «No, segretario comunale. Segretario comunale di Colli del Tronto, provincia di Ascoli Piceno. In effetti, non mi si aprivano che due carriere: o avvocato o segretario comunale in un comune, si sperava, un po’ più grande di Colli dei Tronto». Ma scusa, a casa tua non vedevano quanto eri bravo, non capivano che quella era la tua strada? «Che fossi bravo a disegnare lo vedevano, mia madre dice che disegnavo già prima di parlare. Ma che quella potesse diventare una carriera o una strada, eceeh, e chi poteva crederci?». Da bambino che disegnavi? «Tutto il contrario degli altri bambini, che con la matita ci fanno vedere ogni sorta di fantasticheria. lo invece disegnavo come uno che copia, cercavo di fare le foglie e i fiori come sono. Cercavo di imparare a capire la forma di una foglia o di un fiore e disegnarli». Come fu che non diventasti avvocato? «Studiavo a Urbino e mancavano quattro esami alla laurea. Mi dissi: qui, se mi laureo, è finita. Mollai tutto e scappai a Rorna». Perché proprio a Roma? «Avevo fatto una mostra ad Ascoli ed era venuta una giomalista del «New York Times». Vista la mostra mi prese da parte: -Ah, ma quanto sei bravo, cosa te ne stai a fare in questo buco, devi assolutamente andartene in una grande città». E mi diede il biglietto da visita di un suo collega, il corrispondente romano di ‘7ime». Se vieni a Roma, disse, vai da lui. lo venni a Roma, andai da lui, poi all’ «Espresso»». Quelli che ti dicevano? «Guardavano e dicevano: non c’è male, non c’è male. E dopo questo «non c’è male» non succedeva niente. Decisi di ripartire, abbastanza deluso, ma un giornalista, non mi ricordo più chi, mi disse: manda un disegno piccolo a Zavattini, sai Zavattini raccoglie i mini-quadri, tu fagli un 6x6, chissà, magari risponde ... » E tu? «Feci questo 6x6 e glielo mandai. Zavattini rispose subito: vieni a Roma a trovarmi. Presi il pullman e tornai a Roma con la mia cartella, Zavattini vide. Esclamava: «Eh, ma che bravo! Eh, ma tu sei un artista! ma che legge e legge! smetti subito di fare legge, sai». Poi disse: tu devi andare a Milano. Detto fatto, mi fece un biglietto di presentazione per Giancarlo Fusco. lo avevo 90 mila lire in tasca. Con questi soldi e il biglietto andai a Milano». In che anni siamo? «Siamo nel ‘61. Fusco mi fece perdere un sacco di tempo. Ci si divertiva, si usciva la sera, ma di presentarmi a qualcuno non se ne parlava. Finalmente una notte, era mezzanotte passata, dice: beh, andiamo da Rozzoni. Rozzoni era il vicedirettore del «Giorno». Pure lui disse che le cose che facevo non erano male. E mi fece cominciare». Con che cominciasti? «Con un’illustrazione per una storia di gangster scritta da Fusco». Sembra una cosa lontana dal Pericoli che conosciamo. «Lo è. Feci qualcosa di più congeniale quando dovetti illustrare ‘1 racconti della domenica». C’erano le prime Cosmicomiche di Calvino, Pasolini, Bassani, Primo Levi e tutti gli altri che allora scrivevano su quel magnifico quotidiano». E mentre disegnavi, dipingevi anche? Per conto tuo? «Oh sì, roba di cui forse non si dovrebbe parlare. Pittura materica, fatta con degli impasti e colori spessi così. Non lo so, sarebbe meglio non parlarne». Anche la pittura materica sembrerebbe lontanissima... «Guarda, fammi questo favore, evitiamo di parlarne. Con lo spessore della pittura parlavo di rapporti con la terra... No, lasciamo stare, non mi vorrei addentrare in letture psicoanalitiche, lasciamo perdere ... ». Non ti senti pittore, eh? Ti senti più disegnatore, illustratore? «Mah, mah. Mi sento autore. Sì, diciamo così: mi sento autore». E che vuoi dire? «Vuol dire che sono uno che dice le cose che ha da dire adoperando i pennelli, così come uno scrittore dice le cose che ha da dire adoperando le parole». E che differenza fa con gli altri pittori? «Non so come dirti... io lavoro per lo più su commissione. Questo, rispetto agli altri pittori, cambia quasi tutto. Una volta ho detto in un’intervista: la pittura senza committenti muore. Apriti cielo, c’è stato chi mi ha messo il muso. Quello che io volevo dire non era invece niente di offensivo, però è difficile da spiegare». E tu prova. «Insormma, viene da me il titolare di un’azienda e mi chiede un disegno per un poster o altro. lo lo preparo a modo mio, in modo da dire quello che vuole il cliente, ma da dire anche quello che voglio dire io. Fai conto, una volta la ditta di mobili Unifor voleva che gli facessi la campagna, allora dipinsi quel manifesto là dietro, lo vedi?, quello con la faccia ricoperta di nasi, bocche, occhi di varia forma (il lettore può ammirare l’opera in questione nella pagina a fianco). Quello che il manifesto significava in funzione dell’Unifor è che ci sono molti modi per arredare una casa anche se il disegno mostra molti modi per arredare una faccia. Va bene, erano contentissimi. «Più tardi lo stesso disegno, pubblicato in un libro in Germania, fu visto dal direttore e regista dei Serapions Theater di Vienna e me lo chiese come manifesto per un’opera sulla complessità dell’apparire. Successivamente fu usato dalla Rai come scena per un lungo dibattito sulle filosofie marxiste nel post-marxismo e più tardi ancora lo ha adoperato l’Espresso per l’apertura di un servizio non mi ricordo più su quale argomento. «Insomma, questo per dirti che il manifesto conteneva quello che aveva voluto dire il committente, ma conteneva anche e di più quello che ci avevo messo dentro ìo, al punto che, sfruttato una prima volta, il disegno ha conservato una parte di vita per riapparire in nuove differenti situazioni. Aspetta, non mi fare un’altra domanda, fammi dire ancora questo. Con la mostra di maggio, facendo vedere cose nuove e cose vecchie, io vorrei dire ai ragazzi che frequentano le scuole d’arte: non cascate nella trappola delle etichette, per cui la pittura è buona, la pubblicità è cattiva, il fumetto è così e così, eccetera. Le arti non esistono, esistono gli autori. Non esiste committente che possa impedirti di dire quello che hai da dire, se hai delle cose da dire. Anzi, il committente può tirarti fuori cose che tu non sapevi di avere, perché se è venuto da te, vuoi dire che ha guardato quello che hai fatto prima e ci ha fatto dei ragionamenti sopra. Il committente, quando si presenta, ha un rapporto con te molto più stretto, molto più serio di quello che può avere il critico. No, fammi dire ancora questo: non mi sento troppo vicino a Warhol, mi sento invece molto vicino a Cranach quando ritraeva Lutero o Melantone e a Holbein quando incideva scene contro il papa-Anticristo». Sei strano perché gli altri artisti, riferendosi alla propria arte, non adoperano le stesse categorie che adoperi tu. «No?». No. Quando parlano della loro arte, senti che ti invitano a guardare il colore, le forme, i rapporti tra i volumi e le masse, le scale cromatiche. Gli altri pittori ti mettono in guardia dalla realtà. Il contenuto dei quadro non ha alcuna importanza, dicono, ciò che conta è solo la forma. Dicono anche: la pittura non si può capire che con la pittura... «Roba vecchia, in voga molti anni fa, che non mi ha mai convinto. E’ vero che la pittura contiene tutte queste cose. Ma non è fatta solo di queste cose. La storia delle forme e dei colori la sapevano pure gli antichi: e non ci stavano a perdere troppo tempo sopra, ma se ne servivano. Voglio dire questo: che cosa andiamo cercando nell’arte, nella letteratura, nella musica, nel resto? Che ci lascino vedere qualcosa, che ci facciano avanzare di un millimetro, che ci facciano capire un minimo in più di quello che abbiamo capito fino ad ora. In definitiva vorremmo tutti guadagnare una risposta in più per rubare un attimo alla vita. Ma ... ». Vai avanti. «Io ho ripetuto fino alla noia un concetto di Leonardo (e lo ripeto di nuovo): se un cominittente ti chiede un’opera, devi rappresentare quello che lui ti chiede, ma come pittore devi parlare ai pittori. Quando fai una crocefissione, il quadro deve entrare nella storia della religione e contemporaneamente nella storia della pittura. Cioè ci sono due binari, su uno c’è la storia, la cosa che devi o vuoi rappresentare, la testimonianza che dài sul tuo tempo e sulle idee che ti vivono intorno; sull’altro binario corre invece quello che stai facendo e dicendo in merito alla lingua che adoperi, la pittura. Ora, dagli Impressionisti in avanti, è accaduto che il primo binario si è progressivamente trasformato in un binario morto, dove si pensa che non valga più la pena di far correre il treno, dove si dubita anzi che il treno sia mai passato. Piano piano si è arrivati al punto che i pittori dipingono solo per la storia della pittura, e della critica, parlano solo ai pittori e ai critici (e ai collezionisti che però non sono committenti). Ciò che accade loro intorno, quello che vedono, sentono, amano, pensano gli uomíni del loro stesso tempo non avrebbe più alcuna importanza! Ma ci pensi ad un mondo in cui i libri trattano solo di libri, il cinema solo di cinema, la televisione solo di televisione, la poesia solo di poesia? A parte la noia, a chi gioverebbe? Io mi sono sempre avvicinato alla pittura con passi da ladro. Oggi non si trova quasi più niente da rubare, tutto è così facilmente spiaccicato sulle tele, con tanta rapidità e superficialità che in un attimo capisci e te ne tomi indietro a mani vuote. «Abbiamo parlato prima dei due binari su cui correva la pittura. Diciamo adesso che oggi c’è un terzo binario ed è il mercato. Il mercato è il nuovo committente, ma è purtroppo un committente che è interessato solo a se stesso e allo sviluppo di se stesso. Il mercato ha bisogno di opere non di valori. A questo ci penseranno le teorizzazioni critiche. A chi afferma, come dicevi tu prima, che la pittura non si può capire che con la pittura risponderei che secondo me non c’è mai stata un’epoca come la nostra in cui la pittura ha avuto più bisogno delle parole, di testi che la spieghino, di lunghe didascalie opera per opera. E’ la pittura più «illustrata» verbalmente di tutti i secoli, di tutti i tempi». Perciò un’arte priva di contenuti è l’ideale per questo mondo a parte. «Oggi servono artisti che diano al mercato la certezza della produzione. Non la scarsità, in questo mondo, fa valore, ma l’abbondanza, perché se i mercanti sanno di poter contare su una produzione certa, su un numero di opere regolarmente fabbricate, possono pianificare le loro operazioni a largo raggio, programmare grandi investimenti». Tu di tutto questo non fai parte? «Io mi sento come un pittore di cinque secoli fa. Il principe gli andava a chiedere il ritratto e lui glielo faceva. Certo, c’è principe e principe». Pericoli considera fondamentale l’anno 1985, in cui Giorgio Soavi e l’Olivetti lo incaricarono di illustrare un libro. Lui scelse Robinson Crusoe, ma fece una ricerca che andò oltre il libro e che fu raccolta in un’ampia mostra al Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano. Qui i due io dell’artista, quello che disegnava e quello che dipingeva, si incontrarono per la prima volta e si misero all’opera insieme. Il disegnatore prese subito a lavorare su Robinson, il pittore sull’isola. Presto i due Pericoli, che fino a quel momento s’erano ignorati e a mala pena sopportati, diedero corso a scambi ed effusioni. L’intesa s’è fatta da allora sempre più stretta. Chi ormai può più distinguere il disegnatore dal pittore? Intanto un frutto speciale di quell’amore fu proprio l’isola, effigiata in forma di mostruoso animale. Pericoli voleva fare qualcosa di strano, di mai visto. Solo molti anni dopo scoprì che l’inconcepibile mondo di Robinson e di Venerdì non era altro che il monte dell’Ascensione, come si vede ad Ascoli dalla finestra dell’amico Mario Scatasta. Quando uno ricomincia a tirar fuori roba dell’infanzia senza rendersene conto, non è segno di una qualche felicità, di una qualche facilità raggiunta? La casa dove Pericoli disegnava quando era bambino e copiava le foglie e i fiori il più preciso possibile era a tre piani. Pericoli stava al terzo, in una grande stanza, col tavolo di legno. Naturalmente il posto migliore era quel certo angolo vicino alla stufa dove ci si rincantucciava con le matite e l’album. Fuori, la casa aveva un grande orto, e dopo l’orto si estendevano altri orti. Di orto in orto, andando a caccia, pigliando nidi, verrà da lì l’aria meravigliosa che circola per i suoi acquerelli? Ah, dimenticavo, bisogna descrivere qualcosa della mostra di maggio. Pericoli ha dipinto soprattutto tavoli su cui son poggiate nature morte e boschi germinati dai versi dell’Orlando furioso. Di dietro gli alberi sbucano cavalieri armati che vanno all’assalto di cinghiali zannuti. In un altro quadro, su una tavola apparecchiata, ai piedi di un’enorme fruttiera colma di mele incolori, un galeone spagnolo solca le onde increspate del mare. Sulla destra qualcuno si è appena allontanato, lasciando sul ripiano un libro aperto. Altre tracce: un calamaio, un posacenere, un accendino, due taccuini. La parete sullo sfondo ha un parato a strisce verticali. Vi sono appesi tre quadri: un ritratto di Stevenson, una veduta di tetti aguzzi, una mappa su cui son tracciate le rotte. Davanti alla parete un globo di legno. A sinistra una porta da cui si intravede un’altra stanza. Qui, sopra un mobile, è stato sistemato un paralume. A destra è stata lasciata aperta la finestra. Sullo sfondo si vede il paesaggio montano. Tra le vette, nuvole bianche, che galleggiano verso l’infinito. Giorgio Dell’Arti