Camilla Baresani, Sette 24/12/2015, 24 dicembre 2015
Tags : Anno 1901. Raggruppati per Mangiare e Bere/Bere. Italia
COME NASCONO I PRODOTTI ITALIANI L’ACQUA
I segnali che rivelano se l’estate italiana sia andata bene, calda comme il faut, riguardano anzitutto i dati di vendita di insetticidi e di acqua minerale. Curioso accostamento commerciale tra una sostanza che toglie la vita e una che la conserva. Il nostro Paese è il luogo al mondo dove si consuma più acqua imbottigliata: circa 190 litri pro-capite nel 2014, di cui il 65% liscia, il 19% frizzante e il 16% effervescente naturale. In Una storia del mondo in 6 bicchieri, Tom Standage scrive: «Il divario tra Paesi sviluppati e Paesi in via di sviluppo è palese in primo luogo nel loro atteggiamento nei confronti dell’acqua. Le vendite d’acqua in bottiglia si sono impennate, raggiungendo i livelli di consumo più alti nel mondo sviluppato, dove l’acqua del rubinetto è abbondante e sicura da bere. La popolarità delle acque in bottiglia discende dalla convinzione diffusa che esse siano più salubri e sicure dell’acqua del rubinetto. Ma quest’ultima, almeno nelle nazioni sviluppate, è altrettanto affidabile». E aggiunge: «Secondo le Nazioni Unite, una delle ragioni principali per cui le bambine non vanno a scuola nell’Africa subsahariana è che passano la maggior parte del tempo ad andare a recuperare l’acqua da pozzi lontani e portarla a casa». Quasi come da noi, fino a poco più di un secolo fa, quando prima del frigorifero, prima delle bottiglie in Pet, prima della moda della bottiglietta d’acqua in borsa, era popolare il detto «Acqua di pozzo, erba cruda e donna nuda uccidono l’uomo». Lo scrittore inglese George Gissing in Sulla riva dello Jonio, un diario di viaggio nella Magna Grecia, pubblicato nel 1901, scrive a proposito di Crotone: «Non trovai nessuno disposto a dir bene del suo luogo natio; tutti si lamentavano della mancanza d’acqua (…) Vidi un pozzo o due, gelosamente custoditi; la loro acqua, a rigore, non sarebbe potabile, e chi può permetterselo compra l’acqua che viene di lontano, in orci di terracotta». E, come nota l’antropologo Vito Teti nell’Annale Alimentazione della Storia d’Italia (Einaudi): «Nel folklore meridionale il vino, che fa bene alla salute e allunga la vita, viene contrapposto all’acqua che fa male e accorcia gli anni. La superiorità del vino sembra legata alla scarsezza d’acqua potabile e alle infezioni che le “acque putride” provocavano». Nel corso dell’Ottocento, invece, le migliori fonti europee diventarono luoghi di ritrovo e di soggiorno, stazioni termali dove curarsi bevendo acqua pura. Fu così che gli intrecci esistenziali di villeggianti più o meno malati diedero spunto a infiniti romanzi e racconti di “narrativa termale”, da Schnitzler a Mann.
Il rito della polverina. Fino a tutto l’Ottocento, per assaggiare acqua effervescente – alla quale si attribuivano doti terapeutiche – non esisteva altro modo che recarsi alla sorgente. In La Storia di ciò che mangiamo, Renzo Pellati racconta che nel 1790, data la difficoltà di trasporto di acqua effervescente (si sgasava nel tragitto), lo svizzero Jacob Schweppe (cui si deve anche l’invenzione dell’acqua tonica Schweppes) ideò una macchina industriale per addizionare anidride carbonica all’acqua naturale e una bottiglia in grado di sigillare le bollicine senza farle svanire. Ma ci vollero altri due secoli per arrivare all’acqua effervescente per tutti. Molti di noi, quelli già nati negli Anni 60, ricordano le bustine di Frizzina e Idrolitina. Ne parla anche Il nuovo dizionario delle cose perdute di Francesco Guccini: «Era un rito quotidiano sulle tavole degli italiani, non ancora abituati all’uso dell’acqua minerale, e difatti l’acqua con le polverine veniva anche chiamata comunemente “acqua di viscì”, ignorando in molti, probabilmente, l’esistenza di un’acqua minerale che sgorgava dall’omonima cittadina francese di Vichy, sede, durante l’ultima guerra, del governo collaborazionista del maresciallo Pètain. L’idrolitina serviva a rendere un po’ meno triste (a ragione o a torto) l’acqua del rubinetto». Negli Anni 70, infine, cominciò ad affermarsi il consumo di acqua imbottigliata, grazie anche al progressivo abbandono del vetro, pesante e costoso: la bottiglia in Pet, polietilene tereftalato, fu brevettata nel ‘73. Dice Michele Pontecorvo, della famiglia proprietaria di Ferrarelle: «L’acqua è fornita da madre natura. Viene da un ambiente microbiologicamente puro ed è imbottigliata così come sgorga. Le fonti sono di proprietà delle Regioni. A noi imbottigliatori spettano invece responsabilità quali il presidio del territorio e la tutela del suolo e del sottosuolo». Questo significa che i 150 ettari di parco dove si trova la sorgente di Ferrarelle, in provincia di Caserta, devono venire presidiati dall’imbottigliatore per controllare che nessuno li inquini. «Per quanto riguarda la plastica alimentare, che può essere riciclata all’infinito, in termini di Co2 è meno impattante del vetro. Le bottiglie da 1,5 litri, che fino a 5 anni fa pesavano 40 grammi, ora ne pesano 25. E un consumatore che per un anno beve solo acqua imbottigliata nella Pet, se non disperde la bottiglia ma la butta nella campana della plastica, ha lo stesso impatto ambientale di un viaggio in macchina di due ore».
In Italia ci sono ben 265 marchi di acque confezionate. La produzione totale del comparto è di 12.550 milioni di litri per un giro d’affari di 2.400 milioni di euro. Esistono acque per tutti i gusti e tutte le esigenze. Quello che più di tutto le caratterizza è il residuo fisso, cioè la quantità di sali contenuta in un litro di acqua fatto evaporare a 180°. Più alta è la percentuale di sali, meno neutro è il sapore dell’acqua. Altri parametri di cui tener conto sono l’acidità (ottimale quella tra 6 e 7,5) e la presenza di calcio (ogni adulto dovrebbe consumarne circa 1 grammo al giorno).
A tutt’oggi, un quinto della popolazione mondiale, circa 1,2 miliardi di persone, non ha accesso a una fonte affidabile d’acqua. Ne consegue che è di grande attualità il tema del risparmio idrico. Anche i grandi cuochi, dal loro palco mediatico, cavalcano l’onda: lo fa per esempio Davide Scabin del ristorante Combal.zero di Rivoli. Scabin propone di cuocere la pasta di grano duro in pentola a pressione usando anziché 1 litro di acqua per ogni etto di pasta – come si è sempre ritenuto necessario –, solo 126 grammi di acqua, come per un risotto. Dai calcoli di Scabin, se è vero che ogni anno un italiano consuma 28 kg di pasta, si possono così risparmiare fino a 224 litri di acqua a testa, che, moltiplicati per il numero di abitanti, fanno più o meno 70 piscine olimpioniche.
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