Ester Corvi, MilanoFinanza 24/12/2015, 24 dicembre 2015
CI MANCAVA EL NINO
Il petrolio continua a catalizzare l’attenzione degli investitori. Non solo per il crollo delle ultime settimane, che l’ha portato a toccare i minimi del 2004, ma anche per le previsioni discordanti sul futuro andamento. Da una parte l’Opec (l’Organizzazione dei Paesi produttori di petrolio) lo vede destinato a una ripresa graduale che lo porterà a 70 dollari al barile nel 2020.
Dall’altro gli economisti di Goldman Sachs hanno ribadito qualche giorno fa la loro opinione, che aveva alimentato il clima ribassista: l’oro nero potrebbe scendere fino a quota 20 dollari, anche se in uno scenario a 12 mesi vedono il Wti risalire fino a 50 dollari. Difficile stabilire chi abbia ragione, mentre il prezzo tenta un modesto recupero, con il Wti e il Brent saliti entrambi oltre i 37 dollari al barile, dopo la pubblicazione dei dati sul calo delle scorte settimanali Usa.
L’Opec. Per capire i motivi alle base delle diverse proiezioni, si può partire dai Paesi del cartello, che nel rapporto World Oil Outlook si aspettano un calo della domanda da qui ai prossimi cinque anni, mentre l’offerta di idrocarburi non convenzionali, come il Tight Oil nordamericano, sembra destinata a crescere nonostante il crollo delle quotazioni. In base alle loro stime la domanda per il greggio Opec scenderà a 30,7 milioni di barili al giorno nel 2020 dai 30,9 milioni di barili stimati nel 2016, un milione di barili in meno rispetto all’attuale produzione. Dall’altra parte l’offerta di shale e tight oil aumenterà, generando sul mercato pressioni che l’Opec in passato aveva sottovalutato. I costi produttivi del greggio non convenzionale si stanno infatti rivelando inferiori rispetto a quanto si potesse immaginare un anno fa, quando molti analisti indicavano la soglia critica intorno a 50 dollari. L’outlook Opec spiega invece che «i giacimenti più ricchi possono sopportare punti di pareggio anche inferiori ai prezzi osservati nel 2015. È quindi probabile che verifichino ulteriori aumenti della produzione».
Secondo il cartello, la produzione globale di tight oil raggiungerà 5,2 milioni di barili al giorno nel 2020, con un picco di 5,61 milioni di barili nel 2030, mentre scenderà a 5,18 milioni di barili nel 2040.
L’aumento atteso nel medio periodo sarà conseguente al previsto ingresso di Russia e Argentina nel settore degli idrocarburi non convenzionali. Ma se anche Cina e Messico entrassero in questa industria, l’output di tight oil arriverebbe a 8 milioni di barili al giorno. In ogni caso, in un orizzonte di più lungo termine, il cartello sembro destinato a difendere la propria quota di mercato, con la domanda di greggio Opec che è stimata 40,70 milioni di barili al giorno nel 2040, pari al 37% dell’offerta mondiale, in progresso dall’attuale 33%.
La domanda globale fino al 2020 è stata rivista al rialzo di 500 mila barili rispetto all’outlook precedente, fino a 97,40 milioni di barili al giorno. Corretta invece al ribasso di 1,3 milioni di barili al giorno la domanda globale al 2040 (109,80 milioni di barili). Nell’eventualità però di una crescita globale inferiore alle attese e di un minore utilizzo degli idrocarburi per ragioni ambientali, queste proiezioni, secondo l’Opec, dovranno però essere modificate.
Goldman Sachs. A contribuire al ribasso del petrolio provvede anche il meteo. Si tratta dell’effetto El Niño che, secondo gli esperti della banca d’affari Usa, comporta più rischi per i prezzi dell’energia rispetto a quelli delle materie prime agricole. In conseguenza di un inverno insolitamente mite, il prezzo dell’oro nero rischia infatti di scendere più a lungo del previsto, appunto verso la temuta soglia dei 20 dollari.
Il disincentivo a produrre, a causa dell’attuale livello delle quotazioni, potrebbe non bastare a innescare il calo dell’offerta che aiuterebbe a riportare il mercato in equilibrio, mentre ai fattori che hanno contribuito alla discesa della domanda nei mesi scorsi (rallentamento dei Paesi emergenti, produzione di shale oil Usa, aumento del peso delle rinnovabili) ora si aggiungono temperature invernali superiori alla media stagionale, in Europa ma anche in Nord America dove si fa sentire appunto El Niño, ai massimi dal 1950.
«Dato il notevole eccesso di offerta» spiegano nel report gli analisti di Goldman Sachs «le scorte hanno continuato ad accumularsi fin dalla metà del 2014 e ora è molto più probabile che i rischi di choc di domanda, o rischi di nuovi eccessi di offerta, siano preponderanti sugli effetti negativi dovuti al calo delle quotazioni». Con un barile a 40 dollari, l’eccesso di offerta avrebbe dovuto essere riassorbito entro l’ultimo trimestre del 2016, a causa soprattutto di una riduzione della produzione Usa. Ma il numero di giacimenti americani e l’attività di esplorazione e perforazione restano elevati. Inoltre il livello di produzione previsto dall’Opec nel prossimo anno potrebbe risultare superiore ai 32 milioni di barili al giorno indicati dall’Opec, a causa dell’offerta proveniente dell’Iran. A complicare il quadro ci sono anche le scorte, che continuano a salire, con il rischio che raggiungano la saturazione entro la primavera.
Per tutte queste ragioni gli esperti reiterano la loro preoccupazione sul fatto che «gli stress finanziari potrebbero rivelarsi insufficienti a evitare che il mercato sia costretto ad accusare stress operativi, tali da innescare cali di produzione che potrebbero portare i prezzi in prossimità dei costi di produzione, probabilmente intorno a 20 dollari al barile».
Metalli. Di fronte alla flessione della domanda di materie prime proveniente dalla Cina, le società minerarie hanno avviato una nuova stagione di tagli agli investimenti, che non è bastata però per rassicurare il mercato, visti i bruschi cali delle quotazioni accusati sui mercati azionari. Alla base del sentiment negativo c’è la discesa del prezzo dei metalli industriali nel corso del 2015, con il rame che ha perso il 30% rispetto a un anno fa, mentre il ferro è crollato dell’80% dai massimi.
A causa del peggioramento delle prospettive, Moody’s investors service ha avvertito la scorsa settimana che potrebbe tagliare il rating del colosso Bhp Billiton. In particolare, un possibile downgrade del gruppo minerario anglo-australiano è legato all’aspettativa che la debolezza dei corsi delle materie prime possa continuare per diversi anni, riducendo significativamente la capacità di Bhp Billiton di generare utili e cash flow.
Guardando alle proiezioni a medio termine, secondo Goldman Sachs il prezzo del ferro potrebbe scendere sotto 35 dollari per tonnellata tra 2017 e 2018. Si tratta di una decisiva revisione rispetto a precedenti stime che erano intorno a 40 dollari. Il rame dovrebbe invece assestarsi a 4.800 dollari la tonnellata fra sei mesi, per poi correggere fino a 4.500 dollari in uno scenario a dodici mesi. Più ottimisti gli specialisti di Barclays: lo vedono su una media di 5.625 dollari nel 2016.
Fra i metalli industriali per cui gli analisti di Goldman Sachs prevedono un recupero ci sono il nickel, che fra un anno arriverà a 11 mila dollari la tonnellata, da un valore attuale di 8.700, lo zinco (1.800 dollari la tonnellata) e, in misura più ridotta, il piombo (1.750 dollari) e l’alluminio (1.550 dollari. Infine, trend in discesa per i preziosi, con l’oro stimato a 1.000 dollari l’oncia fra 12 mesi.