Francesco Giavazzi, Corriere della Sera 27/12/2015, 27 dicembre 2015
ATTACCARE LA UE NON CI CONVIENE
Il caso delle quattro banche chiuse il mese scorso non è solo una questione di risparmiatori truffati e autorità di vigilanza. Riguarda anche la solidità dei nostri risparmi e la nostra credibilità in Europa.
Il deficit pubblico della Francia — anche al netto degli interventi varati dopo gli attacchi del 13 novembre — chiude l’anno vicino al 4% e rimarrà sopra il 3% fino al 2017. Nessuno se ne preoccupa. Il fatto che questo sottoponga Parigi alla Procedura europea di sorveglianza (dalla quale noi uscimmo nel 2013) non preoccupa il governo francese che agisce come se quella procedura non fosse attiva. La strategia europea di Parigi è molto diversa dalla nostra: una diplomazia tanto attenta quanto efficace e discreta, l’opposto della nostra e soprattutto di affermazioni come quella con cui Matteo Renzi accompagnò il varo dell’ultima legge di Stabilità: «Se la bocciano la ripresento uguale!». Il risultato è che della Francia, che pure non ha finora adottato alcuna riforma significativa, alle riunioni europee nessuno mai parla e Parigi fa sostanzialmente ciò che vuole. Dell’Italia invece si discute nei dettagli. Anziché criticare Germania e Francia perché fanno i propri interessi, sarebbe meglio chiedersi perché riescono a farlo — e riflettere se la nostra strategia sia davvero vincente.
Un esempio è la vicenda delle quattro banche chiuse dal governo con il decreto del 22 novembre. Sulle banche Renzi ha sinora fatto scelte giuste rispettando le regole europee.
Il premier avrebbe quindi potuto far leva sul decreto del 22 novembre e ripetere ciò che dice spesso: «Siamo tornati autorevoli in Europa proprio perché ne rispettiamo le regole». Invece ha usato l’occasione per aprire una nuova offensiva. Ci conviene?
Un argomento dell’attacco all’Europa è che si usano due pesi e due misure. Ad esempio si è accettato che la Germania spendesse fra 240 e 270 miliardi per salvare le proprie banche, mentre a noi è stato proibito. Innanzitutto Berlino lo ha fatto quando ancora le regole lo consentivano. Ma al di là delle regole, la differenza è che gli investitori sono disposti ad acquistare una tale quantità di nuovi titoli pubblici tedeschi, mentre è dubbio che l’Italia, anche se potesse, riuscirebbe ad emettere ad un costo ragionevole 200 miliardi di nuovo debito per ricapitalizzare con denaro pubblico le nostre banche. Quindi dovremmo ricorrere, come fece la Spagna, al Fondo salva Stati e ciò significherebbe sottoporsi alla vigilanza della troika. Addio alla tanto invocata flessibilità!
Ma c’è un punto più importante. Per anni si è osservato che ciò che conta è il nostro debito netto, non il debito pubblico lordo. Cioè, a fronte degli oltre due trilioni di euro di debito pubblico si dovrebbero contare i circa tre trilioni di ricchezza finanziaria delle famiglie. Il nostro debito pubblico, sostengono alcuni, non è poi tanto rischioso perché compensato da una quantità ancor maggiore di ricchezza privata. Bene: ciò che è accaduto il mese scorso è proprio questo. Alcuni cittadini hanno visto una parte della loro ricchezza impiegata per salvare quattro banche, in tal modo evitando che il salvataggio si tramutasse in maggiore debito pubblico. Se questo ci indigna, la si smetta di dire che la ricchezza delle famiglie è una garanzia per il debito pubblico.
Sulle banche il governo Renzi ha preso tre buone decisioni. La più importante, a febbraio, fu l’obbligo imposto alle Popolari di trasformarsi in normali società per azioni. Tutto quanto è accaduto quest’anno deriva da quella decisione che ha spazzato via il connubio fra credito locale e consenso politico locale. Senza quel decreto le Popolari avrebbero continuato ad essere degli zombi che prestavano denaro solo a chi, come accadeva a Vicenza e alla Banca dell’Etruria, si impegnava ad acquistare titoli emessi dalla banca stessa.
La seconda buona decisione è il decreto del 22 novembre. In quel decreto il governo ha deciso di valutare i crediti inesigibili delle quattro banche chiuse a poco meno del 18% del loro valore nominale, cioè al prezzo al quale essi oggi possono essere venduti sul mercato. Valutarli di più significava cedere all’illusione che col tempo il loro valore sarebbe risalito. Il Giappone visse in quell’illusione per un decennio e per un decennio le sue banche non finanziarono investimenti.
La terza buona decisione, infine, è stata di non violare le regole europee sugli aiuti di Stato e quindi non usare il Fondo di garanzia sui depositi per salvare azionisti e obbligazionisti delle quattro banche chiuse, rimandando i casi di truffa evidente ad un intervento pubblico separato. Come si è visto con il caso della banca pugliese Tercas — che è ora obbligata a restituire i fondi ricevuti al momento del salvataggio — l’eventualità che un intervento sia giudicato un aiuto di Stato rende la banca molto difficile da vendere perché pochi acquirenti se ne assumerebbero il rischio.
Decisioni che vanno nella giusta direzione, quindi. Perché non far leva su di esse anziché usarle per aprire una nuova offensiva europea?
Attaccare le istituzioni di Bruxelles per togliere acqua a chi nuota nell’antieuropeismo non paga.