Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  dicembre 23 Mercoledì calendario

NEL REGNO DISCIOLTO


Dalla sua tolda di comando, sul ponte buio del rompighiaccio Svalbard, il capitano André Barane commenta l’ovvio: «Non c’è più ghiaccio».
La nave è un titanico 102 metri della Guardia Costiera norvegese, con quattro motori da 18 mila cavalli; la nave ha una chiglia tonda disegnata per schiacciare con bruta forza un metro di ghiaccio.
Solo che non c’è.
A esserci, è la notte.
La giornata deve essere luminosa, da qualche parte. Ma da quando siamo arrivati a Tromso, nella Norvegia artica, è scesa una cappa. Il sole è sotto l’orizzonte anche a mezzogiorno e soltanto le magiche luci dell’aurora boreale squarciano, talvolta, le tenebre più fitte.
La nostra meta è Bjørnøya, l’Isola degli Orsi, un eremo sperduto, nel mare di Barents.
La nostra meta è una remota stazione meteo, su a nord, al 74° parallelo, popolata da nove norvegesi e tre husky.
Il capitano del rompighiaccio ha 50 anni e una voglia, un’esile rosa, sulla guancia. Parla volentieri; dice di aver assistito a strabilianti mutamenti del paesaggio.
«Fino a venti anni fa, qui era tutto ghiaccio», dice. «C’era ghiaccio ben prima di arrivare a Bjørnøya».
Il capitano racconta storie esilaranti: di equipaggi ubriachi, di halibut spacciati per merluzzi, della volta in cui, ispezionando un bastimento russo, scoprì nei freezer il cadavere di un marinaio che si era sentito male e, piuttosto che portarlo a terra, era stato congelato dalla ciurma assieme ai pesci.
Ma la cosa più incredibile, dice, è stata un’altra. Lo scorso gennaio, a nord delle Svalbard, oltre l’80° parallelo, nel disciolto regno degli orsi, c’erano pescatori che pescavano gamberetti. «Stanno succedendo cose strane», dice il capitano.
«Non c’è più l’inverno».
Nel profondo Nord, lo storico accordo di Parigi, che limita a due gradi il riscaldamento del pianeta negli anni a venire, potrebbe essere troppo poco troppo tardi.
«Due gradi in più a Roma sono sei gradi in più al Polo», mi ha spiegato Helge Tangen.
È un signore distinto, amante dell’Opera; è il direttore regionale dell’Istituto Meteorologico di Tromsø.
Prima del mio imbarco, ha squadernato grafici da disfatta. L’Artico è il barometro della Terra, l’amplificatore della sua febbre. Dai tempi delle ultime glaciazioni, è sinonimo di mare che ghiaccia. Ma il naturale ciclo delle stagioni – gelo e disgelo – è ormai saltato a causa del caldo. Una delle cose che faceva il candore del ghiaccio era riflettere i raggi del sole. Senza di esso a far da barriera, le radiazioni sono assorbite dall’acqua, che in autunno rilascia il calore nell’atmosfera, alzando le temperature.
Un corto circuito micidiale. «Il problema è che il clima può cambiare molto rapidamente», dice Tangen. «Ma soltanto a posteriori sapremo di aver raggiunto il punto di non ritorno». Guardo e riguardo una tabella, faccio fatica a crederci.
A Longyearbyen, la capitale dell’arcipelago Svalbard, la temperatura media nel 1912 era -28. Oggi è -2.
Poiché contiene il sale, il mare congela a -1,8 gradi. Il che vuol dire ghiaccio sempre più giovane e sottile e fragile; il che vuol dire che nei prossimi venti anni potrebbe non esserci più banchisa d’estate nell’Artide.
Quel che vuol dire, esattamente, me lo ha spiegato un giovane scienziato, l’uomo delle mappe, il cui titolo sul bigliettino mi strappa un sorriso: «Ice Service». Servizio Ghiaccio.
Ogni giorno, dal lunedì al venerdì, Nick Hughes scruta i dati e delinea le prime linee, i bordi, i margini del ritiro che poi trasmette ai pescherecci e alla Guardia Costiera e alle navi crociera e ad altri clienti che si apprestano a navigare in queste non più perigliose acque.
In questo momento, la frontiera è molto a nord delle Svalbard, molto più a nord del punto in cui il capitano Barane si è imbattuto nella pesca di gamberetti.
Sono lì che mi barcameno, tra correnti e pressioni, quando Hughes mi mette sotto il naso una mappa Sentinel-1-Radarsat2, i satelliti di cui si serve per elaborare le sue colorate trincee.
«Oggi, 3 dicembre, il ghiaccio marino delle Svalbard è pari a 192.927 km quadrati», dice.
E che vuol dire?
«La media storica dal 1981 al 2010 è stata di 335.000 km quadrati. Così è il minimo mai registrato. Un calo di oltre il 42%». Faccio una ricerca, provo a capire; e infine capisco. È come se la metà della superficie dell’Italia fosse sparita dalle carte.

L’approdo a Bjørnøya, l’Isola degli Orsi, è previsto per le venti. Ma è sempre buio e, complice il rollio, sono ormai in balia di uno spaesamento cosmico.
Però ci sono delle cose che so.
Per sbarcare, sarà necessario indossare un survival suit, una muta che, in caso di caduta, ci terrà in vita tra i flutti del mare di Barents. So anche che attraccheremo su un’esile lancia, e che il porticciolo è scivoloso e instabile.
Alla fine, va tutto liscio. Un gancio deposita il gommone tra le onde, e schizziamo verso le rade luci di un piccolo molo. Avanziamo su per un sentiero scivoloso e candido; intravedo, nel crepuscolo, casette rosse, e ripidi burroni, e infine una struttura lunga e bassa, con le cucce degli husky.
Ad attenderci è una curiosa combriccola, un mix di ex spie e microbiologi, programmisti e chef. Ci sono anche un assistente sociale, un idraulico e un ingegnere, tutta gente che ha scelto di trascorrere sei mesi, in questo eremo, a sondare il tempo.

La missione della Guardia Costiera era accompagnare la nuova ciurma, i nove nuovi addetti alla stazione meteo, che avrebbero dato il cambio ai vecchi turnisti di Bjørnøya. Ogni ora, ogni giorno, i nuovi, come i vecchi, avrebbero osservato le nuvole, il tipo, la consistenza, prendendo nota della neve e del ghiaccio e della pioggia e dell’altezza delle onde.
Ogni sei ore, avrebbero lanciato un pallone, una radiosonda, che prima di scoppiare, a 40 mila metri, e diventare un detrito nella stratosfera, avrebbe misurato i venti e l’umidità e la pressione, tutti dati preziosi per le previsioni meteo.
È stato bello, nella notte polare, ascoltare questi ragazzi, alla radio proclamare: «A tutte le navi, a tutte le navi», il rito universale con cui gli esseri umani scrutano gli elementi per sentirsi più sicuri, meno soli.
Il luogo difficilmente potrebbe essere più estremo.
«È un posto selvaggio, sai?», è una delle prima cose che mi ha detto Vidar Teigen.
«Qui un uomo è stato mangiato vivo da un orso, e sai perché? La porta della cabina era chiusa a chiave».
Da allora, sull’isola, la politica è: vietato chiudere le porte, e le uniche chiavi sono quelle degli scaffali delle medicine e dell’alcol.
Ma è una precauzione inutile. È ancora obbligatorio portare un fucile, per uscire, ma è un po’ come essere arrivati su un mare liquido in rompighiaccio.
La verità è che non ci sono più orsi nell’isola che porta il loro nome, e non c’entrano i cacciatori di pellicce e le antiche trappole ancora oggi visibili in vari punti di Bjørnøya.
Vidar Teigen è un veterano della stazione; il suo saggio. In un’altra vita era microbiologo, qui è il responsabile uscente delle osservazioni di terra. Adora l’isola, e conosce la sua storia. Rammenta storie epiche; di navi marcescenti di scorbuto; di fosse comuni di cacciatori proprio a ovest del piccolo molo; di un peschereccio russo che si è schiantalo nella nebbia, nel 2009: il relitto è ancora lì, eroso dal sale, che sbatacchia al vento.
La prima volta di Teigen fu a metà degli anni Novanta. Un altro mondo. La banchisa allora cominciava miglia a sud, e gli orsi si aggiravano intorno alle casette rosse che ci ospitano. «Nel 1995, ne contammo 394. Negli ultimi tre anni non si sono fatti vedere», dice Teigen. «Eppure possono nuotare almeno 150 chilometri, possono nuotare per giorni e giorni. Ma il ghiaccio è troppo lontano, ormai». Gli orsi si aggirano sulle sponde del mare gelato a caccia di foche, però lo scioglimento dei ghiacci ha rimpicciolito il loro habitat. In pericolo sono anche i trichechi, e le balene beluga e le foche e tutte le creature dell’Artico.
«Succedono cose strane», dice Teigen. «Specie prima sconosciute arrivano dai mari del Sud. Pesci come lo sgombro, che dieci anni fa non c’erano nelle Svalbard, ora ci sono».

Una sera, o forse era un giorno, difficile esserne certi, abbiamo camminato per un paio d’ore, sulle tracce di un futuro ignoto. Tre giovani della stazione ci precedevano sulla neve morbida, immacolata. Uno imbracciava un fucile, mentre gli husky, felici, giocavano tra loro, le folte calde code inanellate in tripudio.
Sulla volta stellata danzavano le incantevoli luci dell’aurora boreale; sulla terra, il barometro misurava -3 gradi.
Caldo, per un’isola nel mare di Barents. Mi sono tornate in mente le parole di Helge Tangen, il direttore dell’Istituto Meteorologico di Tromsø. Vent’anni fa, a dicembre, faceva -20.
Siamo entrati in una fase imprevedibile, diceva Tangen.
Ci siamo dentro.
«La stagione sciistica ha perso un giorno a stagione nelle ultime trenta stagioni. Parliamo di un mese in 30 anni».
Ci siamo dentro.
«A Tromsø, stiamo cambiando i piani urbanistici. Con la luna piena, e l’alta marea, abbiamo già ora case inondate e straripamento delle fogne».
Ci siamo dentro.
Ma avanziamo, nella notte, fingendo di non saperlo.