Tom Lamont, VanityFair 23/12/2015, 23 dicembre 2015
ADELE E L’ANGELO
In un mattino fradicio e senza sole, Adele arriva negli uffici londinesi della XL Recordings con una tazza di tè in una mano, un telefono nell’altra e il destino della discografia mondiale nella borsa. «Ci dormo incatenata», dice del sottile laptop argentato che sta estraendo dalla borsa. Poi: «Ma vaaaa’. Cos’è, sono una della mafia russa? Lo tengo solo accanto al letto». In una sala insonorizzata della casa discografica, incasinata come un appartamento di studenti, con vecchi ritagli di giornale e torsoli di mela abbandonati qua e là, si accovaccia accanto a un amplificatore. Tira cavi e spinge bottoni, cercando di collegare l’uscita sonora del portatile.
Oggi indossa un maglione scuro e pantaloni affusolati. Negli stivaletti col tacco tempestati di glitter si è già infiltrata un po’ di umidità autunnale e per cui, ovunque si fermi, Adele lascia una traccia scintillante. Ha unghie finte nero inchiostro, che però sono a pezzi, tutte rosicchiate. «Sono al 60 per cento emozionata», dice, invitandomi a sedere accanto alle casse, «e al 40 per cento mi cago addosso». Mi ha fatto venire qui per ascoltare il suo terzo album, 25.
Il terzo album di Adele! Un oggetto quasi mitologico nella nostra cultura, un po’ come l’inedito di Salinger o la tecnica con cui gli Inca incastravano le pietre. Girava voce che avrebbe pubblicato 25 nel 2013, l’anno in cui ha effettivamente compiuto 25 anni. Poi lei stessa ha fatto capire che il disco sarebbe uscito nel 2014: l’anno scorso c’era una versione più o meno pronta, prima che Adele cestinasse metà delle canzoni. «Sarebbe stato imbarazzante se me la fossi cavata con quel disco».
Oggi, adesso, è pronto. Stasera all’ora di cena, Adele invierà ai boss della sua casa discografica la scaletta dei brani definitiva.
L’ultima volta che ha fatto uscire un album – il suo secondo, 21, del 2011 – ha vinto 37 premi, tra cui 7 Grammy. Come vendite, è stato un unicum generazionale. Stime di vendita a oggi: 30 milioni.
«Eh, però no, il punto è proprio questo», dice Adele. «Non puoi dare niente per scontato. Magari poi quello nuovo vende centomila copie».
Magari. Anche se prima, forse, un attacco nucleare dovrebbe falcidiare buona parte del pubblico che la attende.
«Be’, io non voglio caricarmi troppo di aspettative», dice.
Agita uno stivaletto luccicante. «Non sono arrogante. Non sono ingenua. Alcuni mi dicono: “Venderà almeno la metà dell’altro’’. Ma secondo me niente è garantito. Non lo puoi sapere».
La prima volta che ho incontrato Adele, 5 anni fa, non lo sapevamo. Era il febbraio del 2011 e la musicista, allora una ventiduenne molto frenetica e molto sboccata, era atterrata a New York per un giro di concerti e interviste. Le andai dietro per un weekend, osservando lei e il suo piccolo entourage che si gridavano addosso nei camerini, oltre a impressionare gli americani con la loro capacità di infilare parolacce in angoli di frase inconsueti. In quel momento credevo di lavorare a un articolo su una londinese di belle speranze (nata nel Nord di Londra, cresciuta nel Sud, studi alla Brit School, contratto con la XL nel 2006, album di esordio, 19, nel 2008) che cercava di sfondare in America con il suo secondo album. La storia del pop lasciava intendere che il tentativo sarebbe fallito, ma l’atteggiamento generale, nel giro di Adele, sembrava essere: che cavolo ce ne frega, un tentativo facciamolo.
Prima di volare a New York, Adele aveva cantato a Londra per i Brit Awards 2011. La sua interpretazione di Someone Like You, una ballata del nuovo disco, era molto piaciuta. Ovazione. Champagne recapitato al tavolo. Ancora con i postumi della serata, Adele aveva preso un aereo per il JFK, e al suo atterraggio era già cambiato tutto. La registrazione dal vivo di Someone Like You stava scalando rapidamente la classifica dei singoli più venduti nel Regno Unito. Quando arrivò la notizia che la canzone aveva raggiunto il numero 1, lei andò a farsi una pedicure.
Adele lo ricorda come un momento di sorpresa e soddisfazione, ma anche di crescente paura. «Ero spaventatissima. Capivo che stava succedendo qualcosa. Di colpo sembrava possibile sfondare in America, e il pensiero era: “Cazzo”». Dice di aver provato una strana sensazione di smarrimento. «Quasi come fossi uscita dal mio corpo. Ricordo mia madre che mi chiedeva: “Cos’hai? Cos’hai?”». Adele non riusciva a spiegarlo. «Sentivo che c’era qualcosa in arrivo».
Nel giro di poco tempo, 21 arrivò in cima alle classifiche di quasi 30 Paesi. In Inghilterra e negli Stati Uniti rimase saldo in vetta per un mese, due... sei. Poi Amazon confermò di non aver mai spedito così tanti cd. Il Guinness dei primati sfornava record mondiali a mazzi. Avendo già insignito 21 del titolo di «album dell’anno 2011», la rivista Billboard fu costretta a eleggerlo album dell’anno anche per il 2012. I produttori di James Bond invitarono Adele a cantare la canzone del nuovo film della serie, Skyfall, e quando uscì come singolo vendette milioni di copie anche quella. Adele vinse un Golden Globe. Un Oscar.
In Gran Bretagna divenne Miss Adele Adkins MBE, ovvero membro dell’Ordine dell’Impero Britannico, onorificenza che le allungava il nome proprio mentre lei diventava così famosa da poter usare solo quello di battesimo. Divenne una delle poche donne ad aver raggiunto quel livello di vendite. A entrare nel club di Madonna, Mariah, Alanis, Britney e Whitney.
La sua musica era la più richiesta ai karaoke, la più suonata ai funerali, «la migliore per chi ha paura di prendere l’aereo», «la più usata per addormentarsi». Si disse che, sentendo una canzone di Adele alla radio al General Hospital di Leeds, una bambina si fosse risvegliata dal coma.
La cosa «mi ha un filino travolto», dice oggi, ripensandoci. Nella sgangherata saletta della XL, ha intanto messo su 25. Con i palmi ben stretti intorno a una tazza di tè, china la testa da una parte e muove le labbra sulle parole della prima canzone: «Hello/It’s me/I was wondering if after all these years...» («Ciao/ Sono io/ Mi chiedevo se, dopo tanti anni...»).
Si tratta di Hello, una tremante ballata sulla difficoltà di ritrovare l’intimità dopo una separazione. «Mi sembrava il modo giusto per cominciare. Dopo il mio, ehm, periodo sabbatico».
I dati che circolano su quanto la XL Recordings abbia guadagnato con Adele non sempre coincidono, se non sul fatto che secondo tutti sono cifre enormi. La casa discografica occupa ancora gli stessi uffici scalcagnati di sempre, in una palazzina a schiera nell’ovest di Londra. Sulle pareti dell’atrio si sovrappongono i poster degli artisti affiliati, e quello di 21 è appiccicato dietro un portaombrelli. A un anno dall’uscita di 21, la rivista Music Week stimò i profitti dell’azienda intorno ai 55 milioni di euro.
Adele sembra seguire l’esempio della XL nel minimizzare l’argomento finanze. Si dice che il suo patrimonio personale superi i 70 milioni di sterline, ma lei preferisce esporre la questione così: «Ho cominciato a far la spesa da Waitrose (la catena di supermercati inglese più costosa e raffinata di tutte, ndr)».
Altre cose sono cambiate nella sua vita. Sono decisamente diminuite le code, i compiti ingrati, gli spostamenti sui mezzi pubblici. Parallelamente, Adele ha perso in parte l’accesso alle conversazioni casuali e all’anonimato della vita quotidiana. «Quando entro in una stanza piena di gente che non conosco, smettono tutti di parlare. E lo capisco. Mi è chiaro. Perché è una cosa che è capitato di fare anche a me. È che... Se io vado da uno e gli chiedo che fa nella vita, quello mi risponde: “Ah, niente di interessante, paragonato a quel che fai tu”. Invece è interessante. A me interessa. È la vita vera e io ho voglia di parlarne. Di parlarne oggi, e poi di riparlarne domani».
Una cosa di Adele che tendiamo a dimenticarci è che un tempo lei era cool. Ma cool per davvero, un’adolescente con la frangia e gli occhiali da aviatore avvolta dal fumo delle Marlboro, i cui amici erano perlopiù artisti poveri, e che nella borsa si portava dietro una copia di Time Out aperta alla pagina dei concerti. La prima volta che la vidi esibirsi, in un concertino a Londra nel 2007, salì sul palco con un vestitino a fiori e i capelli in disordine. Dentro, da qualche parte, la hipster è rimasta; Adele dispone ancora di un radar anti-teste di cazzo perfettamente funzionante.
«A cosa ho detto no? A tutto quel che puoi immaginare. Giuro, ogni cazzo di cosa ti venga in mente. Libri, vestiti, linee di cibi, linee di bevande, linee di prodotti da fitness... Mi volevano come volto di una macchina. Di giocattoli. Applicazioni. Candele. E io, tipo: no, non mi va di pubblicizzare lo smalto per unghie, grazie lo stesso. Un milione di sterline per cantare al tuo compleanno? Nel caso preferirei farlo gratis, ma grazie...». A un certo punto, dice Adele, «i soldi non fanno che tirarteli addosso».
Non che lei non abbia vacillato davanti ai privilegi. «Cedere alla fama è facilissimo. Perché è attraente. È forte. Ti risucchia. È quasi più difficile resisterle. Dopo un po’, però, mi sono semplicemente rifiutata di accettare una vita che non era reale».
Che cos’aveva di irreale?
«Tipo...» Ci pensa. «Tipo che cominci ad accettare che le cose vengano fatte per te. No, anzi, ad aspettarti che le cose vengano fatte per te. Qualche momento così ce l’ho avuto. E mi ha fatto paura. Credo sia stata una cosa semplice, tipo rimanere senza vestiti puliti. E io che non prendo l’iniziativa di lavarmeli da sola. Io infastidita dal fatto che i vestiti non erano puliti». E quindi? «Quindi mi son detta che era il caso di scendere. E farmelo da sola, quel cazzo di bucato».
Ogni tanto, nelle tracce del nuovo album che ascolto, Adele dà l’impressione di provare nostalgia per la vita prima di 21. «I miss my friends... I miss it when life was a party to be thrown...» («Mi mancano i mici amici... Mi manca quel momento in cui la vita era una festa da organizzare»).
Lei dice che non è così. «Tutti credo diano per scontato che io non sia contenta di dove mi trovo. Ma a me piace tantissimo. Sono un’artista, possiedo un ego che ama essere nutrito».
Ho la sensazione che Adele tema di essere inquadrata come un certo genere di musicista – quello che diventa famoso cantando di questioni umane, e dopo comincia a scrivere soltanto di quant’è brutto rimbalzare fra gli hotel a cinque stelle in tour. «Mai avrei scritto un disco su com’è la vita da molto famosi. Perché, chi se ne frega?».
Eppure. Un testo in particolare, quello di Million Years Ago, sembra esprimere un esplicito malessere. «Around the streets where I grew up», canta Adele, «they can’t look me in the eye/ It’s like they’re scared of me/ I try to think of things to say/ Like a joke or a memory/ But they don’t recognise me/ In the light of day».
(«Nelle vie in cui sono cresciuta/ non riescono a guardarmi negli occhi/ È come se gli facessi paura/ Cerco di trovare cose da dire/ Come una battuta o un ricordo/ Ma loro non mi riconoscono/ Alla luce del giorno.. »). Sembrano le parole di una persona, le dico, che di stanze in cui cala il silenzio ne ha visitate parecchie. Come ci si sente?
«Soli. Ci si sente soli. Cioè, io poi di solito riesco a rompere il ghiaccio. Se dopo dieci minuti la gente continua a non parlare, tiro fuori una battuta, e da lì entro nella mia modalità di chiacchiera da tensione, come quando sto sul palco, e faccio ridere tutti. Ma dopo un po’ mi sembra di recitare. E non so se è... come dire. .. Nessuno vuole semplicemente conoscermi? Al tempo stesso, però, penso che magari non sono nemmeno lì per conoscere me... Non riesco a spiegarmi».
Ci provi.
«Tipo che io e i miei amici usciamo per festeggiare un fidanzamento. O un compleanno. Oppure si va a bere per la nascita di un bambino. È il loro evento, non un’occasione per conoscere me. Ma ormai è diventato così. Per cui a volte è più semplice non andare».
C’è una contraddizione che affligge i molto famosi. La celebrità li rende magnetici e al tempo stesso crea una distanza, reale o immaginata. Può capitargli di essere esposti soltanto al peggio di noialtri, la curiosità a distanza di teleobbiettivo e la freddezza da vicino.
«In un certo senso, penso che a cambiare siano tutti gli altri», dice. «Anche più di chi diventa famoso».
Qualche anno fa è andata a vivere con un nuovo fidanzato. Simon Konecki, dirigente di un’organizzazione no profit di Brighton. Nel 2012 hanno avuto un figlio, Angelo. A distanza di teleobbiettivo, l’impressione è che l’amore e la maternità abbiano provocato un periodo di letargo. Di isolamento, addirittura.
«Non sono una reclusa», dice lei. «Non ho smesso di andare nei negozi. Al parco. Nei musei. È che non mi hanno fotografato mentre lo facevo».
L’abbiamo vista a due Brit Awards, a due cerimonie dei Grammy, e all’inizio del 2013 è volata a Hollywood per i Globe e gli Oscar, non molto tempo dopo aver partorito. («Tra un premio e l’altro correvo in bagno a tirare il latte e buttarlo, cosa che peraltro faceva un sacco di gente. E poi tutte queste superstar di Hollywood in fila per allattare al seno nei bagni delle signore. No, non posso fare i nomi. Perché le ho viste tette al vento».) Da lì in poi, non c’è più stato molto da segnalare.
Non capita spesso che un musicista sparisca in un momento di forte appeal commerciale, e nel suo caso gli addetti ai lavori sono rimasti perplessi e perfino un po’ infastiditi. Adele: «So che per alcuni sono stata una pazza a prendermi una pausa. Perfino io mi rendo conto che è stato un po’ strano. Ma sono felice che sia successo. Penso sia stata la scelta giusta. Ha rallentato tutto quanto». Il motivo che l’ha spinta a tornare?
«Uhm. Mio figlio». E spiega: «Aver partorito è stata una sensazione mega. Mi ha dato una sicurezza... mi sentivo inarrestabile. Credo che succeda a molte donne... Verso la fine del periodo 21, non riuscivo più a ricordarmi perché stavo facendo tutte quelle cose. Non riuscivo a rispondere alla domanda: “Perché mi trovo dall’altra parte del mondo? Da sola?”. Poi però, dopo aver avuto mio figlio, ho pensato: “Ah, ecco perché le ho fatte’’. È stata la prima volta che ho provato orgoglio per tutto il successo di 21. E adesso ogni cosa che faccio va a finire in un’eredità che metto da parte per mio figlio. Per i miei figli, se ne avrò altri. A motivarmi non sono di sicuro i soldi, però questo mi motiva. Voglio che mio figlio veda sua mamma gestire un’attività come si deve. Diventare di nuovo un capo. E, si spera, fare ancora centro».
Nella saletta della XL cominciamo a tenere il ritmo con la testa. Adele mi sta facendo ascoltare un pezzo intitolato Send My Love (to Your New Lover), tutto ritmo e belligeranza, una di quelle affilate canzoni di vendetta che ti fanno venir voglia di uscire a cercare un uomo infedele solo per il gusto di cacciarlo di casa e cantargli il testo mentre si allontana.
«Send my love to your new lover/ Treat her better» («Salutami tanto la tua nuova fidanzata/ Lei trattala meglio»).
Dice: «È la mia canzone-vaffanculo». L’ha scritta per il fidanzato precedente, l’innominato ex che la scaricò, ispirando le canzoni più belle e più tristi di 21. «Sarà banale da dire, ma secondo me impari ad amare di nuovo solo quando ti innamori di nuovo. Io ora mi sento così. Per il mio uomo provo un amore profondo e vero, e questo mi mette nelle condizioni di poter infine tendere una mano all’ex. Fargli sapere che l’ho superata».
«Il mio uomo», tra parentesi, è il termine con cui Adele preferisce riferirsi a Konecki; un po’ come «mio figlio» è l’unico modo in cui nomina Angelo. Questa politica dell’anonimato sembra far parte di un accordo che Adele ha stretto con se stessa, un modo per parlare del suo nuovo album senza invadere del tutto la privacy delle persone a lei più vicine. Della sua relazione con Konecki si è cominciato a parlare tre anni fa. Da allora, di tanto in tanto Adele ha dovuto smentire mielosi articoli di gossip che li davano per sposati in gran segreto, o in gran segreto separati.
Lei sospira. Stanno ancora insieme. «Contrariamente a quanto riportato. Sì, sì, sì, sì, sì. E molto felicemente».
Mi fa sentire un altro pezzo, I Miss You, che dice di aver cominciato a scrivere una sera a letto, perché non riusciva a dormire. «I miss you/ I miss you/ I miss you/ I miss you» («Mi manchi/ Mi manchi/ Mi manchi/ Mi manchi»). Le chiedo che cosa ne pensa Konecki. «Il mio uomo è fedele. È forte. Ne abbiamo parlato proprio all’inizio, e lui ha detto: “Quello che scrivi non mi riguarda”. Non ha problemi. E, per prenderla così, uno dev’essere forte».
21 è stato scritto durante una serie di sessioni a due con coautori fidati. 25 anche: Adele piazzata accanto un pianoforte con un superproduttore come Max Martin o Greg Kurstin, o magari con qualcuno di relativamente sconosciuto, e vedeva cosa veniva fuori nel giro di qualche giorno. Un procedimento rivelatosi fruttuoso con 21. «Quel disco è stato anomalo, nessuna fatica!». 25 non tanto. Più o meno nel periodo dell’Oscar, un giorno che si era alzata presto per via del bambino, Adele ha trascorso una mattinata a Hollywood nello studio di Paul Epworth, con il quale aveva collaborato per 21.
«Abbiamo cazzeggiato per un po’, direi un’oretta. Ed è stato chiaro quasi subito che non c’ero con la testa». Ha però messo insieme alcune canzoni, qua e là, per poi buttarle tutte quante lo scorso autunno, su consiglio del produttore Rick Rubin. In una sala d’ascolto simile a quella della XL, Rubin è stato schietto: non ci siamo. «Io, sinceramente», dice Adele, «stavo solo aspettando che qualcuno me lo dicesse». E a quel punto? «Sono ripartita da capo. Facendomi un culo così».
Sa bene che la principale attrattiva di 21 risiedeva nel suo essere un disco totalmente affranto. «La gente l’ha trovato molto consolante, perché la delusione d’amore è una cosa che capiscono tutti». Da quel che sento del nuovo disco, oggi, è chiaro che i fan di Adele ne ameranno moltissimo il suono, elegante, sensibile, e quell’inimitabile voce che sa di crepe nell’asfalto. È raro però che i testi scivolino nella tristezza. Le analisi a denti stretti della fine di un amore per cui Adele è diventata famosa non ci sono. Se 21 sembrava scritto da una persona alle prese con una ferita aperta, 25 somiglia più a un intrigante studio delle cicatrici.
Adele è convinta che c’entri anche questo, nel fatto che stavolta il lavoro di composizione sia stato così difficile da non permetterle di perdersi completamente nella tristezza. «Non potevo abbandonarmi a certe cose solo per ritrovare la creatività. Non ce n’era modo». Perché no? «Perché adesso ho la responsabilità di una persona».
È difficile capire quanto si può chiedere di Angelo ad Adele. Nelle sue parole, lui appare in continuazione, pur se indirettamente. Si è fatta tatuare il suo nome sul lato di una mano. Il bambino, che oggi ha tre anni, fa persino un tenero tentativo di introdursi nell’intervista, quando parlandogli al telefono Adele deve dire: «No che non puoi parlare con il signore. No, non gliela faccio una foto».
Di norma. Adele è una che si sbottona. A un certo punto della nostra conversazione, insoddisfatta del modo in cui ha appena descritto la colomba che si è appena tatuata sulla schiena, si tira giù la spallina del reggiseno e la scopre. Ma le circostanze l’hanno costretta a vigilare su quel che le risulta naturale, e oggi, parlando di Angelo, l’espressione del suo viso tradisce un evidente conflitto. Da un lato, concedersi di raccontare per filo e per segno i fatti propri, e dall’altro la legittima preoccupazione per la privacy del figlio. Una contraddizione che Adele riassume in perfetto stile Adele, mostrandomi il tatuaggio del nome di Angelo e dicendo: «Sarò una cogliona, eh? A voce alta il nome non lo dico, poi però me lo faccio scrivere sulla mano».
Finito l’ascolto del disco, e dopo che Adele è schizzata via dalla stanza per un salto al bagno («Devo fare pipì!»), le chiedo se possiamo riascoltare una traccia. È una canzone intitolata When We Were Young, e ce l’ho già dentro, ho già bisogno di riascoltarla più volte.
«You look like a movie/ You sound like a song/ My god this reminds me/ Of when we were young» («Hai una faccia da film/ Una voce da canzone/ Oddio mi ricorda/ Quand’eravamo giovani»).
È una canzone irresistibilmente ambigua, dolente e al tempo stesso speranzosa. La prima volta che me l’ha fatta ascoltare, è sembrata ansiosa. Dunque è questo, il Successo Annunciato. Non riesco a non pensare che Adele, come sperava, abbia fatto centro. È proprio quel tipo di canzone, un classico in erba, che attende solo di infilarsi nella trama degli anni a venire.
Adele non lo sa ancora, ma quando a breve verrà messo in vendita Hello, il primo singolo estratto da 25, farà vendite record. Raggiungerà il numero 1 nel Regno Unito, negli Stati Uniti, in tutto il mondo. L’album finirà al numero 1 di iTuncs con le sole prevendite.
Ma tutto questo succederà poi. Nella saletta della XL. When We Were Young finisce per la seconda volta, e per un attimo rimaniamo in silenzio. Poi Adele apre gli occhi: «Mi sento come alla fine di una recita scolastica, quando ancora non hanno iniziato ad applaudire».
È bellissima, le dico.
Adele fa un gran sorriso. Poi, chinandosi in avanti, si produce in un inchino esagerato, caricaturale. Si sventaglia con le dita le guance che stanno arrossendo, sbatte rapidamente le palpebre e dice: «Cazzo, meno male».
(traduzione di Matteo Colombo)