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 2015  dicembre 19 Sabato calendario

IL GOVERNO ALL’ITALIANA DEL LEONE USCITO FUORI DAI SALOTTI


«Gli ho detto che noi non ci occupiamo di telefoni, ma di assicurazioni; però se ci fosse stata un’azione complessiva, di interesse generale, avremmo partecipato». Era l’aprile del 2007 quando Antoine Bernheim, storico banchiere francese per anni presidente delle assicurazioni Generali – dal 1995 al 1999 e poi di nuovo dal 2002 al 2010 – rivelò di essere stato contattato dal governo, tramite l’allora ministro dell’Economia, Tommaso Padoa Schioppa, perché desse il benestare all’ingresso del Leone in Telecom attraverso l’acquisto della holding Olimpia da parte della cordata Telco, di cui Generali faceva parte insieme a Mediobanca, Intesa, Sintonia e Telefonica. Bernheim rivelò anche di aver accettato l’invito, nonostante le telecomunicazioni fossero estranee al core business della società. In ballo c’era la difesa dell’italianità di Telecom, spiegò poi il presidente, e non ci si poteva tirare indietro.

Fine di un mondo
A rileggerla oggi, quella telefonata, sembra passato un secolo. Le Generali figlie dell’asse tra Enrico Cuccia e Berhneim, che per decenni sono state il braccio ricco di Mediobanca, utile di volta in volta a entrare nei salotti buoni dell’editoria, vedi Rcs, o a finanziare operazioni “di sistema” come quella di Telecom, spinte dalla politica ma rivelatesi poi un pesante fardello per le casse delle Assicurazioni, non esistono più. Si è disgregato il blocco del Nord di cui le Generali erano un perno insieme con Fiat e Mediobanca, quella galassia di capitali che «è stata l’architrave del patto che ha retto l’Italia dalla ricostruzione fino almeno alle privatizzazioni degli anni Novanta», spiega Giulio Sapelli, storico, economista e profondo conoscitore del Leone di Trieste.

Il nuovo corso
Ed è anche cambiata la filosofia del management. Negli ultimi anni, la storica compagnia di Trieste, prima assicurazione italiana e terza al mondo per fatturato, dopo Axa e Allianz, ha subito una profonda trasformazione. Lo spartiacque è stato il 2012, con l’arrivo alla guida della società di Mario Greco, chiamato dall’amministratore delegato di Mediobanca, Alberto Nagel, socio forte delle Generali con il 13%, su proposta di altri due azionisti di peso, Leonardo Del Vecchio e De Agostini, scontenti della gestione del precedente amministratore delegato, Giovanni Perissinotto.

Ritorno al core business
«Il motivo per cui sfiduciarono Perissinotto», racconta a pagina99 una fonte che conosce bene le cose del Leone, «è che si era avventurato in una serie di operazioni che non avevano nulla a che fare con il lavoro delle Assicurazioni».
Fu lo stesso Del Vecchio, del resto, in una intervista molto dura al Corriere della Sera, a invocare pubblicamente un cambio di fase: «Il problema è che quando da assicuratori si vuole diventare finanzieri comprando partecipazioni le più disparate, non si fa un buon servizio alle Generali», disse, riferendosi alle scelte dell’ex management a suo dire inopportune, come l’ingresso in Telecom o la joint venture con il finanziere ceco Petr Kellner.
«C’era bisogno di riportare il Leone sui binari del mercato, del lavoro dell’assicurazione», prosegue la fonte, e «Greco, che veniva da quel mondo, dalla Ras, dall’Allianz, sembrò la persona giusta per farlo».

La gestione Greco
Al suo arrivo a Trieste, l’ex McKinsey boy si è mosso nella direzione contraria a quella seguita dai suoi predecessori: nessuna partecipazione, meno che mai quelle estranee al core business della società, è strategica, disse appena insediato. E dunque via dai cosiddetti salotti buoni, uscita progressiva dai patti di sindacato. Dismissione delle partecipazioni non core, a cominciare da quella in Telecom, e profonda ristrutturazione della compagnia, puntando sul miglioramento dei servizi e l’apertura al mercato. Sotto la sua gestione sono state fatte cessioni per circa 4 miliardi, tra cui quella della banca svizzera Bsi che è valsa 1,24 miliardi di euro. È stata razionalizzata la gamma dei prodotti offerti, ridotti da 270 a 70, ed è stato riorganizzato il management, con l’introduzione di nuove figure come quella del Chief Data Offìcer, il responsabile del governo dei dati aziendali a supporto dei processi decisionali di business. Vogliamo una compagnia «semplice e intelligente», modello Amazon, ha dichiarato l’amministratore delegato a maggio scorso, presentando il piano industriale.
Enfasi eccessiva, forse, ma con qualche ragion d’essere. Il bilancio dei primi nove mesi del 2015, infatti, sembra confermare la bontà della nuova strategia messa in campo, il “ritorno al mestiere”. L’utile netto è stato di 1,7 miliardi, più 8,7% rispetto all’anno scorso, e superioire anche alle previsioni indicate a fine 2014. La raccolta premi lorda, cuore del business di una compagnia assicurativa, è cresciuta del 5,1%.
E a novembre, il Financial Stability Board di Basilea ha depennato Generali dalla lista delle assicurazioni con rischio “sistemico”, quelle la cui solidarietà patrimoniale viene considerata troppo fragile e perciò sottoposta a regole e controlli stringenti.
Con Greco, «si è passati da un’assicurazione dove gli amministratori delegati non sapevano fare il loro mestiere, ed erano in combutta con fondi di venture capital di tipo locale, a un amministratore delegato che ha messo a posto i conti e ha fatto ordine», commenta Sapelli. Le Generali sono sempre più un’impresa attenta alla «stabilità e alla sicurezza dell’assicurato». Tutto bene, dunque? Non proprio.

I limiti della redditività a breve
«L’introduzione di sistemi di contabilità mark to market, voluta da Clinton e Blair, con criteri non più fondati sui valori storici immobiliari ma su quelli azionari, è stata un duro colpo per le assicurazioni», premette lo storico. «Oggi il valore dei beni può passare in meno di una settimana da più mille a meno mille. Lo shortermismo (il perseguimento di una redditività finanziaria a breve termine, ndr) e le stock option, quindi la valorizzazione non tanto dell’azionista ma del management, sono diventati dominanti. Mi chiedo se questo modello può reggere a lungo con le assicurazioni». Quello su cui verrà misurata la qualità del nuovo management è la lungimiranza: «Vedremo se con questi nuovi criteri contabili e questa nuova ideologia shortermista» si riuscirà a dare altri «duecento anni di stabilità alle Generali».

La questione della proprietà
C’è poi l’incognita della governance e del rapporto con la proprietà. In tre anni, la presenza dei soci stranieri nel capitale della compagnia è cresciuta fino a raggiungere il 39% dell’azionariato (dati aggiornati al 14 dicembre 2015), rispetto al 56,91% posseduto dagli azionisti italiani. L’attenzione degli investitori internazionali dunque è aumentata, ma si tratta di una compagine molto frastagliata che non fa blocco. A decidere gli amministratori della società è ancora il nucleo duro di azionisti capitanato da Mediobanca (che è al 13% ma ha annunciato già da tempo di voler scendere al 10%), seppur con un occhio attento alle minoranze. Secondo alcuni osservatori, preoccupati da possibili “scalate” estere, questa potrebbe essere una buona formula per tenere aperto il Leone al mercato e agli investimenti, evitando allo stesso tempo che non cada in mani straniere. Per altri analisti, invece, si tratta solo della solita “gran confusione” all’italiana, nulla di vicino a una vera public company, una struttura in cui la proprietà “diffusa” fa si che nessuno degli azionisti possa decidere la governance di una compagnia, che perciò è affidata al management. «Le imprese o sono contendibili o non lo sono», conclude Sapelli. «Non do un giudizio di merito ma da studioso: se un’impresa non è contendibile, puoi chiamarla via italiana o giapponese, ma non ha nulla a che vedere con le regole di governance anglosassone».