Dario Falcini, Pagina99 19/12/2015, 19 dicembre 2015
AFFARI MAGRI E MOLTI RISCHI LE FESTE TRISTI DEI FUOCHISTI
«La sicurezza, è lei che ti fa sbagliare». Per questo Antonio Palmieri si tiene stretta la paura.
Ogni giorno della sua vita, da quando aveva 12 anni e suo padre decise che era tempo di fare sul serio. Oggi ne ha 28 e, settima di altrettante generazioni, accoglie la gente che varca i cancelli della Nuova Palmieri Fireworks.
Siamo ad Apricena, il promontorio del Gargano è a due passi. Dal 1910, anno del primo attestato che certifica la loro attività di fuochisti, i Palmieri hanno stupito ogni bimbo del paese e fatto latrare i cani fino alle porte di Foggia. Eppure l’incolumità non è garantita nemmeno a loro, che nel 1988 a Tokyo hanno vinto un campionato mondiale di fuochi d’artificio. Dal 2000 a oggi nelle aziende pirotecniche ci sono stati 18 incidenti mortali e quasi 60 vittime. L’ultimo in ordine di tempo è stato il più grave: lo scorso luglio a Modugno, nel barese, dieci persone hanno perso la vita nell’esplosione della fabbrica Bruscella.
Le indagini raccontano come è cambiata la professione. «Nessuna precauzione può eliminare del tutto il rischio quando si trattano le materie chimiche», commenta Paolo Maria Urso. Fa l’architetto ed era il direttore artistico dell’azienda pugliese, sviluppava le coreografie che uscivano dallo stabilimento. E tra i più raffinati storici della materia, come testimonia la sua Guida pirotecnica pubblicata nel 2007. «Il notevole aumento degli incidenti negli ultimi anni coincide con la colonizzazione cinese del mercato. Si sospetta che a Modugno lo scoppio sia avvenuto durante la lavorazione di un artificio di importazione, la cui miccia era ricoperta da una polvere pirica di colore grigio molto sensibile a urti e sfregamento».
«Nei giorni successivi abbiamo provato un prodotto simile in laboratorio, a contatto con il metallo prendeva fuoco all’istante», racconta Antonio Palmieri, «prima acquistavamo dalla Spagna, ma la crisi ha chiuso tante industrie e ci siamo trovati a fare affari con la Cina. Ogni volta che sparo roba loro non sono tranquillo». I recenti casi di cronaca hanno lasciato il segno. Le limitazioni e la necessità di adeguarsi alle direttive hanno ridotto i margini di un settore meno redditizio e non di rado letale. Le commesse, fedeli alla logica dell’eterno ribasso, vanno dall’inaugurazione dell’evento internazionale alla festa patronale. Ciascuno prova a giocare la sua partita.
«Lo scenario è uscito stravolto dagli anni ’80 e ’90», spiega Urso, «oggi ci sono una ventina di importatori che gestiscono l’arrivo di container e contemporaneamente sopravvivono circa 200 aziende pirotecniche artigianali: queste si trovano quasi solo al Sud, con la Campania al primo posto seguita da Puglia e Sicilia. Stanno lontano dai centri abitati e sono quasi tutte a gestione familiare e tramandate con le dinastie, impiegano dalle cinque alle dieci persone a seconda della stagione». Da anni anche le loro porte sono aperte all’oriente. Mixano i prodotti della tradizione europea, manufatti a cilindro che generano luci e suoni multipli attraverso tempi di accensione ritardati, alla linea cinese, che prevede artifici sferici e meno complessi. In questo modo riducono i costi di lavorazione e si garantiscono una gamma più estesa di effetti: oggi piogge bianche e nere, crocette, cuori e stelle non posso mancare in una serata pirotecnica.
«Non è un caso che parliamo degli spettacoli, oggi il 99% dei prodotti che si trovano nei negozi specializzati sono cinesi. Senza dimenticare la concorrenza crescente delle attività illecite». Queste ultime tornano di attualità a cavallo dell’anno nuovo, quando i tg si cimentano nella conta di sequestri e feriti. La pericolosità della bomba di Maradona, o delle sue versioni più contemporanee, non sta nel prodotto in sé, ma nell’uso che se ne fa. Un conto è se è lanciata attraverso un mortaio a 200 metri dall’edificio più prossimo, come recita la norma, tutt’altro se brilla tra i balconi dei palazzi. Come possano simili ordigni finire in mani improprie non sarà oggetto di dibattimento.
«Natale e Capodanno sono un periodo di impegno relativo e enormi scocciature. Con la crisi sempre più uomini si sono improvvisati fuochisti: ogni giorno siamo sottoposti a controlli, ma noi realizziamo solo pochi petardi omologati dal ministero», afferma Antonio Palmieri.
Il fatturato non arriva in queste settimane, ma tra la fine della primavera e l’estate. È tempo di feste patronali e tappi nelle orecchie per le venti famiglie pirotecniche pugliesi. A maggio tra San Severo, Apricena e Torremaggiore, triangolo di comuni della Capitanata foggiana, inizia la stagione delle processioni. Vuole una tradizione piuttosto rumorosa che qui la Madonna sfili per i rioni salutata da una bombardamento di batterie incendiarie e scortata dalla corsa tra fumo e scintille di branchi di ragazzi dalla pelle dura.
Un rito popolare e intoccabile che tiene i Palmieri chiusi in laboratorio per settimane. «Gli eventi da aprile ad agosto sono già tutti quanti prenotati. Dietro c’è una grande opera: prima le simulazioni al pc, poi la scelta degli artifici e la loro preparazione. Le lavorazioni sono complicate: abbiamo diverse casematte, ognuna delle quali contiene una sostanza chimica che deve stare isolata e necessita di determinate condizioni atmosferiche e di cautele ossessive», dice Antonio, che dopo il liceo scientifico è entrato dritto in azienda. «Dopo tanti anni mi sento al 20% della conoscenza di questa arte, che si può imparare solo con l’esperienza. Ogni giorno provo i fuochi e osservo i loro tempi di reazione, ma so che qualcosa può sempre capitare», conclude.
Il ricordo, ogni volta che dice così, va all’8 maggio del 2003. A Bari si celebrava San Nicola e i pellegrini giungevano in porto via mare. All’improvviso si ribaltarono le rastrelliere e dai mortai partirono dei fuochi d’artificio, che affondarono alcuni gozzi dei pescatori e ferirono lievemente un’ottantina di persone. «Sono i terroristi, ci attaccano», gridava la gente, mentre si buttava in acqua. Un grande spettacolo, da non ripetere.