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 2015  dicembre 22 Martedì calendario

C’ERA UNA VOLTA YAHOO: IL CROLLO DI UN IMPERO VISTO DALL’INTERNO

Io mi ricordo una grande Y di colore viola che svettava nel cielo grigio di Milano. Ricordo il primo giorno che sono entrata negli uffici di via Ripamonti e ho creduto di essere diventata parte – piccolo ingranaggio – della storia della Rete. Ero una “yahooer!” con tanto di punto esclamativo, del quale avrei poi scoperto che chiunque fosse della società – lì dentro e nel resto del mondo – andava fiero.
Dalle collaborazioni a tanto al pezzo con redazioni di quotidiani, radio, televisioni e agenzie di stampa locali e nazionali in cui colleghi giornalisti credevano che il mio essere “digitale” non voleva dire fare la giornalista, ma essere capace di cambiare il toner della stampante, arrivare lì era la realizzazione di un sogno.
Già solo la qualifica che mi era stata data era talmente all’avanguardia che avevo io stessa difficoltà a spiegarlo: “Front Page Editor in Chief”. Tradotto: “Responsabile editoriale della Home Page” di Yahoo! Italia. Tutto quello che di giornalistico veniva pubblicato sul “portale” di Mountain View nella sua versione italiana era scelto da me per - mediamente - 3,4 milioni di persone al giorno che “passavano” sulla home.
Il mio primo sguardo all’interno degli spazi della sede milanese è un’altra “fotografia” stampata nei miei ricordi in cui rivedo la Vespa rigorosamente viola “parcheggiata” accanto alla reception. Su quel simbolo italiano trasformato in gadget da ufficio, ho visto sedersi attori, politici e personaggi vari che entravano e uscivano dal più grande “contenitore di contenuti” che era quella mega scatola nella zona sud del capoluogo meneghino. Il palazzone di Ripamonti, in fondo, rappresentava per molti una sorta di macchina del tempo per vedere quel che in Italia non riusciva (e ancora non riesce, ndr) a essere il presente della comunicazione di cui “Y!” era il simbolo ammericano, quasi come i “maccaroni” di Alberto Sordi in “Un americano a Roma”.
Eppure correva il 2009 e nonostante la mia genuina soddisfazione, la realtà era già tutt’altra all’interno di Yahoo: si era all’inizio della decadenza. In gennaio era stata appena nominata la nuova amministratrice delegata, Carol Bartz. Anche in quel caso era stata chiamata una donna a mettere riparo ai danni economici causati addirittura proprio dal mitico fondatore, Jerry Jang, il quale aveva avuto il coraggio o l’ardire (dipende dai punti di vista, sviscerati in quegli anni dai migliori analisti) di dire no a un’offerta d’ acquisto di 44,5 miliardi di dollari da parte di Microsoft
L’unica cosa certa, però, è che da quel momento in poi il mitico motore di ricerca è andato sempre più sbiadendosi. I nomi dei successivi Ad, prima di arrivare all’ultima speranza Marissa Meyer, si perdono nella memoria della Rete e da quel 2009 a oggi la caduta dei “Purple Goods” ha trascinato con sé migliaia di dipendenti, tutti licenziati tra il 2012 e il 2015, anno in cui gli utili sono precipitati a 21 milioni di dollari, contro i 310 dell’anno precedente. Il 12 dicembre 2014, praticamente un anno fa, per la prima volta in uno sciopero generale in Italia si vede anche il logo della “big company” della Silicon Valley.
Lontano da quelli che sono solo numeri da analizzare per chi sa come interpretarli in termini finanziari, c’è la malinconia di tanti che hanno perso un sogno, oltre che un lavoro. La fine di Yahoo è il crollo di un mito iniziato davvero in quei tempi in cui la storia dei due studenti universitari che si inventano la “killer application” per cambiare il mondo è qualcosa che realmente è accaduto e non una favola.
Ho lasciato Yahoo! nel 2011. Poco prima dell’inizio della deriva definitiva. Quasi due anni, in cui ho avuto l’onore e la fortuna di vedere da dentro come funzionava una macchina che era partita non da un garage, ma dalle aule della Stanford University. E oggi mi ritrovo come una sorta di Plinio il giovane che scrive a Tacito per raccontare l’eruzione di Pompei. Ho la possibilità di testimoniare sul Web da una prospettiva individuale, piccola e limitata a quell’angolo milanese di Yahoo una storia iniziata quando Jerry Jang e David Filo nel lontano 1994 diedero vita a un “deposito di link” , a quel nome che per molti è solo un brand o al massimo un’esclamazione di gioia, ma che in realtà è l’acronimo di “Yet Another Hierarchical Officious Oracle” (“Ecco un’altra lista più o meno ufficiale di cose importanti”).
Onore al merito, dunque, non a Marissa Meyer o a chiunque altro sia arrivato dopo quei due studenti che 15 anni dopo la loro idea diedero - senza mai saperlo, probabilmente - l’opportunità a una ragazza del sud Italia, laureata in Giurisprudenza e con il sogno di diventare una giornalista digitale di potersi ritrovare dall’altra parte dello schermo all’interno del motore di ricerca più amato nel mondo sino a quando in quello stesso mondo di pixel e byte è diventato solo un vecchio ricordo. Un nuovo e allo stesso tempo già antico mito da tramandare ai posteri digitali...