Nicola Nosengo, Focus 1/2016, 22 dicembre 2015
NASCE UNA STELLA – [PARTE IN GEMRANIA UN REATTORE A FUSIONE NUCLEARE, L’ENERGIA DEL FUTURO...]
Saranno solo due mesi, ma due mesi che Thomas Klinger sta aspettando da almeno dieci anni. Da quando, nel 2005, accettò di caricarsi sulle spalle un progetto che sembrava una causa persa: ambizioso, controcorrente e drammaticamente in ritardo. E invece a gennaio 2016, dopo la riuscita pre-accensione del 10 dicembre scorso, Klinger premerà il bottone e metterà in moto per 8 settimane Wendelstein 7-X. Un ciambellone metallico di 16 metri di diametro, ospitato all’Istituto Max Planck di Fisica del plasma a Greifswald, in Germania, che diverrà l’avamposto più avanzato al mondo nella corsa verso la fusione nucleare. L’energia del futuro per eccellenza: abbondante e pulita. Quella che si libera quando si riscaldano atomi di idrogeno l’elemento più abbondante dell’universo – strappando gli elettroni dai nuclei e accelerando questi ultimi fino a costringerli a fondersi tra di loro, liberando in cambio molta più energia. Accade in continuazione nelle stelle, e imparare a farlo in modo controllato sulla Terra vorrebbe dire aver risolto i problemi energetici del pianeta. Senza le scorie radioattive prodotte dalle attuali centrali nucleari (basate sulla fissione, la “rottura” di atomi come quelli di uranio), perché il processo crea elio e neutroni.
INFERNALE. Wendelstein 7-X arriva dopo decenni di ricerca, perché le sfide da affrontare sono enormi. «La parte difficile nella fusione non è creare il plasma (gas costituito da particelle cariche, ndr), portando l’idrogeno ai circa 100 milioni di gradi necessari per innescare la fusione. Quello è banale», spiega Klinger. Il difficile è tenere intrappolato il plasma, in modo che la fusione continui abbastanza a lungo da produrre più energia di quella che si è consumata per crearlo. Nessun materiale può sopportare quel calore. Ma può farlo un potente campo magnetico le cui linee avvolgano il plasma come una spirale, formando un binario su cui ioni di idrogeno (i nuclei) ed elettroni girino in tondo senza sosta. E qui che Klinger e il suo team vanno controcorrente, con una tecnica diversa – e molto più difficile – rispetto a quella di Iter, il grande reattore a fusione che una collaborazione internazionale sta costruendo a Cadarache, in Francia. Iter crea quel campo magnetico a spirale sommandone due più semplici: uno viene da una serie di magneti circolari che decorano la ciambella e l’altro dalla corrente elettrica che circola nell’anello stesso assieme al plasma. È il sistema “tokamak”. «Relativamente facile da costruire, ha però un campo magnetico instabile: ogni tanto ci sono interruzioni, e il plasma scappa verso le pareti del reattore», dice Klinger. È una delle maggiori difficoltà con cui si scontra Iter, che sarà completato tra 10 anni.
FORME IRREGOLARI. Wendelstein 7-X (o W7-X) appartiene invece all’altra grande “scuola” di reattori a fusione: gli “stellarator”. I suoi magneti non sono circolari come quelli del tokamak, ma sembrano usciti da un quadro di Dalí: asimmetrici, irregolari e contorti, come se ci fosse passata sopra un’auto. La teoria dice infatti che una sequenza di magneti superconduttori (che lasciano passare la corrente elettrica senza resistenza) della forma giusta può creare un campo magnetico a spirale più stabile e affidabile di quello di un tokamak. Ma se si sbaglia anche solo di qualche millimetro il trucco non funziona. In più, i magneti devono essere raffreddati a temperature vicine allo zero assoluto (-273, 15 °C).
SUPERCOMPUTER. «Sulla carta sapevamo che era l’idea migliore, ma nessuno era sicuro che fosse davvero realizzabile», dice Klinger. Calcolare forma e posizione dei magneti per creare il giusto campo magnetico non è alla portata di un essere umano. «Ma negli anni Novanta arrivarono supercomputer e algoritmi di ottimizzazione in grado di farlo», ricorda Klinger, che all’epoca era ancora un giovane fisico teorico. «I risultati erano così interessanti che mi convinsi che valeva la pena provare». Se ne convinse anche il governo tedesco. Nel 1996 vennero approvati i finanziamenti per Wendelstein 7-X (550 milioni di euro) e nacque l’istituto di Greifswald: 50 persone che negli anni sarebbero diventate 400.
Dai calcoli dei supercomputer vennero fuori numeri e struttura della macchina: 50 magneti superconduttori dalle bizzarre forme, ognuno da 6 tonnellate, disposti lungo un anello. Altri 20 di forma più regolare per fare correzioni fini al campo magnetico. All’interno dei magneti, una camera a forma di ciambella a tenuta stagna: è lì che, una volta fatto il vuoto, deve circolare il plasma a 100.000.000 di °C. E tutto attorno, il criostato: un contenitore per i magneti e per l’elio liquido che li raffredda, con ben 250 botole di accesso per far entrare e uscire l’idrogeno e gli strumenti necessari per i test. Ogni pezzo è il risultato di una accuratissima progettazione in 3D.
«Credevamo fosse più semplice», ammette Klinger. «Complessità, costi, tempo. All’inizio avevamo sottostimato tutto». Dopo 7 anni di lavoro, i primi test furono disastrosi. Un terzo dei magneti non funzionava e fu rimandato ai fornitori. Impossibile rispettare la data inizialmente prevista per l’accensione – il 2006 – e farsi bastare il budget. Intanto, gli sforzi della comunità internazionale si concentravano su Iter. Era più o meno il 2003, e il progetto W7-X rischiava di essere cancellato. Ma la comunità scientifica tedesca tenne duro, e convinse il ministero della Ricerca a fare altrettanto. La data di fine lavori fu spostata al 2015 e il budget ampliato a 1 miliardo di euro. E Klinger, fino ad allora nelle retrovie, fu messo a capo del progetto. Con un messaggio chiaro: non si poteva più sbagliare. «Budget e tabella di marcia erano blindati. E ce l’abbiamo fatta», dice Klinger.
Lo ha aiutato molto Lutz Wegener, responsabile dell’assemblaggio, che ha coordinato una squadra di 170 persone tra elettricisti, saldatori, tecnici chiamati a lavorare con la precisione di un neurochirurgo. «Le 250 botole che connettono il mondo esterno al contenitore a vuoto, per esempio, pesano una tonnellata ciascuna», racconta. «Andavano posizionate con uno scarto di un millimetro al massimo rispetto al progetto. Stessa cosa per i magneti, che non c’era modo di testare finché non fossero stati tutti assemblati. Dovevamo solo fidarci del progetto ed eseguirlo con precisione».
SI PARTE. E il progetto ha funzionato. L’assemblaggio è stato completato nel 2014, e i test di quest’anno sono andati alla grande: tutta la struttura, 425 tonnellate, si è raffreddata come da manuale. E il campo generato dai magneti è della forma giusta, senza smagliature. A dicembre c’è stata la riuscita accensione di prova usando elio; a gennaio verrà l’ora di iniettare plasma di idrogeno nella ciambella e fare sul serio. Anche se, scherza Klinger, i mesi di funzionamento saranno quasi tranquilli rispetto alla corsa per costruire la macchina. Non si produrrà, però, energia. «Ci vorrebbe un reattore molto più grande, ma costruirlo con le conoscenze attuali sarebbe un rischio finanziario assurdo. Il nostro è un esperimento di fisica, non una centrale», dice Klinger. Obiettivo: misurare per quanto tempo il campo magnetico riesce a confinare il plasma, e quanto calore si disperderà all’esterno. Dopo una valanga di misure, la macchina sarà spenta, riaperta, potenziata. L’obiettivo è, nel 2020, arrivare a mezz’ora di funzionamento in “stato stazionario”, in cui la reazione di fusione si autoalimenta: come nel Sole.
PICCOLO E BELLO. «Non credevo che saremmo arrivati a questo punto prima di Iter», dice Klinger. «Ma quel progetto paga il prezzo di essere una grande collaborazione internazionale». W7-X è un progetto nazionale, con meno persone, dove si possono prendere decisioni e risolvere i problemi in fretta. «Iter però non è un nostro concorrente. Sappiamo ancora troppo poco di come deve funzionare un reattore a fusione, alla fine dovremo prendere il meglio di entrambi gli esperimenti».
E magari contribuiranno anche altri, come Tri Alpha Energy, azienda Usa che quest’anno ha annunciato di aver mantenuto per circa 5 millisecondi un plasma stabile a 10 milioni di gradi, in un reattore di concezione ancora diversa. Klinger prevede che le prime centrali a fusione si accenderanno tra il 2040 e il 2050. «Difficilmente la tecnologia sarà matura prima, e lo diventerà se i governi si convinceranno a fare gli investimenti necessari: quando i combustibili fossili diventeranno più scarsi e costosi, e il problema del cambiamento climatico sarà sotto gli occhi di tutti». Klinger, il suo gruppo e tanti altri nel mondo lavorano perché la fusione si faccia trovare pronta.
Nicola Nosengo