Laura Traldi, D, la Repubblica 19/12/2015, 19 dicembre 2015
AIUTO, MI SI È ROTTO LO SQUALO
Ci avevano detto che la plastica è immortale. Che una volta messa o gettata da qualche parte lì rimane, immutata e per sempre. Visitando la sede di OpenCare – una società di Milano che offre servizi sull’arte – dove decine di restauratori sono al lavoro su opere d’arte contemporanea che spesso hanno meno dei loro anni, ci si rende conto che non è vero. La plastica si deteriora: perde il colore, si riempie di macchie, si deforma, diventa appiccicosa. E riportarla allo stato originale non è semplice. Qui, sul banco di lavoro, c’è per esempio uno dei celebri dipinti di Carla Accardi su “sicofoil”. L’artista spalmava colori su grandi superfici realizzate con questa plastica simile al vetro che reagisce alle variazioni ambientali, con il duplice intento di nobilitare materiali poveri e permettere il passaggio della luce tra le macchie di vernice. Ma l’acetato di cellulosa di cui il sicofoil è composto è soggetto a un naturale e irreversibile degrado (per chi si intende di chimica: la causa è un processo di idrolisi acida e di progressiva perdita dei plasticizzanti interni). In pratica, senza interventi stabilizzanti, gli effetti amati dall’Accardi sono destinati a una morte lenta ma sicura.
Parlare di restauro dell’arte contemporanea sembra un ossimoro. In realtà, da quando – l’inizio del XX secolo – gli artisti utilizzano una varietà di materiali sperimentali, poco testati, o nati da mix non documentati, la conservazione delle opere di autori spesso ancora viventi è diventata non solo un’emergenza per i musei, ma anche una sfida che pone interrogativi importanti sulla natura stessa dell’arte.
«Ci sono dei miti da sfatare, quando si parla di arte contemporanea», dice Isabella Villafranca Soissons, direttore del dipartimento conservazione e restauro di OpenCare. «Il primo è quello della fedeltà ai materiali. Quello che conta, infatti, non è il manufatto ma l’idea». Per dimostrarlo, Soissons mostra un grumo informe di plastica grigia. È tutto ciò che rimane di una delle opere della serie Stage Evidence di Loris Cecchini, quotato artista quarantenne di Milano che dal 1998 al 2007 ha lavorato con la gomma uretanica per stampare “non-sculture”, riproduzioni in scala 1:1 di oggetti del quotidiano. L’agglomerato color cemento che Villafranca mostra era un bidoncino. «L’artista sapeva che il materiale si sarebbe deformato con gli anni e lo ha scelto apposta. Voleva che le sue opere si “afflosciassero”. E prevedeva che la gomma avrebbe perso nel tempo le sue caratteristiche fisico-meccaniche, iniziando a liquefarsi».
E come reagisce un collezionista davanti a un lavoro che si rivela in via di scomparsa? «Come dicevo, quello che conta è l’idea. Ecco perché spesso queste opere vengono, più che restaurate, rifatte. O addirittura, i pezzi sostituiti. Nel caso del lavoro di Cecchini il proprietario, avendo capito che il significato vero dell’opera stava proprio nel suo lento deteriorarsi, ha chiesto all’artista di rifare il bidoncino con un materiale più stabile ma sempre alterabile, pur sapendo che in questo modo il pezzo non sarà eterno». Ma la storia più eclatante è quella dello squalo tigre di Damien Hirst (The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living), un bestione di 4 metri conservato in formaldeide. Creato nel 1991 e acquistato dal collezionista Steve Cohen nel 2004 per 9 milioni di dollari, all’improvviso ha iniziato a disintegrarsi. Così, su richiesta del proprietario, l’artista l’ha rimpiazzato nel 2004 con un altro esemplare pescato apposta.
Viene da chiedersi se si possa – in entrambi i casi – continuare a riferirsi a queste opere come agli “originali”. «L’eternità e l’originalità dei manufatti sono altri miti da sfatare», replica Soisson. «Fino agli inizi del Novecento, le opere nascevano per essere tramandate ai posteri. Oggi, invece, sono pensate per essere comprese nella loro immediatezza. Il progetto assume quindi un’importanza fondamentale e la deperibilità dei materiali impiegati spesso viene sottovalutata, se non addirittura ricercata dagli artisti, come parte integrante dell’opera stessa».
Mettere mano alle opere d’arte create negli ultimi 50 anni può essere un’operazione complessissima, innanzitutto dal punto di vista tecnico. «Paradossalmente sappiamo di più sulla tecnica di un oscuro artista del Quattrocento che su quella di alcuni esponenti dell’Arte Povera», dice Soissons. Nei casi in cui l’artista è ancora vivente, del resto, spesso è proprio lui – più che il restauratore – a intervenire sull’ opera. «Quando Massimiliano Gioni nel 2010 ha realizzato Pig Island, la personale di Paul McCarthy alla Fondazione Trussardi, l’artista ha mandato i suoi assistenti per assicurarsi che, malgrado i necessari adattamenti delle opere allo spazio espositivo, gli elementi imprescindibili fossero mantenuti. Ma ci sono anche casi opposti in cui l’artista rifiuta di rimettere mano al suo lavoro. Quando Mario Schifano ha visto le sue tele della collezione Jacorossi danneggiate da un incendio, ha detto: “Non toccate, sono più belle di prima”. E poi ci sono artisti che non si frenano e cambiano non solo i materiali, ma anche l’idea di un’opera nella quale non si riconoscono più. L’ideale sarebbe avere informazioni precise, fornite dagli artisti stessi, sui processi creativi e sui materiali utilizzati. E su quella base far lavorare i conservatori».
Sembra semplice, ma non lo è. Perché quando si parla di contemporaneo in gioco ci sono spesso interessi che vanno ben al di là della storia dell’arte. Lo sa bene l’ex direttore del Museo del Novecento di Milano Marina Pugliese, che lavorando con due importanti gallerie (Lia Rumma di Milano e dello Scudo di Verona) ha tentato qualche tempo fa di coinvolgere una rosa di artisti nella redazione di speciali certificati sui materiali utilizzati, destinati ai conservatori. Malgrado il progetto fosse ideato per proteggere artisti, opere e collezionisti, ad aderire sono stati solo pochi nomi, e non i più affermati. Come mai? Secondo Pugliese, gli artisti sanno che è proprio la natura indefinita delle opere e della loro durata ad attrarre i collezionisti. «L’arte contemporanea è una forma di investimento ad alto rischio che porta forti guadagni e forti perdite e riflette il recente trend degli short term investments», dice la studiosa. «Che banali informazioni di tipo tecnico rimangano oscure, dà all’artista e al collezionista maggiore possibilità di manovra e intervento e quindi di guadagno. All’interno di questa cornice, che pure presenta eccezioni, gli artisti sono generalmente restii a definire la loro opera tecnicamente perché questo permette di fare cambiamenti nel tempo, modificando magari un materiale risultato non idoneo, senza che il valore dell’opera cambi in virtù del reintervento».
Un esempio? Il Cigarette Chandelier di David Hammons, un “arazzo” realizzato con il tessuto di un abito monacale del Seicento, sui cui l’artista ha attaccato dei fili di ferro che fuoriescono come “bracci” di un lampadario e reggono delle sigarette accese (le “lampadine”). Il concept dell’artista prevedeva che la combustione generasse della cenere che si sarebbe dovuta depositare sul manufatto stesso e a terra. Ma la proprietaria Agnes Gund (tra le più importanti collezioniste d’arte americane), preoccupata dal rischio di danneggiare l’opera, all’atto di acquisto ha chiesto all’artista di poterla esporre in casa sua lasciando le sigarette spente.
«Hammon ha accettato», racconta Pugliese, «mostrando come lo status del collezionista possa soverchiare il significato dell’opera». E mantenerne, se non aumentarne il valore: qualche mese fa, le Lucky Strike del Cigarette Chandelier sono state finalmente accese all’ultima edizione di Art Basel, quando il nuovo proprietario dell’opera, la galleria Salon 94, l’ha esposta in perfette condizioni e con una valutazione di mercato di un milione e mezzo di euro.
Anche la tecnologia – che è un aiuto fondamentale per i restauratori – spesso crea situazioni al limite della comprensione per il grande pubblico. Il caso più recente è quello dei murales di Mark Rothko del 1964, totalmente deteriorati dopo l’esposizione per decenni all’Holyoke Center dell’Università di Harvard, in una stanza usata per ricevimenti, feste e cene. Poiché un intervento fisico sulla pittura era impossibile, per il tipo di pigmenti e di tecnica usati dall’artista, si è optato per un sistema di “illuminazione compensata” progettato dal conservatore canadese Raymond Lafontaine: cinque proiettori digitali emettono uno spettro di luce che fa riemergere le tinte originali. E, un po’ come nella favola di Cenerentola, quando si spengono i riflettori, l’opera torna quella di sempre: smorta e senza colori. L’originale resta, ma va visto sotto una nuova luce.