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 2015  dicembre 22 Martedì calendario

NON BASTA DIRE POPULISTI, SERVE L’EUROPA DELLA PROSPERITA’– 

Non sono più campanelli (d’allarme o di giubilo a seconda dei punti di vista) ma grandi campane che, pur suonando da sinistra a destra rintocchi diversi tra loro, annunciano in Europa l’esaurirsi di una lunga stagione. Quella della stabilità politica, infine erosa dalla Grande Crisi scoppiata nel 2008 e dall’interpretazione, in chiave d’austerity a senso unico, della politica economica messa in campo dal governo europeo.
La Spagna, dopo 37 anni, spedisce in soffitta il bipartitismo e l’alternanza tra Partito popolare (Pp) e Partito socialista (Psoe). Ha vinto l’incertezza (il quotidiano El Pais ha titolato “Benvenuti in Italia”, il paese delle alleanze acrobatiche, benedetto sia l’Italicum ha risposto il premier Matteo Renzi) e sulla scena hanno fatto irruzione i due nuovi partiti Podemos e Ciudadanos, tra loro contrapposti e ciascuno presentandosi, rispettivamente, come l’alternativa radicale a socialisti e popolari.
A cominciare era stata la Grecia, poi sono arrivate la Polonia, l’Ungheria, il Portogallo e infine la Francia dove la sconfitta al secondo turno alle elezioni regionali non può comunque mettere in ombra l’avanzata politica del Front National. Financo in Germania, la potenza che fa da amministratore delegato dell’eurozona e dove la Cancelliera Angela Merkel è fresca di una piena riconferma della leadership del suo partito (i cristianodemocratici della Cdu), si fanno i conti con un inedito disincanto e con forti preoccupazioni per il «cuore borghese della società tedesca dove l’estrema destra - avverte il settimanale Der Spiegel - un tempo rappresentata da gente con la testa rasata e i bomber coinvolge intellettuali ultraconservatori, cristiani e cittadini arrabbiati».
Insomma l’Europa continua a ribollire al suo interno, nei singoli sistemi nazionali e, sia pure con accenti e motivazioni diverse, tende a salire la sfiducia e un senso di estraneità da Nord a Sud, da Ovest ad Est, tra i paesi che sono parte dell’eurozona e quelli che non aderiscono alla moneta unica.
Ed è oggettivamente crescente l’insofferenza trasversale verso i partiti tradizionali e i vecchi schemi politici che questi incarnano, compresa l’idea di un riformismo – più verbale che praticato- associato quasi sempre ad una necessità salvifica che promana dall’alto dell’Europa, da quella capitale, Bruxelles, oggi vista come il simbolo congiunto della burocratica governance continentale e, dopo l’attacco a Parigi, del fallimento franco-belga sul fronte dell’immigrazione. Col paradosso, ad esempio, che debba essere il presidente della Bce Mario Draghi –lo ha fatto il mese scorso all’Università Cattolica a Milano - a ricordare che la stabilità monetaria è una condizione solo necessaria per la prosperità dell’economia, che «si è pensato troppo poco ad altre cose», che «dobbiamo guardare avanti, muovendo dalla stabilità per avanzare verso la prosperità».
Prosperità, cioè crescita, e non solo del Prodotto interno lordo: un buon metro e soprattutto un buon approdo, tenuto conto dei venti milioni di disoccupati europei, in particolare giovani. Ma sono due le possibili risposte. La prima è quella che gira pigramente su se stessa e che, dopo aver messo in campo una parola magica, il “populismo”, mette preventivamente all’indice la marea montante di uno scontento ritenuto irrazionale, frutto di paure ataviche e portatore di sussulti reazionari e antidemocratici. Ignorando, o facendo finta di farlo, che i nuovi arrivati, le nuove formazioni politiche che si presentano come alternative alle vecchie classi dirigenti, raggiungono risultati importanti, da partiti di massa e non di testimonianza “zerovirgola”.
In sostanza, si nega l’esistenza del problema o ci si trincera dietro un “più Europa” che vuol dire tutto o niente insieme mentre i governi europei si dividono, ciascuno guardando al proprio interesse nazionale, su temi chiave come le politiche per l’immigrazione e la sicurezza e per l’energia. E se non è sufficiente la rimozione del problema con l’acclusa condanna del populismo rampante, ecco la nuova “flessibilità” nelle pieghe dei bilanci nazionali da contrattare palmo a palmo e non senza l’evidenza di “doppiopesismi” palesi o sottotraccia.
La seconda e più utile risposta in direzione della prosperità può arrivare dalla constatazione della realtà, e quindi dall’esistenza dei problemi. Aiuta oggi, in un certo senso, il “rompete le righe” sul dogma dell’austerità, ammesso che questo non significhi ritornare su allegre politiche di bilancio. Può aiutare la partita su Brexit, il referendum britannico sulla permanenza o no nell’Unione europea, dove un negoziato anche duro ma concreto tra Londra e Bruxelles può evitare uno strappo dalle incalcolabili conseguenze negative per l’Europa e per la stessa Gran Bretagna.
In questo senso non ha avuto il risalto politico che avrebbe meritato la dichiarazione d’intenti congiunta tra i ministri degli Esteri di Gran Bretagna e Italia, Philip Hammond e Paolo Gentiloni sulla necessità di «riformare profondamente l’Ue, semplificandone funzionamento, procedure e regolamenti” per favorire un’economia competitiva e far crescere l’occupazione, adottando un nuovo modello di funzionamento che “ruoti attorno al principio di flessibilità per gestire una maggiore o minore integrazione” europea.
Partita difficile, flessibilità di sistema e non solo nelle pieghe dei bilanci, schema nuovo per ricucire il rapporto di fiducia tra le istituzioni e i cittadini europei. Cioè il problema che attraversa tutti i sistemi politici nazionali, da sinistra a destra. Dentro e fuori dall’euro.