Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 1985  dicembre 21 Sabato calendario

MANTOVA MILIARDARIA AL TAVOLO DI BRISCOLA

Come ovunque a Natale, le vetrine sotto i portici sono addobbate al meglio. Ma non noto, a Mantova, i segni d’una frenesia consumistica. In questa che le statistiche indicano come la più ricca città d’Italia, il danaro scorre anzi piano, prudente, lungo solchi sicuri. Trascorro ore deliziose sotto i portici di piazza Erbe, immerso nella calda animazione del passeggio di queste sere di Natale, e vedo affollarsi quasi soltanto due specie di negozi. Le macellerie, che sono stupende per l’abbondanza e la qualità della merce, e le oreficerie.
Nelle macellerie, le donne scelgono i pezzi necessari al brodo della festa: il brodo che qui si chiama «di terza» – il migliore possibile – ricavato da almeno tre tipi di carne, il manzo, il cappone, la «costina» di maiale, a cui i più esigenti aggiungeranno un pezzo di faraona o di tacchino. Nelle oreficerie, piccoli negozi all’apparenza senza pretese (ma che espongono in vetrina gioie e orologi da parecchi milioni), vedo soprattutto coppie d’una certa età, cinquanta o sessant’anni. Sono allevatori, piccoli imprenditori venuti dalla provincia a comprare il regalo di Natale per i figli, la nuora, i nipoti. Dalle vetrine, li vedo restare a lungo con la testa china sui velluti neri dell’orefice. Studiano le collane, gli anelli, gli orologi, ogni tanto discutendo tra loro, sinché la scelta non è fatta e l’uomo tira fuori il libretto degli assegni. La spesa è alta ma non sarà stata inutile, perchè «l’oro resta»; e comunque è stata fatta secondo il vecchio spirito contadino, la ripugnanza per lo spreco, la spinta a tesaurizzare.
Macellerie e oreficerie: con le immagini che si porta dietro (di pranzi copiosi e succulenti, di famiglie all’antica senza alcun prurito per l’effimero), questo primo colpo d’occhio mi guida nell’osservazione di Mantova e del Mantovano. M’accorgo infatti che le statistiche sono una cosa, e i modi del vivere – le mentalità, il costume – un’altra. Certo, le cifre e le statistiche disegnano una specie di Eldorado padano. Quindicimila imprese, piccole medie e grandi, tra Mantova e la provincia. Quattordici milioni di reddito pro-capite contro i cinque milioni della provincia di Salerno, poniamo, o i quattro e mezzo della provincia di Enna. Duemilaottocento miliardi di depositi soltanto nel capoluogo, e tutto un accorrere di banche a contendersi la torta. Ma questo scorrere di miliardi non affiora in forme vistose. Non si manifesta, per esempio, in scenografie natalizie del tipo «falso-newyorkese» come quelle che si vedono in tante città italiane.
Se uno venisse a cercare le apparenze d’un boom, come si dice, i segni più sgargianti della ricchezza, ripartirebbe da Mantova deluso. Quel che vi si trova è invece un mondo morigerato (salvo che nella passione gastronomica), tradizionalista, ancora parecchio rustico. È il retaggio del passato agricolo. L’origine contadina della gente è lampante, tanto che in tre giorni non m’accadrà di vedere una donna sofisticata, un uomo ben vestito.
All’ora dell’aperitivo, nel vecchio caffè Caravatti (caldo di boiseries marrone scuro, odoroso della sua magnifica pasticceria) arriva qualche ragazza impellicciata, i capelli freschi di parrucchiere, che lì per lì sembra avere un’aria di borghesia cittadina. Ma è un’impressione: le corporature si rivelano troppo robuste (il petto in particolare), le giunture quasi maschili, i vestiti di gusto provinciale. Per non parlare degli uomini, che sono sempre massicci, diciamo sugli 85 chili di media. Parcheggiano automobili da 20-25 milioni, ed eccoli sotto i portici infagottati nei loro giacconi di panna o di cuoio, il colletto della camicia sbottonato, il pantalone sempre un po’corto. Allegri, salaci, rubizzi: l’immagine di quell’universo latteo-caseario che comincia subito fuori Mantova, passati i ponti, oltre i laghi.
Elenco questi tratti di rusticità senza cattivo umore, e tantomeno nostalgia d’eleganze, che del resto non esistono più da nessuna parte. Anzi con un certo rispetto. In un mondo dove da regione a regione d’Europa, da una fascia di reddito all’altra, la gente è tutta vestita dagli stessi abominevoli stilisti, la trasandatezza mantovana risulta alla fin fine un connotato civile, nel senso di naturale, di non camuffato. Ma la grossièretè resta: e forse perchè conosco poco questa zona d’Italia, non cessa di stupirmi. Ogni mattina, per esempio, scorro gli annunci mortuari sulla Gazzetta di Mantova. Sono annunci con fotografia del defunto, come non se ne pubblicano più da tanto tempo, e mi ricordano i manifesti funebri che s’affiggevano – anche lì col ritratto del morto – sui muri dei paesi del Meridione. Foto-tessera riprodotte tali e quali, senza rimpicciolirle, sicché è facile soffermarsi sulle fisionomie a coglierne i tratti, a tentare di distinguerne l’origine sociale. Ebbene – donne o uomini, giovani o anziani – vedo soltanto facce contadine. Le pettinature delle donne, spesso coi capelli raccolti a crocchia, le loro vesti modeste (pur essendo certamente, in occasione della fotografia, quelle della festa) sono inconfondibili; e inconfondibile è l’atticciato degli uomini, l’espressione metà solenne e metà imbarazzata dinanzi alla macchina del fotografo, l’abito scuro che s’indovina greve, stazzonato.
Dietro questa «Spoon river» quotidiana intravvedo gli inverni padani, le terre e le nebbie che iniziano oltre le mura levate da Vespasiano Gonzaga. Le risaie, gli allevamenti di bestiame, i pioppeti, la vecchia agricoltura da cui è scaturita a furia di fatiche la nuova ricchezza di Mantova. Da lì viene infatti – senza soluzione di continuità nell’origine sociale, nei costumi, nel gusto – la generazione di imprenditori che tra Goito e Castelgoffredo, Guazzolo e Guidizzolo, Cerasara e Castiglione delle Stiviere hanno costruito nell’ultimo quindicennio il «miracolo mantovano». Un’industria fiorente, estremamente diversificata, in cui il rischio, le scelte, gli investimenti si sono combinati - spiega l’ex sindaco di Mantova, Gianni Usvardi - "con lo stesso equilibrio con cui si combinano i sapori nella nostra cucina". Con industrie come la Marcegaglia o la Belleli da 7-8000 operai, e industrie microscopiche con quattro dipendenti - l’ufficio nella camera da pranzo del padrone - che fatturano due miliardi l’anno di calze da donna. Ma i miliardi - insisto ancora un momento su questo punto - non hanno modificato di molto le figure del vivere. PAGE 00 Come se la ricchezza, invece di spingere verso nuovi comportamenti, nuovi ritmi, fosse servita a rinsaldare le tradizioni, rendendole solo un po’più pingui. Sempre sulla "Gazzetta di Mantova", leggo di appuntamenti natalizi che sarebbero impensabili in altre zone d’Italia, Nord o Sud non importa, dove il tempo d’una serata s’identifica con gli orari dei programmi televisivi. Per esempio: "Il circolo Arci di Villimpenta organizza domani sera una fantastica gara di briscola. Ricchi sono i premi in palio". Si noti il tono dell’annuncio, il candore del suo linguaggio; e si notino i "ricchi premi": due prosciutti da dieci chili ciascuno per la coppia vincitrice, due "grossi cesti di generi alimentari" per i secondi, due "grosse mortadelle" per i terzi. E Gianni Usvardi m’avverte che questa di Villimpenta non è neppure una briscola memorabile. Altre volte ci sono stati premi più cospicui, un vitellino, tre maiali da latte, cento bottiglie di lambrusco. Tra briscole e mortadelle sembra insomma di cogliere un altro tratto, questo più interiore, del mondo mantovano: il suo impulso alla conservazione, il rifiuto di farsi travolgere dalla crescita economica. Come dice il presidente della Camera di commercio, Cirillo Bonora, una specie di "filosofia del provincialismo". Il senso delle dimensioni, l’attaccamento al passato. Ecco un altro esempio tratto dal giornale locale: "Interessante ed atteso appuntamento al bocciodromo di Montata Carra per gli amanti della musica lirica. La società bocciofila ha organizzato una serata operistica di tutto rispetto". E’la passione per la lirica, comune a tutta la gente padana. Ma il tenore di Montata Carra (che si deve immaginare di second’ordine) in serate che mi dicono affollatissime, sta poi ad indicare qualcosa di più complesso: un bisogno d’affiatamento, una convivenza sociale particolarmente viva (insieme tradizionale e immaginosa), sullo sfondo dell’Italia narcotizzata dai teleschermi. Si capisce, l’intera sociologia del Mantovano non è riducibile ai suoi caratteri rustico-provinciali. Al suo entroterra agricolo, un milione di maiali, mezzo milione di bovini, un perenne sentore di letami. In città vedo una serie di belle librerie, le locandine annunciano gli stessi spettacoli di Roma o di Milano, e l’assessore alla Cultura, Sergio Cordibella, mi elenca una decina di manifestazioni musicali che tutte insieme daranno una sessantina di concerti all’anno. Quanto ai nuovi imprenditori, è evidente che le gare di briscola e le serate liriche al bocciodromo cominciano a stargli un po’strette. La ricchezza non può essere ostentata in loco, perchè "l’etica sociale - mi dice uno storico di qui, Giuseppe Papagno - "impone a chiungue d’esporre quel che è, o ciò che ha, a non più del cinquanta per cento". Ma fuori Mantova, beninteso - dai Caraibi a Forte dei Marmi e a Cortina - il danaro verrà speso con meno remore. Restano tuttavia le impressioni del colpo d’occhio iniziale. Una provincia senza smanie d’apparenza, caratteri misurati. Ruoli ancora ben definiti, se non intatti, di uomo e donna. Infatti incontro signore della borghesia che si dilungano sulle paste e sui liquori che fanno in casa, agnolini e tortelli, Nocino ed Erbaluisa, e qualcuno mi racconta che nel circolo più esclusivo, "La Rovere", dove s’organizzano un paio di feste all’anno, la consuetudine vuole che le mogli dei soci vi arrivino ciascuna con un proprio manicaretto. Per la PAGE 00 gloria personale, del marito, della casa. Tipici d’un mondo ristretto - dove il controllo reciproco sui comportamenti, sul rispetto dei valori tradizionali, è costante - sono anche i rapporti tra amministratori e amministrati. Corbidella mi dice che la prima lettura, al mattino, d’un politico locale, è quella delle lettere al direttore sulla "Gazzetta di Mantova". Una pagina intera. A volte si tratta di lettere che affrontano problemi planetari, con l’oziosità che in questi casi è inevitabile; ma quasi sempre sono interventi su questioni concrete, precise sino al dettaglio, riguardo alla gestione pubblica. E pesano, dice l’assessore alla Cultura, nel senso che sarebbe impossibile ignorarli. Infatti la città è benissimo tenuta. La spesa (da quel che può giudicare il visitatore: gli ammirevoli restauri di Palazzo Te, per esempio, i finanziamenti alla stagione teatrale e concertistica) è oculata. Gli scandali amministrativi inesistenti. E manca quell’appello incessante, piagnucoloso, agli interventi dello Stato, che caratterizza la vita pubblica in tante parti d’Italia. Dice il presidente dell’Ente turismo, Giovanni Genovesi: "Anni fa avevamo pensato che Mantova, al centro d’una provincia agricola così importante, avesse diritto ad una facoltà d’Agraria. Ma era il periodo in cui tutti chiedevano, con polemiche fragorose, nuove sedi universitarie, e allora lasciammo perdere...". C’è una punta d’orgoglio, naturalmente, in discorsi come questi. Ma Mantova sa d’essere un’eccezione. "Un’oasi felice", come la descriveva recentemente il giornale locale, "ancora incontaminata...". M’accorgo adesso d’aver insistito sulla rusticità, la "grossièretè" della veduta d’assieme, e di non aver parlato di Mantova "la bellissima". Della città d’arte, di quanto si vede (ed è molto) del suo superbo passato. Ma in questo aveva ragione l’occhio di Guido Piovene. Le Mantove sono due, "una città viva che reca dentro di sè una città morta". Un passato e un presente che non si mischiano. Una continuità spezzata, una cesura, salvo forse per un certo piacere di vivere. L’ultima visione che ho di Mantova è serale, dai portici di piazza Erbe dove ho trascorso - come accennavo prima - gran parte del mio soggiorno mantovano, ed è appunto la visione delle "due città". Sotto i portici è quasi caldo, come se il freddo-umido del dicembre padano s’arrestasse sul selciato della piazza. Nel passeggio, nei gruppi fermi dinanzi ai caffè, nel va e vieni dai negozi sfavillanti di luci, ecco le facce contadine, le risate robuste, le sagome massicce, gli abiti sgraziati, i colori del bozzetto provinciale che ho tentato di descrivere. Il tutto fuso in un’immagine di vitalità sanguigna. Più avanti, a non più di cento metri, l’ineguagliabile piazza Sordello è deserta. La nebbia vela i lampioni, avvolge le merlature del palazzo Ducale, incombe sulla mole dell’Arcivescovado. Ancora cento metri oltre la piazza, ed è la vista livida dei laghi, il profilo spettrale dei pioppi rivelato dai lumi del ponte San Giorgio. Qui è la Bruges del romanzo di Georges Rodenbach, "Mantova la morta".