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 2015  dicembre 22 Martedì calendario

PESCARA

Il Montepulciano d’Abruzzo non è più «l’anelato biglietto da visita della nostra regione», non rappresenta più «quel brand territoriale che rafforza e crea valore aggiunto ai nostri prodotti». Di conseguenza tra gli imprenditori «non vi è più convinzione sull’investire sul Montepulciano d’Abruzzo come marchio trainante». Mentre sarebbe auspicabile «valorizzare i territori prima dei marchi e dei vitigni», riconoscendo che «L’Abruzzo enologico non è uniforme». È tempo però che la politica se ne renda conto, e che agisca di conseguenza. A pensarlo e a scriverlo in una lettera inviata all’assessore regionale all’Agricoltura Dino Pepe è Alessandro Nicodemi, produttori vinicolo di Notaresco e presidente del Consorzio di Tutela Colline Teramane. Nicodemi, il suo è un de profundis per il Montepulciano d’Abruzzo? «Mi limito a dire che nessuno ha il coraggio di fare un’analisi attenta della regione dal punto di vista enologico». E se la facessimo che cosa capiremmo? «Capiremmo che tutto il mondo conosce il Montepulciano, ma nessuno lo riconduce a questa regione. E’ un paradosso: il Montepulciano è il nostro biglietto da visita, ma otto volte su dieci viene dal Veneto o dalla Lombardia. A settembre ero in America, parlavo con un importatore di Montepulciano, ebbene lì è considerato un vitigno internazionale non identificabile con un luogo geografico specifico». Perché da noi questa cosa non si comprende? «La nostra è una struttura produttiva piramidale, come accade in tutte le regioni, ma in Abruzzo la piramide è rovesciata. La produzione è in mano a 33 cooperative sociali, unico caso in Italia, che hanno grandi meriti storici, ma che si sono fermati al primo gradino della vinificazione»: E dunque? «Dunque il 70% del nostro vino esce e continuerà uscire sfuso, caso unico tra le denominazioni italiane. Il controsenso è che il Montepulciano è diventato un vino conosciutissimo, ma per merito dei grandi imbottigliatori, che non sono abruzzesi. Ma questo è un problema che nessuno vuole affrontare, compreso il Consorzio di tutela dei vini d’Abruzzo, che è composto per undici quindicesimi da cantine sociali. Altro problema è il minimo comune denominatore di gusto». Che non c’è, immagino. «Tutte queste cisterne che vanno fuori trasportano sicuramente Montepulciano. Però questi vini, una volta arrivati nelle fabbriche degli imbottigliatori, difficilmente restano in purezza, perché vengono tagliati. Il risultato è che il gusto del Montepulciano è molto variegato. Se vado in giro per il mondo e assaggio un Montepulciano non nostro, scopro che non ha nulla a che fare con il nostro vitigno. Se invece lei prende dieci Baroli il minimo comun denominatore lo trova. Così perdiamo due volte: dal punto di vista economico e dal punto di vista dell’identità del gusto». Che fare allora? «Il Montepulciano per mille ragioni non bisogna più toccarlo, è quello che è. La nostra doc Montepulciano è dal punto di vista geografico anomala, è la denominazione con superficie geografica più estesa d’Italia. Dobbiamo invece fare come si fa nelle regioni enologiche più evolute, dove si ragiona a ricaduta». Ossia? «Si fa una docg che è l’apice della piramide e poi doc di ricaduta più ampia, ognuna con una propria sottozona. E un disciplinare che imponga l’imbottigliamento nella zona d’origine. Un domani potremmo avere 4/5 sottozone in modo da dare una specificità maggiore al nostro vitigno». Dunque avremmo non il Montepulciano D’Abruzzo, ma il Montepulciano Docg, per esempio colline teramane... «O la Docg Casauria, Alto Tirino... Può andare bene non solo al privato, ma anche alla cantina sociale che, se vuole promuovere il proprio prodotto, può farlo sotto il cappello della Docg. Le dirò di più: noi abbiamo fatto una variazione della nostra denominazione e a partire dalla vendemmia 2016 usciremo anteponendo Colline Teramane docg alla denominazione Montepulciano. La richiesta ci è stata accolta senza riserve». Anche perché l’Europa chiede ormai che le denominazioni corrispondano ai territori geografici. «Per l’Europa i vitigni sono come i semi dei fiori. Il vitigno Montepulciano lo può coltivare chiunque, per questo prende invece forza la sottozona di provenienza». Perché ha scritto una lettera alla Regione? Che cosa può fare la politica? «A volte, e me ne dispiace, la politica si ferma a lucidare la macchina: va al Vinitaly ed è contenta, senza rendersi conto che il suo compito è, non dico di imporre, ma di tracciare un percorso assieme agli operatori del settore. Allora dico: perché la Regione non incentiva questo discorso delle Docg? Perché non organizza tavole rotonde dove si discuta come accorpare queste realtà cooperativistiche, molte delle quali sono sull’orlo del fallimento?» Tra 4 mesi si rinnovano le cariche del Consorzio di Tutela dei vini d’Abruzzo. Si può anche cominciare da lì? «In genere c’è un tacito accordo di alternanza tra Citra e Tollo per la presidenza, adesso si vocifera di un privato. Ma la vera rivoluzione non è eleggere un presidente che viene dal mondo privato, ma eleggere un Cda che per undici quindicesimi sia composto da privati, perché se dobbiamo discutere di denominazioni sono i privati a portare il vessillo. Le grandi realtà cooperative potrebbero essere rappresentate da 2/3 membri. Questo sarebbe il vero scatto culturale».