Eugenio Fatigante, Avvenire 20/12/2015, 20 dicembre 2015
IRAN, L’ANOMALIA ECONOMICA: IL MEGA POTERE DELLE BONYAD
C’era una volta la Rivoluzione. Islamica e, sulla carta, socialista. Come tutte le rivoluzioni, però, dello spirito del ’79 è rimasto ben poco nell’Iran di oggi. All’epoca dello Scià un centinaio di famiglie cortigiane dei Pahlevi controllavano l’80% dell’economia locale. Oggi più o meno la stessa percentuale è in mano al lato oscuro degli ayatollah e dei fedeli Guardiani della rivoluzione. Si chiamano Bonyad e sono il vero prodotto doc iraniano, quanto il caviale: un coacervo di religione e pragmatismo affaristico che controlla le leve del potere e il 60% della capitalizzazione della Borsa di Teheran.
È la cosiddetta Pasdaran Economy, basata su un labirinto di Fondazioni (come tali esentasse) che negli anni han fatto man bassa dei beni della corona imperiale e delle famiglie benestanti: oggi è divenuto il loro patrimonio, che utilizzano per nuovi affari e per una rete fittissima di donazioni, posti di lavoro e sussidi, necessari per mantenere il potere con metodi clientelari e con un anomalo Welfare state. Nasce così la leggenda (o realtà) che vuole che la guida suprema Ali Khamenei, in carica dal giugno 1989, dietro la sua figura ascetica sia forse il vero uomo più ricco di tutto il pianeta, con quasi 200 miliardi di dollari. Proprio così, una cifra astronomica. Ovviamente non si tratta del suo conto in banca, bensì della cifra corrispondente al patrimonio delle due principali Bonyad che fanno capo direttamente a lui. In pratica uno Stato dentro lo stato, cresciuto all’ombra delle sbandierate nazionalizzazioni che in realtà hanno dato vita solo a nuovi oligopoli, autorefenziali e che non rispondono più nemmeno al governo politico di Rohani. La più storica è quella Mostazafan, cioè degli Oppressi, nata subito nel 1979. È considerata la seconda forza economica del Paese dopo il Nioc, l’ente petrolifero, ed è in pratica una holding ramificata in tutti i settori: dalla finanza all’ente immobiliare Omran, dalla società mineraria Kaveh Pars all’energia e all’industria alimentare, fino all’autostrada Teheran-Shomal. Un decennio dopo, nell’89, nacque la Setade Ejraiye Farmane Emam (ovvero Sede per l’esecuzione degli ordini dell’imam), spesso descritta come un’organizzazione segreta e cresciuta rapidamente fino a raggiungere un pari patrimonio, con un portafoglio di 37 aziende e un punto di forza nell’immobiliare (da cui derivano 52 miliardi), oltre alla raffineria di Hormuz. Alla Setade spetta il primato della maggior operazione di Borsa nella storia iraniana, quando due anni fa furono rilevate per 8 miliardi di dollari le quote della rete telefonica e Internet della Telecommunication Company.
Un caso a parte è l’Astan Qods Razavi. Sita a Mashad e attiva già prima del ’79, è l’ente che gestisce il santuario dell’ottavo imam degli sciiti, Reza. Da sempre alimentata dalle donazioni degli oltre 30 milioni annui di pellegrini, dopo la Rivoluzione - quando tali entrate non furono più espropriate - è divenuta un conglomerato che impiega oggi circa 19mila persone in 50 istituti e aziende (fra le quali la farmaceutica Samen, i produttori di auto Shahab Khodro e persino una casa di tappeti). Anche i privati per crescere hanno bisogno di appoggiarsi alle Fondazioni, in una commistione che sfocia - come nel resto del mondo - anche in politica. Come Asadollah Asgar-Oladi e il suo impero del pistacchio (l’Iran ne è il primo produttore mondiale), capace di costruire un patrimonio di 9 miliardi grazie anche al fratello che fu ministro del Commercio negli anni Ottanta. Si dice che i gestori delle Bonyad negli anni abbiano accumulato all’estero circa 100 miliardi di dollari, poi rimasti bloccati nei conti per via dell’embargo, e proprio la prospettiva di rientrare in possesso di tali ingenti somme sia lo stimolo principale in base al quale anche gli ambienti religiosi più chiusi hanno accettato il negoziato con l’Occidente. Più che l’utopia rivoluzionaria, quindi, potè il denaro. Funziona così anche l’economia islamica.