Alessandro Penati, la Repubblica 20/12/2015, 20 dicembre 2015
LA TRAGEDIA ILVA SI CHIUDE SE LO STATO BONIFICA E POI PRIVATIZZA
Atto I: La politica industriale di Stato. Nel 1959 lo Stato decide di sostenere lo sviluppo dell’industria postbellica costruendo a Taranto una grande acciaieria; che dovrebbe anche portare benessere al Sud. Poi, negli anni ’70 il prezzo delle materie prime si impenna. Per i paesi industrializzati è recessione. Molti rispondono alla crisi spostando le risorse verso produzioni a basso consumo energetico, tecnologia e servizi. Ma in Italia il modello industriale di Stato è rigido: si va avanti per 20 anni a produrre acciaio in perdita (in totale, 15 miliardi). E al Sud, invece del benessere arriva il disastro ambientale.
Atto II: Il privato. A furia di coprire perdite, il debito pubblico esplode e lo Stato rischia il fallimento: per far cassa, nel ’95 si decide di privatizzare l’Ilva. Invece di ristrutturarla, quotarla e venderla al miglior offerente nel mondo, lo Stato, con il pretesto della difesa dell’italianità, vende a una impresa familiare (Riva), tipicamente allergica alla Borsa (e alla trasparenza che impone), e col vizietto della holding estera in cui travasare i profitti. La globalizzazione accresce la domanda mondiale di acciaio e i Riva fanno profitti; ma anche il capitalismo familiare è rigido e miope: i Riva non investono in tecnologia per abbattere l’inquinamento; e non ristrutturano per competere con i paesi emergenti che producono a costi più bassi. Così, anche l’impero familiare va a pezzi.
Atto III: L’incertezza delle regole. Il capitalismo di mercato ha bisogno di regole certe; e di chi le faccia rispettare. In Italia c’è carenza di entrambe le cose. Per definire le regole, aspettiamo l’Europa. La Direttiva sui limiti di inquinamento è del 2008; la nostra Autorizzazione Ambientale per l’Ilva è del 2012; ma nell’ottobre del 2014 la Commissione ci sanziona per non averla fatta rispettare. Dovrebbe essere semplice: un’autorità nazionale stabilisce i parametri sulla base della Direttive, ha le risorse per verificarne il rispetto, avendo il potere di sanzionare; se c’è dolo, interviene la magistratura. Così funziona ovunque.
Ma da noi sono le Regioni a fare le verifiche dei limiti, con standard e livelli di “permeabilità” differenti. Il vuoto di regole fornisce l’impulso alla magistratura per intervenire ovunque, imponendo le proprie regole (e dei suoi periti).
In Ilva siamo all’assurdo: limiti e tempi di adeguamento richiesti della Procura sono diversi da quelli dello Stato, più volte intervenuto per modificare le delibere del Tribunale via decreto. E alcune richieste della magistratura, eccedono la Direttiva. Al posto della certezza delle regole abbiamo l’incertezza istituzionalizzata. Gli interventi della magistratura, poi, non hanno riguardo per le conseguenze economiche delle proprie decisioni. Così, invece di limitarsi di chiedere all’Autorità preposta di verificare inquinamento e bonifiche, mette sotto sequestro gli impianti e blocca gli altiforni, mandando in dissesto l’azienda. E il Governo la commissaria, ricorrendo alla legge fallimentare per un’azienda che faceva utili.
Atto IV. Il buio oltre la siepe. La confusione sulle regole rende incerto il costo della bonifica. Per alcuni, gli 1,2 miliardi spesso citati sono sottostimati. Nessun privato è disposto a investire con questo onere. Governo e commissari pensavano di utilizzare i soldi della holding dei Riva sotto sequestro in Svizzera (ma per altri reati, societari). Il Tribunale locale però, giustamente, ha impedito lo svincolo in assenza di una condanna anche di primo grado. Il Fondo salva imprese partorito da Guerra, consigliere di Renzi? Svanito nel nulla per manifesta impraticabilità. Rimane lo Stato, che stanzia 800 milioni nella legge di stabilità (e il resto?). Ma potrebbero essere aiuti di Stato illegittimi. In più c’è l’incertezza sull’applicazione delle regole in futuro e sul loro costo. E con quali vincoli su produzione e occupazione? E il Governo dice di voler vendere in 6 mesi.
Epilogo. Forse vale la pena ricominciare da capo: nazionalizzare, ristrutturare, e questa volta privatizzare bene sul mercato. A nessuno viene poi in mente che all’origine di tutto c’è la follia di costruire altiforni in mezzo a un quartiere. Con 1,2 miliardi di Stato per le bonifiche si potrebbero costruire 4500 nuove case da 100 mq per i 18.000 abitanti adiacenti l’Ilva, a 50 chilometri in mezzo al verde, con una strada e una ferrovia rapida di collegamento. Si chiama teorema di Coase, Nobel per l’economia 1991.