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 2015  dicembre 20 Domenica calendario

LIBRO IN GOCCE NUMERO 69

(Jacomo Tintoretto e i suoi figli, Storia di una famiglia veneziana)

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L’ASCESA DI JACOMO TINTORETTO –
Pubblico. Quando collocava un quadro in pubblico, Tintoretto voleva conoscere la reazione degli spettatori, ma anche contrastarne le critiche e i giudizi negativi. Per questo sguinzagliava tra il pubblico allievi e collaboratori del suo studio che esprimevano approvazione a voce alta.
Velocità. Tintoretto lavorava con una rapidità che stupiva, affascinava e irritava i suoi contemporanei. Non disegnava mai – o quasi mai – la complessa macchina scenica che aveva in mente. Disegnava i singoli corpi. Un personaggio alla volta, sulla carta azzurra, con il carboncino.
Colori. Tintoretto si vantava di comprare i suoi colori nei negozi di Rialto, dove qualunque imbrattatele poteva trovarli, perché, sosteneva, l’arte non è nella materia ma nella mente e nella mano del pittore. Si limitava a legarli con l’olio di lino e li utilizzava fino all’ultimo granello, raschiando la tavolozza fino al cuore del legno, sciogliendo i residui sul fuoco e riciclandoli finché non restava nulla.
Statura. Jacomo Tintoretto, figlio primogenito di ser Battista, tintore di panni di seta. Esordì col nome di Iacomo Tentor in onore del padre. Tentoretto (o Tentoreto) era un vezzeggiativo che gli era stato dato in famiglia e dagli amici per la sua esigua statura. Nato senza cognome, ne scelse uno da adulto: Robusti.
Fratelli. Jacomo, «il primo a nascere e l’ultimo a morire», fu il primo di 22 figli.
Apprendistato. L’apprendistato di Tintoretto presso la bottega di Tiziano durò dieci giorni.
Tiziano. Quando Tiziano usciva di casa, era solito lasciare in bella vista le chiavi del locale in cui teneva i suoi quadri più pregiati. Appena si chiudeva la porta alle spalle, gli allievi si avventavano a fare le copie delle sue opere, mentre uno degli apprendisti veniva messo di sentinella. Tiziano era ben consapevole dei “furti” dei suoi allievi: anzi, si faceva mostrare le copie e, se le giudicava valide, le rifiniva con qualche colpo di pennello e le vendeva come degne della bottega.
Molestia. Anche Jacomo si avventò nel locale proibito e rubò con gli occhi i quadri del maestro. Finché il decimo giorno, rientrando in casa, Tiziano notò sotto una cassa dei fogli disegnati. Chiese chi fosse l’autore di quelle figure e Jacomo, temendo di aver fatto qualche errore, confessò timidamente di essere stato lui. Tiziano «presagì da quei principi che costui potesse un giorno, per certo che di gratia che vi scorse eccedente la condizione di quell’età, recarle molestia nell’arte» (Ridolfi) e cacciò immediatamente e senza spiegazioni il giovane allievo.
Maestri. Escluso dalla bottega di Tiziano, per imparare a dipingere Jacomo fu costretto a rivolgersi a maestri minori e meno reputati e quando li ebbe sopravanzati cercò di costruire la propria leggenda tacendoli e accreditando la versione di una formazione solitaria e libera.
Maria. La Presentazione di Maria al Tempio venne commissionata al Tintoretto dal monastero della Madonna dell’Orto di Venezia. Compenso pattuito nel 1548: una botte di vino da sei bigonci, due stare di farina e 5 scudi d’oro. Tre anni dopo, siccome il pittore non aveva ancora iniziato l’opera e la sua fama era in ascesa, concordò un significativo aumento, arrivando a farsi pagare 30 ducati.
Marietta. «Marietta Tintoretta famosa per i suoi ritratti, Jacomo la ebbe da una donna tedesca, di cui era innamoratissimo, così che quando stava dipingendo un grande quadro nella chiesa che è chiamata Madonna dell’Orto, essendogli offerta la possibilità di fare una donna con una bambina per mano, dipinse madre e figlia, in una maniera che quanti vedono quel gesto non si saziano di apprezzare la forza, l’affetto con cui lo esprime, e la naturalezza» (dalla Genealogia della Casa Tintoretto ).
Mazzucco. Il mal di mazzucco, che uccise la figlia trentenne di Tintoretto, era una malattia che colpiva indiscriminatamente uomini e ragazzi, di preferenze fra i 20 e i 40 anni, ma anche donne e bambine. Si manifestava con una febbre persistente, che durava dai dieci ai quaranta giorni. Talvolta provocava dolori così acuti da indurre al suicidio. Spesso si associava alle “petecchie”. Nel Lessico Veneto compilato da Fabio Mutinelli nel 1851 venne definito così: «Mazzucco: mal di. Fu chiamata così, secondo l’Erizzo, la peste che nel 1478 desolò per un anno la città». A volte associata alla peste, a volte invece a un grave raffreddore, scomparve alla fine del Seicento.
Giorgio Dell’Arti, Domenicale – Il Sole 24 Ore 20/12/2015