Francesco Oggiano, Vanity Fair 9/12/2015, 9 dicembre 2015
Il volontario Angelo Licheri racconta la sua vita 34 anni dopo la tragedia di Vermicino Da quando uscì dal buco di Vermicino a testa in giù e a mani vuote, Angelo Licheri ha cambiato due mogli, nove lavori, quattro città e due continenti
Il volontario Angelo Licheri racconta la sua vita 34 anni dopo la tragedia di Vermicino Da quando uscì dal buco di Vermicino a testa in giù e a mani vuote, Angelo Licheri ha cambiato due mogli, nove lavori, quattro città e due continenti. È stato due volte in cella, ha perso quasi ogni contatto con i figli, gran parte della vista e tutta la gamba sinistra. Vive in una casa di riposo alle porte di Nettuno, con 1.200 euro di pensione d’accompagno e Billy, il cane ricevuto in eredità da un ospite della casa deceduto un paio di mesi fa. Da questa camera dell’istituto, dove tiene appesa una foto di Alfredino Rampi, ha finito di scrivere l’autobiografia, L’Angelo di Vermicino (Edizioni Memori, 16 €, con prefazione di Walter Veltroni). In quel buco nero, con l’estate che stava per iniziare, Angelo non c’era precipitato. Era voluto entrarci nella speranza di tirarne fuori il bimbo che lì era caduto e che lì dentro, qualche ora dopo, morì. Angelo fallì, davanti all’Italia intera collegata in diretta nel primo reality show della storia del Paese. E da allora diventò per tutti quello che si calò per salvare Alfredino. La sua storia inizia verso la fine della guerra a Gavoi, paese di 3 mila abitanti nel centro della Barbagia. Angelo non vedrà mai il padre, morto quando lui aveva 17 giorni, e crescerà tra gli insegnamenti della madre: «Eravamo la seconda famiglia più povera del paese. Ma lei ci diceva sempre di essere onesti. Ché con l’onestà potevamo andare a testa alta». Angelo è onesto ma duro, gentile ma testardo, leale ma sregolato. Passa l’infanzia cambiando scuole e lavoretti. A 11 anni entra in collegio, ma ci rimane per poco. Lancia il calamaio in faccia al professore che gli ha tirato le orecchie, picchia i bulli che lo infastidiscono. «Ero piccolo, ma riuscivo a impormi menando come un pazzo non appena uno mi provocava», spiega. Anche il rapporto coi tutori della legge sarà intenso: a 13 anni viene fermato e interrogato a suon di sberle dai carabinieri per un furto di portafogli che non ha commesso. A 20 finisce in cella per aver difeso la fidanzata dalle avance di alcuni ragazzi di strada. A 40 verrà arrestato e poi rilasciato in Kenya. Angelo si dà da fare prima come cameriere, poi come facchino e cuoco. Si trasferisce a Roma, dove viene assunto come autista per una tipografia. È nella capitale che conosce Orazia, la sua prima moglie: «Una persona intelligentissima che forse non meritavo. Mi lasciò per via della mia passione per le donne. Ma questo prima di Vermicino». Già, la vita di Angelo si divide in prima e dopo Vermicino. La storia è semplice: la sera del 10 giugno del 1981 il bimbo di 6 anni Alfredino Rampi cade in un pozzo artesiano nella campagna di Vermicino, alle porte di Roma. Oltre 32 milioni di italiani seguono per tre giorni le operazioni per salvarlo, grazie a una diretta televisiva no stop di 18 ore messa in piedi dalla Rai. «Persino se fosse scoppiata una guerra», commentò anni dopo Emilio Fede, direttore del Tg1 di allora, «chiunque avrebbe preferito sapere come andava a finire la storia di Alfredino». Angelo è uno di quei 32 milioni di telespettatori. Dalla sua casa di Roma, assieme a Orazia e a sua figlia piccola, segue la vicenda dalla Tv. Guarda gli speleologi calarsi giù, vede il Presidente Pertini arrivato in visita, assiste con scetticismo alle trivellazioni. «Una sera mia moglie entrò in camera e mi vide dentro l’armadio, nudo, con le braccia in alto, che facevo mosse strane. Le dissi che mi stavo solo guardando allo specchio. Ma lei capì». Capì che nella testa di Angelo stava iniziando a farsi strada l’idea di entrare nel buco nero. Angelo è un uomo piccolissimo. Ha delle spalle larghe 30 centimetri. Così, il pomeriggio del 12 giugno, quando dal divano di casa sente l’inviato Rai annunciare il fallimento delle trivellazioni, si alza di scatto e saluta Orazia: «Le dissi: “Vado a comprare le sigarette, torno per cena”». Prende la macchina, si accende una delle tante sigarette che ha nel cruscotto e guida verso il circo mediatico nato attorno a Vermicino. Si intrufola oltre il cordone di sicurezza e si presenta ai capoccia dei Vigili del fuoco che stavano dirigendo i lavori. «Sono piccolo, là dentro mi infilo. Fatemi provare». Supera le resistenze, si fa imbracare e per la prima volta nella vita sfugge alle regole della madre, andando a testa bassa. Angelo si fa calare nell’inferno di fango, caldo e roccia tagliente. Si procura tagli su entrambe le anche e si scortica la pelle, ma dopo 20 minuti raggiunge Alfredino. «Il bimbo rantolava. Gli parlai, gli promisi che saremmo usciti fuori insieme e saremmo andati a prendere un gelato. Tentai di imbracarlo, ma continuava a scivolarmi dalle mani. Lo presi per un polso ma glielo spezzai. Non ce la facevo». Dopo 45 minuti a testa in giù, un tempo superiore a qualsiasi soglia di sicurezza, Angelo si arrende. Dà un bacio al bimbo e ordina ai suoi di tirare la corda. Risale fuori in lacrime, nudo, sanguinante e infangato. I fotografi lo immortalano con una coperta addosso, tremante e morto di freddo, in una Pietà dell’era televisiva. Angelo diventa una star. «Purtoppo», dice. La sua casa viene assediata dai giornalisti. Piovono inviti e offerte d’aiuto da ogni parte d’Italia e del mondo. Quand’è ancora in ospedale, un produttore lo va a trovare proponendogli di fare un film sulla storia di Alfredino. «Lo cacciai in malo modo». Con un po’ di furbizia, avrebbe potuto fare soldi a palate. Ma su quella storia, Angelo non ci ha fatto una lira, fatta eccezione per le poche donazioni spontanee che ancora arrivano da qualche parte d’Italia. La vita dopo Vermicino è all’ombra di un buco nero. Angelo divorzia dalla moglie e lascia a lei e ai suoi tre figli la casa popolare appena ottenuta dal comune. Lui, va a vivere in una roulotte, al capolinea dell’autobus 280. Continua a cambiare lavori e città. «Ho sempre avuto un animo girovago. Non ho mai voluto comprare casa. Non riesco a stare per più di cinque anni in un posto». Alla fine degli anni novanta se ne va in Kenya con Mary, sua nuova compagna di origini africane. Apre un ristorante italiano. Le cose iniziano ad andare bene, fin quando scopre di avere una grave forma di diabete, che gli causa l’amputazione della gamba e il decadimento della vista. Angelo torna in Italia. Viene abbandonato da Mary («la furbina...») e dai tre figli avuti dal primo matrimonio. Nel 2013 se ne va in una casa di riposo, dove tuttora vive. «Mi trovo bene, a parte la noia mortale. Da quando non ci vedo più, ho rinunciato ad annaffiare i fiori». Gli resta la pianta di rosmarino, il Tg di Enrico Mentana, i documentari di Focus e gli scherzi con le infermiere. Trentaquattro anni e 60 metri di profondità dopo, Angelo non ha rimorsi, soltanto un rimpianto per la «libertà persa» e la «vivacità che mi è stata in parte tolta». Alla fine delle 18 ore di maratona, l’allora inviato del Tg2 Giancarlo Santalmassi si congedò dai telespettatori con parole dure: «Volevamo vedere un fatto di vita, e abbiamo visto un fatto di morte. Ci domanderemo a lungo a cosa è servito tutto questo, che cosa abbiamo voluto dimenticare, che cosa ci dovremmo ricordare, che cosa dovremo amare, che cosa dobbiamo odiare. È stata la registrazione di una sconfitta, purtroppo». A tutt’oggi, di tutto questo, Angelo non ha mai odiato nulla. Salvo la sconfitta.