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 2015  dicembre 13 Domenica calendario

«LASCIA CHE SIA FIORITO»

«Lascia che sia fiorito, Signore, il suo sentiero / quando a Te la sua anima e al mondo la sua pelle / dovrà riconsegnare, quando verrà al Tuo cielo / là dove in pieno giorno risplendono le stelle». Forse alcuni avranno riconosciuto in questi versi l’avvio di quella Preghiera in gennaio che apriva il primo long playing ufficiale Volume 1 che Fabrizio De André pubblicò nel 1967. L’invocazione – come per altro tutto il testo – era intarsiata da ammiccamenti biblici che diventavano poi una citazione esplicita delle Beatitudini evangeliche: «Beati quelli che sono nel pianto, / perché saranno consolati». Era quasi l’anticipazione della Smisurata preghiera che suggellerà l’ultimo disco (1996) di Faber, come l’amico Paolo Villaggio aveva soprannominato il grande cantautore genovese.
Tutti, d’altronde, conoscono quel vero e proprio classico che è stata la Buona novella (1970) ove erano convocati soprattutto i Vangeli apocrifi. Lo stesso De André confessava che nella sua elaborazione poetico-musicale «i personaggi evangelici perdono un poco di sacralizzazione, ma io credo e spero soprattutto a vantaggio di una loro migliore e maggiore umanizzazione». E inconsapevolmente affermava una verità teologica capitale, quella dell’“Incarnazione”, evento centrale del cristianesimo. Mi è spiaciuto di non aver mai incontrato Faber, che però, proprio per il suo ateismo mistico, aveva avuto legami con vari sacerdoti, primo fra tutti con don Andrea Gallo. Egli, infatti, sarebbe stato – se la morte non l’avesse colto prima – un ospite formidabile di quel “Cortile dei Gentili” per l’incontro tra credenti e non credenti che ho voluto costituire e che opera da anni.
Ed è significativo che proprio sul blog del “Cortile dei Gentili” un docente liceale romano abbia scritto questa considerazione: «L’ateismo di De André si rivela essere paradossalmente evangelico, come quello dei primi cristiani rispetto alla religione umana: distrugge le false immagini di Dio. Lo purifica dai molteplici idoli... Per chinarsi sulle ferite dell’uomo Gesù fraternamente “una nuova indulgenza insegnò al Padre eterno”». Per questo, Cristo costituisce la figura centrale della “mistica atea” di De André, lui che – come canta in Creuza de mä – ha scelto una povera cavalcatura per il suo trionfo: «A montare l’asino è rimasto Dio, il Diavolo è in cielo e ci si è fatto il nido». Netta è, quindi, la discriminante tra il vero Dio e l’idolo, tra l’incarnazione e la trascendenza imperiale sacrale.
Abbiamo voluto evocare Faber e la sua lettura della Bibbia attingendo al vivace saggio che sul tema gli ha dedicato un docente e scrittore appassionato di questi accostamenti, Brunetto Salvarani. Un accostamento che l’editrice valdese Claudiana, in collaborazione con la bolognese Emi, ha reso sistematico attraverso una piccola collana ove personaggi molto diversi tra loro si confrontano con le Scritture. Così, un altro docente sensibile a queste comparazioni come Piero Stefani si è impegnato nell’impresa non semplice di delineare un Michelangelo che legge la Bibbia. Basti solo scorrere i soggetti fondamentali delle sue opere per comprendere come il genio dell’artista fu contaminato dalle pagine bibliche divenendone uno straordinario e originale esegeta visivo: dal David all’apice assoluto della Cappella Sistina ove non impera solo il Giudizio Universale ma quella irraggiungibile interpretazione dei primi capitoli della Genesi che Michelangelo ha disteso sulla volta, dal Mosè di S. Pietro in Vincoli alla Pietà...
Sempre seguendo questo filo rosso, un passaggio un po’ sorprendente per alcuni può essere vedere Leopardi che legge la Bibbia: lo fa con una passione così viva da aver elaborato nei suoi quaderni di appunti persino una mini-grammatica di ebraico per risalire oltre la versione latina della Vulgata che allora dominava nel mondo cattolico e che era presente nella biblioteca di suo padre Monaldo. Un’altra docente liceale, Laura Novati, si impegna con molta finezza alla ricostruzione della “Bibbia di Leopardi”. Scorrono, così, davanti a noi alcune poesie più celebri, dall’Inno ai Patriarchi al Sabato del villaggio, dal Canto notturno di un pastore errante dell’Asia alla Ginestra e altre ancora. Suggeriamo, però, ai lettori di soffermarsi in particolare sul «più qoheletico dei Canti leopardiani», il drammatico, desolato, eppur paradossalmente rassegnato e pacato A se stesso (1835).
In questi versi sembra respirare la stessa voce del biblico Qohelet/Ecclesiaste: essa sale verso un cielo vuoto dallo «stanco mio cor» di Giacomo, da una vita che è «amaro e noia, altro mai nulla», dal mondo che è «fango» e dalla lampeggiante e tragica «infinita vanità del tutto». Variamente classificato come agnostico, pessimista, distante dalla religione, Leopardi rivela, invece, una polla poetica sorgiva che affiora proprio dalle Scritture Sacre. Potremmo continuare a lungo tenendo stretto quel filo biblico nel labirinto della letteratura anche contemporanea. C’è, per esempio, Stefano Giannatempo che si è dedicato all’autore dell’ormai celebre saga apparentemente neopagana Il Signore degli Anelli, cioè l’inglese John R.R. Tolkien. In questo scavo egli scopre «tracce di evangeli nella Terra di Mezzo», classificando Silmarillion come il «Pentateuco» di questo scrittore, l’Hobbit come un impasto di storia, sapienza e profezia e definendo un po’ arditamente Il Signore degli Anelli come «un lungo Nuovo Testamento».
Confesso di non essermi mai appassionato a Tolkien (anzi, di esser uscito un po’ annoiato e un po’ esausto dalla lettura delle sue saghe), ma devo riconoscere che le comparazioni pur libere e talora azzardate proposte da Giannatempo, rivelano che anche in trame distanti e persino alternative si possono intuire le filigrane narrative e tematiche della Bibbia. Lo stesso autore ha affrontato pure il Vangelo secondo il Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry, un’analisi comparativa che è stata approfondita anche da Enzo Romeo nel saggio Il Piccolo Principe commentato con la Bibbia. Il dantista Giuseppe Ledda si è, invece, arditamente inoltrato in quell’orizzonte immenso e affascinante che è la Bibbia di Dante, ove alle citazioni esplicite si associano infiniti echi e assonanze. Concludiamo, però, con un cenno a un capitolo di sua natura sterminato che era già emerso con Michelangelo.
Chagall non esitava a definire la Bibbia quel «grande alfabeto della speranza in cui per secoli i pittori hanno intinto il loro pennello». Solo per evocare un altro emblema, certamente originale, pensiamo al Caravaggio. Due ecclesiastici milanesi, Sergio Stevan e Paolo Alliata, in modo didascalico e rivolgendosi a un pubblico ampio, hanno provato a ricomporre le pagine del Vangelo secondo Caravaggio. Si tratta di quattordici “pagine” pittoriche che emozionano, provocano, illuminano, talora sconcertano. Alla loro radice ci sono altrettante pagine evangeliche che qui vengono citate per poi passare all’“esegesi” che di esse fa in modo originale e folgorante il pennello dell’artista. I commentatori non fanno altro che invitarci a non perdere nulla di quel messaggio potente, umano e trascendente, che si manifesta in parole e in colori, in voci e in immagini irrevocabili per la loro bellezza e verità.