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 2015  dicembre 18 Venerdì calendario

LA STRATEGIA DELLA YELLEN E LA FINE DEGLI ALIBI

Abbandonato lo strano mondo dei tassi prossimi allo zero o addirittura negativi, la Fed entra ora nella fase di risalita, che si preannuncia graduale e prudente, ma non per questo meno irta di insidie. Evitare che la crisi scoppiata nel 2007 si trasformasse in una depressione peggiore di quella degli anni Trenta ha richiesto politiche monetarie coraggiose, innovative e soprattutto ultra-generose, come è dimostrato dal fatto che i bilanci delle banche centrali hanno raddoppiato le dimensioni, passando dal 10 al 20 per cento del pil in media fra le varie aree.
La strada che porta alla normalità passa tuttavia per territori non meno inesplorati di quelli finora attraversati. Prima di tutto perché, a differenza del 2007, non c’è più l’esigenza di fare fronte comune all’emergenza. Le situazioni sono differenziate fra le grandi aree: la Bank of England sembra destinata a seguire da vicino la Fed, come ha sempre fatto, ma sia la Bce sia la Bank of Japan registrano ancora una dinamica dei prezzi e del prodotto lordo tali da richiedere piuttosto un ulteriore allentamento. In più, rispetto al 2007, sulla scena c’è oggi anche la Bank of China, forte del nuovo status della propria valuta, oltre che della crescente importanza economica e politica del paese.
Se le banche centrali non possono prendere decisioni coordinate fra loro perché le rispettive economie si muovono su traiettorie differenti, le crescenti differenze fra tassi di interessi si scaricheranno sui flussi di capitale e sui cambi, che non è difficile prevedere saranno le grandi incognite del 2016. Certo, le banche centrali saranno molti prudenti in questa fase; del resto, la lunga attesa della decisione della Fed è un chiaro segno del fatto che neppure la più grande potenza mondiale può decidere da sola la politica monetaria. Era però ormai impossibile per la Fed, pena una drammatica perdita di credibilità, prolungare ulteriormente la svolta annunciata. Molti economisti, a cominciare da Paul Krugman, erano e sono fieramente contrari all’aumento dei tassi, ma con i ripetuti annunci a partire dalla primavera scorsa, Janet Yellen aveva praticamente bruciato i vascelli alle sue spalle.
Non è neppure detto che la decisione sia irreversibile: il Giappone, che ci ha preceduto nell’esperimento dei tassi di politica monetaria prossimi allo zero, ha tentato per ben tre volte di alzarli e per tre volte è dovuta tornare precipitosamente sui suoi passi.
I fattori di incertezza sono molteplici, ma quello dominante e che in un certo senso accumuna tutti è l’immenso debito privato e pubblico che i paesi avanzati hanno accumulato prima della crisi e che negli ultimi anni si è spostato verso i paesi emergenti, Cina inclusa, raggiungendo la ragguardevole cifra di 18 trilioni di dollari (più di quattro volte il livello del 2004), sotto la spinta dell’abbondante liquidità e dei tassi storicamente bassi.
Come reagiranno i titolari di questo debito e soprattutto quelli indebitati in dollari all’aumento dei tassi e al rafforzamento della valuta americana? Quale sarà l’impatto sul reddito interno e il contributo al commercio internazionale di paesi che ormai rappresentano più del 50 per cento del prodotto globale? Troverà ulteriori ostacoli la Cina a spostare il motore del suo modello di crescita dagli investimenti ai consumi interni?
I mercati hanno reagito positivamente all’annuncio, non solo perché la decisione era ampiamente scontata, ma soprattutto perché tutte le previsioni per il 2016 (che ovviamente scontano l’aumento dei tassi Usa) sono sostanzialmente positive: il rapporto Prometeia di ottobre prevede un lieve miglioramento nel 2016 sia del prodotto mondiale che del commercio internazionale.
Ciò non significa ovviamente che non ci sia una probabilità, anche se inferiore, di un’involuzione deflattiva, perché lo spettro che si aggira fra le economie mondiali è oggi la recessione da eccesso di debiti (la cosiddetta balance sheet recession che ha colpito il Giappone venti anni fa). Ma su questa, la politica monetaria agisce come un palliativo, non come una cura radicale.
Come ha detto ancora lunedì scorso a Bologna Mario Draghi, le banche centrali possono al più portare il tasso di crescita dell’economia vicino al livello potenziale (e sempre che l’inflazione non sia vicina all’obiettivo). Ma se il livello potenziale è modesto, come oggi nel caso europeo, perché la crisi ha distrutto capacità produttiva e perché gli investimenti (compresi quelli in infrastrutture) non crescono abbastanza nonostante tassi di interesse così bassi, diventa impossibile liberarsi della trappola del debito. E non c’è politica monetaria, per quanto accomodante, che possa aumentare il numero di giri di un motore asmatico .
Insomma, la Fed festeggia giustamente la sua decisione come il ritorno al “new normal”, che è anche l’espressione della forza vitale dell’economia americana, ma sarà un ritorno che richiederà ai banchieri centrali altrettanta fantasia e capacità di coordinamento di quella dimostrata finora per evitare le molte trappole disseminate sul cammino. Ma “new normal” significa anche che le banche centrali smettono di cavare le castagne dal fuoco a governi incapaci di realizzare le politiche necessarie per aumentare stabilmente il potenziale di crescita delle rispettive economie. Per l’Europa è un segnale forte e chiaro, ma come diceva Totò, non c’è peggior sordo di chi non ci sente davvero.