Fabio Deotto, IL - Sole 24 Ore 1/2016, 18 dicembre 2015
UN PRINCIPE PICCOLO PICCOLO
Siamo alla fine di una cena tra vecchi amici, sulla tovaglia sono rimasti tappi di birra e fondi di caffè annegati nell’amaro. In quattro stiamo discutendo di libri, Mario invece ci ignora, testa china sullo smartphone, in attesa che il supplizio finisca. A un certo punto però uno di noi ammette di non aver mai letto Il piccolo principe, e allora ecco che Mario inarca la schiena e sbarrando gli occhi proclama: «Ma quello è un capolavoro. Devi leggerlo. Io l’ho regalato a un sacco di ragazze».
Il piccolo principe colleziona una serie impressionante di record: è il terzo libro più venduto di sempre (dopo la Bibbia e Il Capitale di Marx), è stato tradotto in 250 tra lingue e dialetti (dal Braille al friulano) ma, soprattutto, è uno dei libri più odiati di sempre, tanto che ne parlano male persino quelli che non l’hanno letto. Ad alimentare questo astio irrazionale spesso sono proprio quelli come Mario, che i libri non li toccano con un bastone, ma appena possono saltano su, ti intimano di leggere Il piccolo principe, e quando tu, incuriosito, chiedi di motivare tanto entusiasmo, non sanno fare altro che sgranare figure retoriche e frasi da t-shirt.In un certo senso hanno ragione: Il piccolo principe è un collage di allegorie tenute insieme a fatica da una trama delirante: è la storia di un aviatore che sopravvive a un atterraggio in mezzo al deserto, dove incontra un bambino vestito da lord che millanta di provenire da un asteroide e di essere scappato perché la rosa di cui è innamorato si è rivelata una rompiscatole paranoica; dopo averla messa sotto vetro e aver svolazzato per il cosmo, il piccolo principe arriva sulla Terra dove “conosce” altri fiori, finché una volpe parlante lo convince che nessuno sarà mai come la rosa del suo asteroide, e che tanto vale tornare a casa facendosi mordere da un serpente magico.
Il fallimento di un pilota annoiato
Esistono numerose teorie che inquadrano questo libro come un tributo all’amore non convenzionale, o un monumento alla superiorità dell’essenziale sull’apparente; Eugen Drewermann arrivava a definirlo un «breviario della speranza». In realtà, basta conoscere la storia di Antoine de Saint Exupéry per capire che Il piccolo principe è piuttosto l’esperimento fallito di uno scrittore annoiato. Prima di scrivere il suo primo e unico libro per bambini. Saint-Exupéry aveva sempre e solo attinto al serbatoio della sua esperienza di aviatore: in Volo di notte aveva parlato del suo lavoro per la compagnia Aeroposta Argentina, in Terra degli uomini aveva riunito i racconti di viaggio scritti dopo essersi schiantato nel Sahara libico, e in Pilota di guerra aveva raccontato le sue incursioni durante la campagna di Francia. Nel 1942, quando comincia a lavorare a Le Petit Prince, però, quel serbatoio è ormai a secco. Da quando la Francia ha firmato l’armistizio con la Germania nazista, Saint-Exupéry ha riparato negli Stati Uniti dove fa spola tra Manhattan e Long Island. L’ex-aviatore è frustrato, cagionevole di salute, passa lunghe giornate a mortificarsi per non essere su un aereo a lottare per il suo Paese; finché un giorno la moglie di uno dei suoi editori statunitensi gli suggerisce di scrivere un libro per bambini. Ufficialmente Elizabeth Reynal vuole aiutarlo a riprendersi da un brutto periodo, di fatto spera che il francese sforni qualcosa che possa controbilanciare il successo dei libri di Mary Poppins di Pamela Lyndon Travers.
Saint-Exupéry accetta il guanto di sfida, si mette al lavoro, ma qualcosa non funziona. Ci sono tanti aspetti della propria vita che ha sempre tenuto in tasca ed è giunto il momento di affondarci la penna. Potrebbe dare alla storia un respiro ampio, utilizzando lo stile che ha cesellato negli ultimi dieci anni, invece decide di prendere tematiche ingombranti come l’adulterio, l’amicizia, la distanza, la guerra, e prova a pigiare tutto in cento pagine scritte larghe e piene di figure. Il risultato è una scrittura che oscilla tra la semplicità didascalica dell’adulto che racconta favole e la visionarietà lisergica del bambino che si accontenta di associazioni illogiche.
Già dalle prime pagine è chiaro che Saint Exupéry non sappia a quale pubblico rivolgersi e il primo a rendersene conto è lui. Nella dedica mette subito le mani avanti chiedendo «perdono ai bambini per aver dedicato questo libro a un adulto», un atteggiamento difensivo che appesantisce l’intero libro in una sorta di interminabile excusatio non petita, tanto che a volte si ha l’impressione che l’autore voglia afferrare il lettore per il bavero implorandolo di non prenderlo per un cialtrone.
Ma torniamo a quella tavola piena di bicchieri. Mario sta ancora parlando del Piccolo principe, dice che quando era al liceo l’ha regalato a una ragazza e lei ne è rimasta talmente stregata da tatuarsi sul polso l’immagine del boa cappello. Si riferisce al passaggio iniziale del libro, in cui l’autore racconta di quando da bambino aveva disegnato un boa che aveva ingoiato un elefantino e di come gli adulti, che non sanno vedere oltre la superficie delle cose, lo scambiassero inevitabilmente per un cappello. Questa figura retorica, per quanto dozzinale, è il jolly che Saint-Exupéry infila nel mazzo a pagina uno e cala sul tavolo ogni volta che teme che il lettore non lo prenda sul serio. Perché dopo aver volato per la galassia il piccolo principe ha bisogno di farsi mordere da un serpente per tornare a casa? E perché si premura di portarsi dietro una pecora che potrebbe mangiarsi la rosa di cui è innamorato? Ogni volta che vengono a galla interrogativi di questo tipo, il ricordo del boa-cappello interviene a ricacciarli giù, il lettore adulto si sente puntato addosso l’indice ammonitore di Saint-Exupéry e sospende preventivamente il suo senso critico. La cosa curiosa è che, con questo utilizzo ricattatorio delle figure retoriche, il lettore viene indotto a concentrarsi sulla bellezza delle immagini evocate (dunque, l’apparenza) a discapito del loro effettivo significato (ossia l’essenziale). E allora ecco che la figura del piccolo principe diventa l’emblema dell’innocenza, una sorta di Gandhi interstellare capace di illuminare le menti di chi incontra, quando in realtà basta conoscere l’origine di questo personaggio per capire che è solo la personificazione dello snobismo dell’autore.
Poveri irrecuperabili e donne capricciose
Durante gli anni Trenta Saint-Exupéry alternava il lavoro di aviatore a quello di corrispondente per alcune testate giornalistiche. Nel maggio del 1935 si trova a viaggiare da Parigi a Mosca come inviato di Paris-Soir: durante una traversata notturna in treno decide di avventurarsi dalla prima alla terza classe, dove sono stipate numerose famiglie polacche. Antoine Marie Jean-Baptiste Roger Conte di Saint-Exupéry proviene da una famiglia dell’alta aristocrazia di Lione, non è abituato a sedere gomito a gomito con la comune plebe, e l’incontro con questa “fauna” fa nascere in lui improbabili fantasie eugenetiche. Scrive Saint Exupéry su Paris-Soir: «Mi sono seduto e davanti a me c’era una coppia addormentata. Tra l’uomo e la donna, un bambino si era ricavalo una nicchiae si era addormentato anch’egli. A un certo punto si è girato nel sonno, e nella fioca luce delle lampade ho visto la sua faccia. Che viso adorabile. Un frutto dorato era nato da quei due contadini. Questo è il volto di un musicista, mi sono detto. Questo è un piccolo Mozart. Questa è una vita piena di belle promesse. I piccoli principi delle leggende non sono diversi da questo. Quando per una mutazione nasce un nuovo tipo di rosa, tutti i giardinieri gioiscono. Isolano la rosa, la accudiscono e la fanno crescere. Ma non esiste un giardiniere dell’uomo. Questo Mozart avrà la forma di tutti gli altri come uno stampino. Questo piccolo Mozart è condannato».
Un altro dato che si scopre studiando la vita dell’autore è che la rosa sull’asteroide è un chiaro riferimento alla moglie, Consuelo Suncin, scrittrice e pittrice salvadoregna. Lei e Saint-Exupéry si conobbero e sposarono nel 1931, ma il loro rapporto fu fin da subito burrascoso. Chi ancora si ostina a vedere nel Piccolo principe un omaggio all’amore che supera ogni ostacolo dovrebbe fermarsi a riflettere sul fatto che l’autore francese ha dato a se stesso i connotati di un principe dai capelli d’oro, eternamente giovane, capace di volare nel cosmo e far piovere saggezza, mentre a Consuelo ha dato l’aspetto di un fiore immobile, capriccioso e incapace di badare a se stesso. Senza coniare che il rapporto tra il piccolo principe e la rosa dovrebbe essere il filo conduttore di tutta la trama, ma di fatto si riduce a un paio di dialoghi che sembrano estratti da Cara ti amo di Elio e le Storie Tese.
Al tavolo siamo rimasti solo io e Mario, che per fortuna ha smesso di parlare di boa e cappelli. Gli chiedo se l’abbia più rivista, la ragazza del tatuaggio sul polso. Lui fa un mezzo sorriso e si alza da tavola. Mentre infila il cappotto sono sul punto di chiedergli con quante abbia funzionato, questa cosa del Piccolo principe.
Il primo gennaio 2016 arriverà nelle sale un nuovo adattamento cinematografico e c’è da scommettere che le vendite del libro torneranno a impennarsi. Sarà difficile a quel punto non ricordare le parole di uno spietato Carlo Fruttero che, in un articolo uscito sulla Stampa nel febbraio del 2005, definiva Saint Exupéry «manipolatore di surrogati» e paragonava Il piccolo principe a una sorta di discount con «milioni e milioni di barattoli di melassa» a disposizione di chiunque voglia «sentirsi quel lirico saporino in bocca, con poca spesa».