Marco De Martino, Vanity Fair 16/12/2015, 16 dicembre 2015
DONALD TRUMP
Le caserme dove vivono i futuri ufficiali di West Point sono a dieci minuti di macchina, ma l’Accademia militare di New York non ha niente a che fare con l’esercito americano: è un collegio privato in cui gli alunni si vestono da cadetti e vengono addestrati con la durezza di solito riservata ai marines. Donald Trump ci è arrivato quando aveva 13 anni perché il padre era stufo delle continue punizioni che riceveva per la sua mancanza di disciplina. E così il giovane Trump si trovò per cinque anni a correre e fare flessioni all’alba.
«Quell’esperienza ci cambiò tutti», mi racconta Ted Levin, che fu compagno di stanza di Trump. «Non solo imparammo a rispettare l’autorità, ma anche a eccellere in tutto e a essere competitivi: ancora adesso mi dà fastidio ricordare che Donald prendeva voti più alti dei miei in geometria». C’erano molte risse: «Lottavamo in continuazione, tutti contro tutti, e anche se poi io sono diventato un maestro di lotta libera. Donald vinceva perché era più grande di me. Ancora oggi, quando lo sento parlare, riconosco in lui lo spirito di quegli anni». Nell’ufficio della sua piccola azienda di imballaggi a Paterson. in New Jersey, ora tiene un pupazzo parlante di Donald Trump: «Lo uso quando ho bisogno di ispirazione, vuole sentire?». Schiaccia il bottone, e dal pupazzo esce quella voce inconfondibile che dice: «Non c’è niente di male ad avere un ego». Lo rischiaccia: «Non arrenderti mai. per nessun motivo».
Dicono i sondaggi che il 96 per cento degli americani conosce Donald Trump. Non è difficile crederlo: Trump possiede 258 società intestate al suo nome, che solo a New York compare su 12 edifici, e nel resto del mondo su svariati golf club e hotel di lusso. Chi parte dall’aeroporto di LaGuardia spesso vede il suo jet 757 parcheggiato strategicamente tra una tappa e l’altra della campagna, in bella mostra la scritta «Trump: Rendere l’America di nuovo grande».
The Donald, come lo chiamava la prima moglie Ivana, ha posseduto tra l’altro una linea aerea (Trump Airlines) un’università (Trump University) una marca di vodka (Trump Vodka) un giornale (Trump Magazine) un’agenzia di viaggi (GoTrump.com).
Trump ha venduto milioni di libri e il suo programma The Apprentice ha capeggiato gli ascolti televisivi per 11 anni, eppure l’America si è abituata a non prenderlo sul serio. Quando si parla dei suoi edifici spesso si dice che quelli di sua proprietà sono una minima parte di quelli a cui presta il nome, come se guadagnare centinaia di milioni di royalties l’anno contasse meno. E anche la sua candidatura alla Casa Bianca ad alcuni sembra ancora una fantasia, un replay delle altre sei volte in cui ci ha pensato: dopotutto l’episodio dei Simpson su Trump presidente risale al 2000.
Eppure nelle ultime due settimane qualcosa è cambiato. Perché alla fine di una campagna fitta di insulti contro le donne, i messicani, i disabili e i musulmani, dopo proposte irrealizzabili come la costruzione di un muro al confine col Messico o la chiusura di Internet. Donald Trump si trova 15-20 punti davanti a tutti i candidati repubblicani alla presidenza.
E, poiché sono cinque mesi che capeggia i sondaggi, forse vale la pena di farsi delle domande. Bisogna chiedersi per esempio se Trump non abbia intercettato un qualche sottile malessere quando dice: «Non possiamo più permetterci di essere così politicamente corretti». O se, quando si scaglia contro l’odiato Jeff Bezos – fondatore di Amazon.com e re mondiale dell’e-commerce –, non interpreti il malcontento sotterraneo dei milioni di lavoratori che hanno perso il lavoro a causa della «distruzione creativa» del digitale.
«La cosa sconcertante è che nessuno ha ancora capito cosa significhi Trump: come si muovesse in una zona franca in cui può dire quel che vuole, e fregarsene dei sondaggi», mi spiega Michael Wolff, il più ascoltato esperto di media negli Stati Uniti. «L’unica cosa certa è che sa creare ascolto: è una star dei reality, e il confine tra fantasia e mondo reale con lui è da sempre molto labile. Con lui nulla sembra avere importanza, fino a che la ha».
La presidenza, il reality, non può che partire dalla casa di Donald e Melania nella Trump Tower, e da un commento fuori campo: bisogna essere almeno un po’ geniali per diventare – affacciato alle gigantesche vetrate del suo appartamento di 45 stanze, 200 metri sopra Central Park – l’alfiere dei maschi bianchi americani che si sentono minacciati dagli immigrati, dalle donne alfa, dal terrorismo, dalla crisi e dalla disoccupazione. Disegnato da Angelo Donghia, che divenne famoso negli anni Ottanta come «il Saint Laurent dei divani», l’appartamento vale sul mercato 100 milioni e si snoda sui tre ultimi piani dei 68 della Torre, uno dei quali per gran parte occupato da Barron, 9 anni, il quinto figlio di Trump.
[…]. Mamma Melania, bellezza di origini slovene, dice che Barron già si preoccupa all’idea di perdere i suoi amici trasferendosi alla Casa Bianca: «Ma io gli dico che, se accadrà, papà potrà aiutare la gente, i bambini come lui, e questo lo rende felice».
Melania ha da tempo lasciato il lavoro di modella: si occupa della sua linea di cosmetici, che comprende una crema idratante al caviale. Ma se diventerà first lady lo dovrà a un italiano che conobbe a Milano. Paolo Zampolli, che oggi è ambasciatore di Dominica presso le Nazioni Unite ma che un tempo aveva un’agenzia di modelle, portò Melania a lavorare a New York. E nel 1998 la presentò a Donald Trump a una delle sue feste, al Kit Kat Club. Donald aveva 52 anni, Melania 28. Lei quella sera non volle dare il suo numero al costruttore, ma qualche tempo dopo lo chiamò e passarono la notte a parlare. «Qualche settimana più tardi si presentarono insieme a una cena a casa mia», racconta Zampolli.
Forse anche per sdebitarsi. Trump gli fece una proposta difficile da rifiutare. «Eravamo a tavola con Melania e David Copperfield, il mago. Donald mi disse: “Paolo, sei troppo intelligente per continuare a occuparti dell’agenzia di modelle. Lo sai cosa succede a te se perdi una delle tue super-model? Vai in rovina. Lo sai cosa succede a me se perdo uno dei miei super-portieri? Niente, perché fuori c’è la coda per venire a lavorare nei miei palazzi”. Mi disse così, e io mi voltai verso Copperfield, chiedendogli: “David, è una tua magia?”. Poi guardai Melania, e lei mi sorrise: il giorno dopo iniziai a lavorare come direttore della parte internazionale dalla Trump Organization».
Qualche tempo fa ho incontrato anch’io Trump nell’ufficio al 26esimo piano della Trump Tower dove Zamponi ha lavorato per due anni. Ai visitatori il costruttore mostra orgoglioso i suoi cimeli: un busto di Ronald Reagan, un microfono anni Cinquanta, le copertine che gli sono state dedicate, compresa quella di Playboy: «Sono stato uno dei pochissimi maschi ad averla». Mi ricordo che alla fine della nostra conversazione, che fu molto cordiale in un momento per lui difficile, uscii sorpreso da quanta poca gente lo circondasse. «Trump ha pochi collaboratori fidati, che ascolta sempre: poi si fa quello che decide lui», mi dice Zampolli.
Lavorano con Donald i tre figli che ha avuto dalla prima moglie Ivana: Ivanka, 34 anni, che sta per dargli il terzo nipotino, il figlio Eric, di 31 anni, e il maggiore, Donald jr, di 37. Che dice: «Credo di essere l’unico figlio di miliardario che sa guidare un trattore Caterpillar». E ancora: «Mio padre non recita, non si sveglia la mattina chiedendosi come essere Donald Trump. Lo puoi fare per una settimana, non per una vita». Aggiunge Ivanka: «Papà dice sempre esattamente quello che pensa».
La casa dove è cresciuto Donald Trump è al capolinea della linea F del metrò, profondo Queens. Per strada ci sono donne col burqa e indiani col turbante. Ci sono anche ristoranti Halal e taquerìas: è la zona più multiculturale di New York, un campionario degli immigrati che il presidente Trump terrebbe fuori dal Paese.
All’inizio della strada dove è cresciuto lui. Midland Parkway. c’è un arco che annuncia la zona protetta: Jamaica Estates. Ma la vigilanza è quasi inesistente e le case modeste, fino a che non si arriva a quella con le colonne di papà Fred Trump, che divenne ricco costruendo più di 27mila abitazioni a Brooklyn e nel Queens, per lo più sovvenzionate dal governo, per gli americani che tornavano a casa dalla guerra. I Trump hanno sempre saputo approfittare al meglio delle circostanze: nonno Frederick, un tedesco che cambiò il cognome originale Drumpf in Trump quando emigrò in America, fece fortuna durante la corsa all’oro costruendo nello Yukon ristoranti che avevano stanze «per incontri con le signore»: in camera non mancava mai una bilancia, per i pagamenti in polvere d’oro.
Donald ricorda che, quando suo padre Fred lo portava a riscuotere gli affitti, gli diceva di nascondersi dopo avere bussato alla porta, perché talvolta chi apriva aveva una pistola. Gli diceva, anche: «Sii un killer». Eppure tentò di dissuaderlo quando Donald gli disse di voler costruire non nel Queens ma a Manhattan. E, se gli fanno notare che è partito coi soldi del padre, lui risponde sottolineando la differenza tra la sua storia e quella di chi i soldi li ha da generazioni – il «club dello sperma fortunato», lo chiama: «A me papà diede una cifra tutto sommato modesta. Un milione di dollari».
«La famiglia di Trump è un microcosmo della storia del capitalismo americano», mi dice Gwcnda Blair, autrice del libro / Trump: Ire generazioni di costruttori e uh candidalo presidenziale. «Dalla madre Mary Anne, che era scozzese, Donald ha preso il piacere di mettersi in mostra. Dal nonno e dal papà l’amore per la vendita: per lui tutto è chiedere, ricevere, dare in cambio. Tutto è trattativa, un mondo in cui vinci o perdi».
Nella futura biblioteca presidenziale di Donald Trump, un posto di rilievo sarà sicuramente dedicato ai suoi accordi prematrimoniali, secondo lui necessari per contrastare la voracità delle donne. Quello con Ivana Trump, in particolare, divenne il più famoso contratto al mondo nel 1990, quando fu chiaro che, dopo 13 anni, il matrimonio con Donald stava per finire. Oltre che madre dei suoi primi tre figli. Ivana era stata anche partner di affari del costruttore: volava in elicottero a Las Vegas per occuparsi del Trump Castle, fu presidente dell’hotel Plaza per un salario equivalente a un dollaro «più tutti i vestiti che voleva». L’ex campionessa di sci cecoslovacca seppe del tradimento del marito quando il New York Post riportò in prima pagina un commento sulle doti nascoste di Donald attribuito a Marla Maples, che sarebbe presto diventata la sua seconda moglie: «Il miglior sesso di sempre».
Già da tempo le columnist di gossip tenevano sotto osservazione Marla, reginetta di bellezza arrivata a New York dalla Georgia per diventare attrice. Trump la conosceva dal 1985, e giravano voci anche su altre donne. Infatti Ivana, convinta che il marito si stesse allontanando da lei, si era sottoposta a un lungo intervento di chirurgia plastica che l’aveva ringiovanita, ma che aveva lasciato Donald del tutto indifferente. L’epilogo arrivò di fronte a numerosi testimoni sulle prestigiose nevi di Aspen a Capodanno del 1989, quando Ivana si rese conto che Donald aveva portato in vacanza anche Marla. Le due donne si incontrarono all’uscita del ristorante Bonnie’s: «Sgualdrina, lascia stare mio marito», disse Ivana. Donald, che sedeva li vicino. infilò gli sci e tentò la fuga verso valle, ma venne velocemente raggiunto da Ivana che lo superò, si voltò e continuò a sciare al contrario col dito medio alzato verso il marito.
Gli avvocati di Ivana dissero che la cifra pattuita nell’accordo prematrimoniale, 25 milioni di dollari, era troppo bassa, ma non riuscirono a spuntare un dollaro di più: nel frattempo, infatti, Trump era sprofondato nei debiti, e presto avrebbe dovuto affrontare la prima delle quattro amministrazioni controllate della sua carriera.
All’inizio la storia con Marla sembrò promettere bene. Trump dichiarò al Daily News di essere molto colpito dalla lealtà della nuova fidanzata nel suo momento peggiore: «Un giorno eravamo a spasso insieme e abbiamo incrociato un homeless. “Marla”, le ho detto, ‘quest’uomo vale 900 milioni più di me”. Volevo metterla alla prova, ma lei non mi ha mollato. È una compagna fedele». Di fronte a tanto entusiasmo, Marla si convinse che non ci sarebbe stato accordo prematrimoniale. Ma Trump ci ripensò.
Il matrimonio avvenne nel 1993, con Marla già incinta della figlia Tiffany, oggi ventunenne. I primi screzi arrivarono subito dopo, quando Marla, dopo aver tanto insistito per tenere come residenza di famiglia la tenuta di Mar-a-Lago a Palm Beach, scoprì che Trump ne avrebbe convertito una parte in un country club, prezzo di iscrizione per i soci 75mila dollari l’anno. Quattro anni dopo, il divorzio: dicono i bene informati che Marla spuntò alimenti molto più bassi rispetto a Ivana.
«Senza accordi prematrimoniali non avrei potuto tenere i miei palazzi», dice Trump, che va fiero di non avere mai fatto bancarotta, e di essere uscito dalle crisi sempre più ricco di prima. I suoi anni più bui sono stati quelli tra il 1990 e il 1995, quando è uscito dalla classifica dei miliardari. Quest’anno Forbes valuta la sua ricchezza in 4.5 miliardi di dollari, ma lui sostiene che sono 9: le stime sulla vera entità del suo patrimonio sono la cosa che lo fa arrabbiare davvero. Le altre risse che ingaggia quotidianamente su Twitter sono invece per lui un po’ come le zuffe coi compagni all’Accademia militare: una cosa naturale della vita.
Secondo il Washington Post, Trump dall’inizio della campagna presidenziale ha postato sul suo account, seguito da oltre 5 milioni di follower, circa 6 mila tweet, prendendosela un po’ con tutti. Rivali come Hillary Clinton («Se Hillary non riesce a soddisfare suo marito, come può pensare di soddisfare l’America?») e Jeb Bush («Abbiamo bisogno di un comandante supremo, non di un candidato a bassa energia»), ma anche donne innocenti come Heidi Klum («Mi spiace ma non è più da dieci»).
Quando, per protesta contro le sue frasi sugli immigrati messicani, la rete tv Univision ha rotto l’accordo sulla trasmissione di Miss Universo – di sua comproprietà – Trump ha chiesto di boicottarla. E ora che il principe Al Waleed gli ha suggerito di arrendersi e ritirarsi dalla corsa per la Casa Bianca, lui ha twittato: «L’ebete Al Waleed vuole controllare i politici americani coi soldi di papà. Quando sarò eletto, non potrà più farlo».
Un candidato allo sbando? Solo per chi non ha letto il suo ultimo bestseller, Crippled America. Per spiegare il «Metodo Trump», a Donald bastano poche righe, da incorniciare. «Uso i media come i media usano me, per attirare attenzione. Una volta che ce l’ho, sta a me usarla a mio vantaggio. Ho imparato da tempo che, se non hai paura di essere schietto, i media scrivono di te, ti implorano di partecipare alle loro trasmissioni. Quando fai le cose in modo diverso da tutti gli altri, quando dici cose eccessive e rispondi agli attacchi, i media ti amano. Per questo a volte faccio commenti shock: per dare alla gente quello che vuole, e per dire la mia. Dopotutto, sono un uomo d’affari che cerca di vendere il suo brand. Quando è stata l’ultima volta che avete visto una pizzeria con la scritta “La quarta miglior pizza al mondo?”».