Sofia Silva, IL - Sole 24 Ore 1/2016, 18 dicembre 2015
I SETTE PIÙ GENIALI ARTISTI AMERICANI SONO TUTTI PITTORI, HANNO MENO DI QUARANTACINQUE ANNI E CINQUE DI LORO SONO IMMIGGRATI NEGLI STATI UNITI DA RAGAZZI. ECCOLI
Joe Bradley (1975) fuma le Natural American Spirit gialle, si ostina ad accenderle con i fiammiferi; traccia grosse linee e dense campiture su tele sudice. Tra il dipinto cui Bradley sta lavorando e la sua camicia spanta d’olio e di chiazze di sudore non c’è alcuna differenza.
John McAllister (1973) è il Matisse della Louisiana. In ogni suo quadro si aprono finestre prospettiche su altri quadri che mantengono un’allucinata monocromia amaranto, fucsia e melanzana. Lo spettatore, sentendosi dapprima giunto al colmo della raffinatezza, percepirà in seguito un certo sentore di nonna Julia che cuce merletti negli afosi pomeriggi a Sud di Monroe, per poi tornare a concentrarsi sulla graziosa perfezione del dipinto.
Jane Corrigan (1980) arriva a New York dal Canada, dipinge giovani ginnaste, androgine agricoltrici in pinocchietti e shorts slabbrati, buffi uomini di Neanderthal alle prese con la dura quotidianità dell’evoluzione. Jane se ne frega un po’ di tutto: ai pittoroni che starnazzano contro il narrative nella pittura, contro i personaggi e le loro storie ree di sbalzare dal trono gesto e superficie, contrappone una stravagante società neolitica di carote piantate a metà e ginocchia sbucciate. Una grande satira, quella di Corrigan, appresa alla scuola di Honoré Daumier.
La cromia s’insanguina per il new yorker israeliano Tomer Aluf (1977). Ematico è lo stesso spessore delle sue superfici: campiture fluide in verde e rosso stravolte da piccoli coaguli di colore. Bucrani, stivali, rozzi scettri da giullare, bicchieri da cocktail si mischiano a vorticosi splash da espressionismo astratto; le sabbie del Negev nel bunker di Pollock. Quando non lavora su tela, Aluf raccoglie per le strade logori tappeti persiani e con lo spray vi tratteggia sopra scie di seni cadenti.
La losangelina Tala Madani (1981) si diverte a prendere in giro il sessismo dell’art world internazionale e quello del suo Paese d’origine, l’Iran. Con pennellate da vero macho tratteggia arabi di mezza età calvi e panciuti che pisciano gli uni addosso agli altri, gonfiano bubble-gum per usarli come condom, strappano gramigna dalle proprie mutande, si pittano il corpo come un branco di hooligans. A uno si crepa l’ombelico.
E ora i due moscoviti trapiantati nell’East Coast. Pallidissima, la cortina di frangia calata fino al naso, Dasha Shishkin (1977) dipinge un tripudio di uomini-larva e Veneri dal naso oblungo, fianchi stretti e ingiustificate masse di cellulite; le dipinge mentre assediano bar e cabaret eccessivamente variopinti: centrifugati culturali della tradizione grafica e pubblicitaria di ogni città europea, russa, coreana, americana, cinese e giapponese che capiti sotto gli occhi dell’artista. Tra un naso che sembra un pene e un pene che picchia un naso, le textures di Shishkin calcano la mano sul potere politico della pittura decorativa.
Sanya Kantarovsky (1982) è il più squisito erede dei pittori di silhouette. Lungo i suoi dipinti si avventurano smilzi intellettuali, fradici direttori d’orchestra, poeti con il naso all’insù; volano fogli, foglie, piume e pioggia. Per usare l’espressione di un grande italiano esperto di grazia e levità, Kantarovsky compie «esercizi superficiali» trattando profondità, pasta e gravezza come tante allegre fanfaluche. «Volete che mi tagli un orecchio? – sembra chiedere ai critici il giovane Sanya – Non me lo taglierò mai!».