Anna Bernasek, Wired 12/2015, 16 dicembre 2015
QUANTO COSTA L’INFORMAZIONE?
Immaginate di andare al ristorante tra qualche anno. Non avete prenotato ma sapevano che sareste arrivati. Lo staff vi accoglie chiamandovi per nome e vi fa sedere subito al vostro tavolo preferito. Il cameriere vi serve un piatto speciale preparato apposta per voi; ovviamente non potete rifiutare l’acqua addizionata di principi nutritivi creata per le vostre specifiche esigenze. Forse berrete un bicchiere di vino in più del dovuto e cederete al dessert preferito, anche se vi eravate ripromessi di perdere peso. Arriva il conto, è un po’ più caro di quanto vi aspettavate. Ma cosa potete dire? Hanno fatto un ottimo lavoro.
Il ristorante ha anticipato i vostri desideri perché vi conosce molto bene. Quando siete stati qui l’ultima volta, alcune telecamere hanno seguito i vostri gesti, altri sensori hanno registrato tutti i commenti che avete fatto durante la cena, non solo a proposito del cibo. La sedia vi ha pesato prima e dopo il pasto, ha annotato il modo in cui state seduti e i cambi di posizione. Anche la durata esatta della cena è stata misurata e registrata. Per non parlare dei bicchieri: sanno quanto avete bevuto, cosa e quanto ci avete messo.
Ma è solo la punta dell’iceberg. In cucina, il lavapiatti ha passato rapidamente un tampone sul bordo del bicchiere e prelevato un campione di saliva, da cui è stato ricostruito alla perfezione un frammento del vostro dna. La visita al bagno ha prodotto un enorme patrimonio di dati, però vi hanno rassicurato: nessun essere umano analizzerà le immagini o i suoni della vostra performance alla toilette. Le macchine sono sempre in funzione, quindi i vostri movimenti sono stati digitalizzati, analizzati, registrati e un sistema di tubature “intelligenti” ha fornito ulteriori informazioni.
Anche se non avevate prenotato, il cellulare ha comunicato al ristorante la vostra posizione e vi ha identificato con un nome e un’email mentre il servizio dati ha avvertito il maitre del vostro arrivo. Il sistema di geolocalizzazione del telefono ha mandato un messaggio allo staff che, quando siete entrati, vi ha potuto accogliere salutandovi per nome, con grande confidenza. Il menu e i prezzi sono stati creati facendo una triangolazione tra la dispensa del ristorante e i vostri dati personali.
Tutto è stato fatto su misura per voi, insomma. Il primo bicchiere di vino aveva un prezzo più basso, abbastanza per convincervi a non resistere e a prendere anche il secondo. Poi, quando è arrivato il secondo... diamine, si vive una volta sola!
Un grafico di desideri e preferenze a tavola ha permesso al ristorante di anticipare alla perfezione quello che vi piace mangiare e quanto siete disposti a spendere: lavora con il centro dati, vi dà esattamente quello che volete e, grazie a questo servizio, guadagna qualcosa in più.
Il titolare è soddisfatto, gli affari vanno bene. Qualcosa però non funziona. Ogni volta che le entrate aumentano, guarda un po’, anche il centro dati alza i prezzi per cui, alla fine dell’anno, la cassa registra un sacco di uscite. Ma non c’è altro modo, senza i dati non si riesce a essere competitivi ed è pieno di locali pronti a usare questo sistema per offrire ai clienti un’esperienza memorabile.
Questo “ristorante del futuro” non esiste. Impossibile immaginare, oggi, un locale in cui ti prelevano un campione di dna dal bicchiere; la sola idea della telecamera in bagno, poi, continua a essere inaccettabile. Certo, ci sono aziende che lavorano dietro le quinte per sviluppare su grande scala i profili psicografici dei consumatori, ma il lavoro è in fase iniziale. I ristoranti, insomma, non hanno a disposizione i dati necessari a costruire un menu su misura per ogni cliente. Non ancora, almeno.
Però la tecnologia esiste, anche se in versione non avanzata; altrettanto dicasi per i sistemi di analisi. La marcia dello sviluppo tecnologico è inarrestabile anche perché il prezzo di sensori, strumenti per il calcolo, connettività e archivi dati scende in misura considerevole di anno in anno. La capacità di estrarre informazioni utili da montagne di dati aumenta ogni mese; quella dei sistemi che permettono di definire i prezzi su misura per ogni consumatore migliora di giorno in giorno.
Il cambiamento corre alla velocità dei dati – anche se per ora non sono perfetti – e in rete già lo si vede. I ricercatori della Northeastern University di Boston hanno scoperto, per esempio, che società come Staples e Home Depot, siti di viaggio come Orbitz e CheapTickets, compagnie di autonoleggio e molti hotel sono in grado di creare prezzi su misura. Le compagnie aeree in questo campo sono da sempre in prima linea: puoi scommetterci, la persona seduta accanto a te sul volo da New York a Roma ha pagato un prezzo diverso dal tuo. Per lo stesso tragitto, per lo stesso servizio.
Gli economisti la chiamano “discriminazione in base al prezzo”. Negli Stati Uniti è perfettamente legale e sta proliferando nell’economia globale.
Succede anche offline. Grazie allo sviluppo dell’analisi dei dati, i programmi di fidelizzazione dei supermercati e delle farmacie diventano sempre più sofisticati. La catena americana Safeway usa la storia dei vostri acquisti per proporvi offerte e coupon. «Si arriverà al punto in cui mettere i prezzi sugli scaffali sarà inutile, visto che sapremo personalizzarli in modo estremamente preciso», ha detto nel 2013 l’amministratore delegato Steve Burd, in un’intervista alla Associated Press. Nello stesso articolo Euan White, dirigente di una società che aiuta i supermercati a utilizzare i dati dei consumatori per aumentare i profitti, ha aggiunto: «Il prezzo sta diventando una questione fra rivenditore e consumatore: i programmi di fidelizzazione rappresentano solo il primo passo verso un costo individuale, che ognuno di noi negozierà con il venditore».
Perché le imprese da un mercato di massa tendono a spostarsi verso un mercato individuale? La chiamano “vendita 121”, nel senso di one-to-one: fanno a gara per accaparrarsi il surplus del consumatore, i soldi in più che ognuno di noi in realtà è disposto a pagare per un acquisto. Facciamo l’esempio delle patatine: un produttore vuol venderne un milione di pezzi, ma cosa vogliono i consumatori? Un terzo vuole solo delle patatine, senza stare tanto a guardare il prezzo o il gusto: è gente che ha fretta e prende quel che trova. Un altro terzo è disposto a pagare qualcosa in più ma solo se le patatine sono molto buone e di qualità eccellente; l’ultimo se ne infischia se sono buone o no, non vuole comunque spendere più di due dollari per una confezione grande.
Cosa accadrebbe se il produttore potesse parlare direttamente a ognuno di questi tre gruppi? Potrebbe offrire ai primi patatine di qualità inferiore al prezzo di tre dollari, al secondo una qualità migliore allo stesso prezzo e al terzo un pacco grande scontato a due dollari. Oggi è impossibile, quindi non è in grado di suddividere il mercato in segmenti: non può negoziare con ciascun cliente, deve comunque conquistare quel mercato da un milione di pezzi ed è dunque costretto a proporre a tutti patatine di prima scelta al prezzo fisso di due dollari a pacchetto.
Nel mass market, allora, a tutti e tre i gruppi di consumatori “indistinti” va meglio di quanto accadrebbe se fossero suddivisi in segmenti; il venditore non ricava profitti extra. Se non fosse così, il cliente ci rimetterebbe e il produttore otterrebbe un surplus.
È un assioma dell’economia: in una transazione, chi dispone di più informazioni guadagna di più. In passato i produttori potevano solo cercare di indovinare il prezzo che i consumatori erano disposti a pagare; ora possiedono strumenti che consentono di valutare quello massimo e quello minimo, oltre ai sistemi per imporre prezzi individuali. Per la prima volta nella storia le aziende hanno la possibilità di sapere tutto di voi e di spostare l’ago della bilancia in proprio favore.
Grazie ai big data con relativi strumenti di analisi, nonché all’assenza di efficaci salvaguardie della privacy, quelle stesse aziende sono in grado di ottenere, da ogni individuo e con precisione sistematica, un ulteriore margine di profitto. Se sanno quanto sei disposto a spendere e conoscono la tua disponibilità, riusciranno a farti
pagare il più possibile. Forse tutto quel che puoi.
I big data hanno inaugurato un nuovo ordine economico. Una singola gigantesca banca dati, o meglio una coalizione di più colossi, avrà un potere mai visto sull’opinione del consumatore, sulle offerte che riceverà, sul prezzo finale di servizi e prodotti. Diventerà l’intermediario di ogni transazione, farà incontrare i compratori ai venditori e si farà pagare molto, molto bene.
Poche aziende hanno una simile capacità: Google, Amazon o Facebook, per esempio, sanno – o possono desumere – non solo chi ma anche come tu sia, non solo dove tu sia ma anche dove tu stia andando. Le imprese che osservano quello che fai oggi, presto avranno un’idea abbastanza chiara di cosa farai domani. Poche altre imprese sono all’altezza di competere con il livello di informazione privata in possesso dei “data giant”: ciò significa che sono pronti a ribaltare l’economia di consumo. E con essa, interi sistemi industriali. O, forse, l’industria stessa.
Grazie alla loro conoscenza millimetrica e in tempo reale, le grandi banche dati personalizzeranno il commercio adattandolo alle preferenze e ai momenti dei singoli individui. La customizzazione dei prodotti e le restrizioni sui trasferimenti di denaro limiteranno il mercato della rivendita, fino a rendere impossibile ogni arbitraggio. Il mass market scomparirà e verrà sostituito da un mercato immensamente complesso e guidato dai flussi di dati, in cui i prezzi cambieranno di minuto in minuto e da individuo a individuo. Prodotti e servizi oggi standard si evolveranno in un arazzo multidimensionale di offerte personalizzate. Nasceranno ricchezze di dimensioni mai viste.
Sarà la fine dell’era del consumatore sovrano e dei prodotti standardizzati. Se l’uso dei big data non verrà limitato, sarà l’inizio di una nuova epoca: quella della “polverizzazione dei monopoli”, in cui enormi banche dati imporranno a popolazioni immense sia i prezzi che i livelli qualitativi, in tempo reale e su base individuale.
Ma non siamo obbligati ad accettare questa visione del futuro, a guardare impotenti multinazionali che, con enormi capitali, accumulano un’inconcepibile massa di informazioni che usano contro di noi nel mercato come nel mondo del lavoro, in modo da impossessarsi delle nostre attività. Il pubblico non deve accettare passivamente i termini e le condizioni che cercano di imporci: se acquisti in un negozio o in un sito web, si arrogano il diritto di spiarti come e quanto vogliono.
La domanda per tutti, in tutto il mondo, è: come ottenere un prezzo migliore? Il primo passo consiste nel comprendere la natura stessa dei dati, un elemento che – come l’aria o l’acqua che ci circondano – è non solo essenziale per il nostro stile di vita, ma anche per l’economia moderna. Al pari dell’inquinamento, le problematiche ambientali create dalle dimensioni dei dati sono sostanzialmente questioni di scala: se il tuo vicino alleva dei maiali, la puzza del letame può travalicare gli steccati e infastidire chi abita nelle zone circostanti. Si tratta cioè di un problema su piccola scala, cui nel tempo sono stati trovati i relativi rimedi legali. Ma cosa succede se il tuo vicino apre una fattoria a livello industriale con mezzo milione di maiali che producono quantità enormi di liquame? Il fetore diventa insopportabile, fino a impestare un’intera regione. La questione dunque non concerne più un singolo individuo che lede i diritti di un altro individuo: si tratta invece di una complessa questione ambientale causata da un’organizzazione commerciale che insegue il proprio profitto danneggiando la vita di una fetta significativa di popolazione.
Lo stesso succede con i dati. Oggi è possibile raccogliere, custodire e studiare a fondo non qualche, ma ogni informazione di un individuo: uno stato di cose che apre la strada ad abusi e danni mai visti prima. Dal dna alla cronologia delle ricerche in rete, i dati personali dipingono un ritratto estremamente intimo della nostra identità. Non rappresentano più un semplice dettaglio, una specie di ombra statistica noiosa e quasi inaccessibile che ci incombe sulla testa: ormai rappresentano un assillante problema ambientale. Perché, in pratica, i dati sono l’ambiente in cui viviamo: incomprensibili per la mente umana, le sequenze di uno e zero registrate nella memoria delle macchine svelano particolari avvincenti, tragici e a volte osceni della nostra vita. Il mondo intero è permeato di filosofia ambientalista: la limitazione dell’inquinamento, la conservazione delle terre vergini, la regolamentazione urbanistica, la protezione delle specie animali, il riciclaggio, l’efficienza energetica sono tematiche ormai condivise della vita moderna. Ogni nazione ha preso atto delle profonde sfide che ci attendono: le mutazioni climatiche, la crescita della popolazione, l’estinzione di specie animali, la distruzione degli habitat naturali.
Un simile livello di consapevolezza non sarebbe mai avvenuto senza un graduale processo di apprendimento, grazie al quale masse sempre maggiori di persone sono venute a conoscenza dei dati scientifici e hanno fatto loro tali preoccupazioni. Grazie alla politica, pur con le sue conflittuali dinamiche interne, la filosofia green si è trasformata prima in tema condiviso, poi in leggi che influenzano non solo il nostro comportamento, ma anche il modo in cui concepiamo il progresso.
Al contrario, se si parla di dati non v’è traccia di ecologia. Le idee ambientaliste in questo campo sono appena nate. Nel ventesimo secolo scrittori come George Orwell hanno delineato una struttura concettuale per riflettere sull’importanza dei dati nel contesto di uno Stato totalitario; ma finora la privacy non è stata una preoccupazione dal punto di vista economico o commerciale. In passato solo i grandi governi erano in grado di attuare un controllo di massa e solo i governi potevano trarre da questa conoscenza totale un beneficio che ne giustificasse almeno una frazione dei costi.
Non è più così. L’abbattimento dei costi di acquisizione e utilizzo dei dati a livello di massa ha aperto possibilità commerciali che vanno ben oltre l’attuale raggio d’azione governativo. La minaccia rappresentata dallo sfruttamento a fini commerciali di enormi quantità di dati è più impellente e, da vari punti di vista, più vasta dei potenziali abusi di Stato. Ogni realtà commerciale, per sua stessa natura, agisce per conto dei proprietari. Non ha alcun obbligo di creare prosperità diffusa.
L’ecologia dei dati inizia con l’istruzione. L’opinione pubblica deve conoscere la quantità di informazioni raccolte e quanto di esse sia possibile e legittimo sfruttare. Poi, la gente deve valutare le implicazioni in termini di aziende, di lavoratori, di consumatori; comprendere dove stia andando a parare la raccolta di dati su larga scala. Ci vorrà un’organizzazione. Ci vorrà un’azione collettiva.
Che ora può e deve cominciare: i vostri dati personali appartengono solo a voi e a controllarli dovreste essere solo voi. Non state ad aspettare che Google, la Federal Trade Commission o l’Unione Europea vi facciano un favore: appellatevi a principi legali assodati per impedire alle aziende di abusare della vostra privacy. Alcuni già cercano di farlo: io e il coautore del mio ultimo libro, D.T. Mongan, abbiamo creato uno strumento web chiamato “My User Agreement” per aiutare i consumatori di tutto il mondo a imporre propri termini e condizioni in ogni trattativa commerciale. Non ci aspettiamo di bloccare la raccolta dei dati su scala globale ma vogliamo adoperarci perché i dettagli delle nostre vite non vengano usati in modo scorretto.
È solo l’inizio, ovviamente. Senza limiti imposti da un movimento di base dei consumatori o dall’alto, tramite l’autorità, è virtualmente certo che tutte le allarmanti conseguenze descritte a proposito del ristorante del futuro accadano davvero, magari con metodologie differenti. Fortunatamente abbiamo a portata di mano molti strumenti che possono limitare l’abuso dei nostri dati personali. Tutto quello che dobbiamo fare è iniziare a usarli.
Anna Bernasek*
* Figlia di un ricercatore di Harvard nonché professore della Boston University, Anna Bernasek è nata nella capitale del Massachusetts nel 1968. Ha studiato a Sydney, in Australia, e all’Università del Michigan dove si è laureata in Economia nel ’90. Dopo cinque anni passati a trattare i mercati finanziari globali per il Sydney Morning Herald, ha iniziato a scrivere di business per Time Magazine; nel 1996 ha lavorato a Praga e a Budapest come equities analyst per una banca d’investimenti. Quindi è tornata negli Stati Uniti, dove ha accettato una borsa di studio della Woodrow Wilson School di Princeton e ha ottenuto un master in Public Policy, ha cominciato a collaborare con il Washington Post e, in qualità di commentatore, con la Cnn e la Cube. Nel 2004 è diventata opinionista del New York Times; nel 2010 ha firmato come autore il libro The Economics of Integrity e nel 2015, come co-autore insieme a D.T. Mongan, All You Can Pay: How Companies Use Our Data to Empty Our Wallets. È fondatrice di “The Integrity Partnership”, società di consulenza che assiste le aziende a imporsi in ambiti quali integrità e affidabilità.