Paolo Siepi, ItaliaOggi 16/12/2015, 16 dicembre 2015
PERISCOPIO
Quattro donne elette in Arabia Saudita. Ora arriva il difficile: scoprire chi sono. Gianni Macheda.
Alfa Romeo in Formula 1 contro la Ferrari: insomma, il nemico è in casa. Marchionne deve esersi iscritto al Pd. Il rompi-spread. MF.
In una guerra è sempre l’avversario che comincia. Francis Blanche, Pensèes, rèpliques et anecdotes. J’ai lu, 1996.
Oggi è difficile identificare il nemico. Non indossa più le tute mimetiche. Minidrink. Dino Basili.
La Boschi? Lei arriva in ufficio molto presto, ma ci messaggiamo dall’alba, dalla mattina, dopo le 6 lei già è operativa. E non è vero che la chiamiamo Meb, quella è solo la sigla che ha su Twitter. Noi la chiamiamo Mari. Anche Renzi risponde più spesso tra le sei e le sette, perché in quell’ora le cose sono più tranquille e ha più tempo libero, si controlla la rassegna stampa, per esempio. Ivan Scalfarotto, sottosegretario ai Rapporti col Parlamento. Un Giorno da Pecora, RadioRai2.
Le virtù degli adepti del nuovo dio Maastricht si misurano solo nelle cifre dei loro bilanci, in un Pentalogo, chiamato «parametri» (o criteri di convergenza) che fissa quali debbano essere «per sempre» i rapporti fra i cinque dati nei quali, in base al Trattato di Maastricht, è racchiusa la vita dell’umanità. Ida Magli, La dittatura europea. Rizzoli, 2010.
Lenin si creò un suo marxismo personale, nel quale figurarono sempre due principi mai abbandonati: rivoluzione e non riforme; dittatura e non democrazia, principi che gli vennero non per dottrina ma per istinto. Panfilo Gentile, Democrazie mafiose. Ponte alle Grazie, 1997.
Rileggo Le mie prigioni di Silvio Pellico. Libro splendido, perfetto. Ogni riga è meditata, calcolata con astuzia estrema. Accanto alla «Capanna dello zio Tom» è il più bel libro di propaganda politica che sia mai stato scritto. Per abbattere l’Austria, valsero più due capitoli della «Mie prigioni» che due reggimenti di Lamarmora. Leo Longanesi, Parliamo dell’elefante. Longanesi, 1947.
Ai soldi ho sempre guardato, sarà perché sono nato povero. Mio padre è morto quando avevo sei anni: ho solo qualche flash, sfocato, di lui. Mia madre aveva tre figli e ha dovuto lavorare sempre: siamo cresciuti così, un po’ per conto nostro. Ho fatto le medie, poi io ho fatto tutto da solo, perché a 14 anni e mezzo ho cominciato a lavorare. Sono stato assunto come il fattorino in un negozio di cristalli. Poi sono passato a una bottega di confezioni, intanto ho fatto un corso di vetrinista. Una cosa che mi ha poi aiutato anche in questo mestiere, perché fare una vetrina è come fare una prima pagina. Vittorio Feltri (Silvia Truzzi). Il Fatto.
Sono noto per il sollevamento da terra della tabaccaia pettoruta. Anzi, sono inchiodato per sempre a quella scena, lo so. Maria Antonietta Beluzzi era un talento naturale. L’hanno usata malissimo tutti, anche Adriano Celentano, che la sfruttò in Di che segno sei? per le sue forme giunoniche. Era un’umile camiciaia di Bologna che adorava Fellini. Lui, con la scusa di mostrarmi come andava girata l’azione, tuffava la faccia in mezzo alle sue tettone e a me lasciava il compito di caricarmela sulle spalle anche dieci volte. Bruno Zanin, il Titta di Amarcord di Federico Fellini (Stefano Lorenzetto). Panorama.
Nel Khanato di Maku regnava un tempo il saggio e potente Feth Khan. Nel suo palazzo le cimici contendevano il dominio alle pulci, il suo harem somigliava a un pollaio, e i poti e i pittori di corte supplivano alla mancanza di talento con un portamento molto solenne. Piera Graffer, La Maliarda. LoGisma.
Camminava su uno spesso tappeto di foglie marce. In mancanza di giardinieri, il parco non era tenuto in ordine. Jean Raspail, Sept cavaliers. Roberto Laffont, 1993.
Seduta davanti a Hervè Mille e alla giovane donna giornalista che lo aiutava, ho passato sei mesi a imparare, in concreto, il giornalismo. Mille correggeva. Soprattutto lo vedevo lavorare, scegliere gli argomenti, sistemare gli articoli, titolare, in breve, fare un giornale. Straordinario privilegio di cui non avevo alcuna coscienza. Françoise Giroud, Lecons particulières. Fayard, 1990.
La giornata di Mario era spaccata in due come una mela tagliata di netto: la rubrica alla radio al mattino, e i vagabondaggi nel pomeriggio. Per molti aspetti si sarebbe potuto paragonare a quella di un attore, attraversata com’era dalla linea d’ombra del sipario: da una parte la finzione e l’estro, dall’altra il quotidiano, con i pentimenti e i dubbi del vivere. Nantas Salvalaggio. Il salotto rosso. Mondadori, 1982.
Stavo avviandomi, quando un animale, che mi parve un orso, uscì dall’ombra e venne verso di me. Era un enorme cane di pelo scuro e folto, che mi girò intorno fiutando accuratamente, prima le mie gambe, poi la mia valigia. Dopo un lungo annusamento, se ne andò, perdendosi nel buio dal quale era venuto. Piero Chiara, Vedrò Singapore? Mondadori, 1981.
Ho 73 anni. Il mio futuro si conta adesso sulle dita di una mano, può essere di due. Un piccolo avvenire, insomma. Ma non è mai stato altrimenti. Dopo il mio ritorno dalla deportazione in Germania, vivo ogni giorno che comincia come se fosse l’ultimo giorno. La prospettiva della fine non restringe l’esistenza. Hélie de Saint Marc, Memoires. Perrin, 1995.
Sulle strade polverose che dalla Slesia e dalla Sassonia, attraverso cittadine e villaggi devastati dalle guerre napoleoniche, entravano in Polonia, passavano lunghe processioni di carri e birocci carichi di uomini, di donne, di bambini e di masserizie. Erano veicoli molto curiosi, quali ben di rado si vedevano per le strade della Polonia. Non somigliavano alle lucenti carozze dei nobili polacchi, e nemmeno ai carri dei contadini, lunghi e stretti, dai fianchi ingraticciati, e nemmeno quelli dei carrettieri ebrei, tutti rabberciati e circondati di secchi e secchielli dondolanti. Non somigliavano nemmeno alle maestose diligenze postali del governo, tirate da quattro cavalli e accompagnate da trombettieri. Altrettanto strani erano i finimenti, una moltitudine di redini, di briglie, di cinghie, sconosciute all’uso polacco. Ma più strani di tutto, per quei campagnoli, erano i viaggiatori. Israel J. Singer, I fratelli Ashkenazi. Longanesi & C., 1970.
Sette cavalieri abbandonarono la città al crepuscolo, davanti al sole che tramontava, dalla porta dell’Ovest che non era sorvegliata. Jean Raspail, Sept cavaliers. Roberto Laffont, 1993.
Del mio primo appuntamento non ricordo nulla. Neppure che fu il primo. Roberto Gervaso. Il Messaggero.
Paolo Siepi, ItaliaOggi 16/12/2015