Matt Ridley, Wired 12/2015, 16 dicembre 2015
I PADRONI DELLA RETE
La vera origine di internet non è fatta di tizi brillanti, né di aziende private, né di finanziamenti governativi. La vera origine della rete sta, come ha argomentato in modo assai convincente Steven Berlin Johnson, nell’open source, nel peer-to-peer, in una cosa quasi hippy, simile a una comune californiana degli anni Sessanta. «Come molte delle tecnologie fondamentali che sono arrivate a definire l’era digitale, internet è stata creata – e continua a essere plasmata – da gruppi decentrati di scienziati e programmatori e dilettanti (e da un bel po’ di imprenditori) che scambiano liberamente con il mondo intero i frutti del proprio lavoro intellettuale». Si tratta di gente che ha collaborato e collabora perché desiderava farlo, non perché è stata pagata per farlo, ed è anche gente ben poco interessata, o non interessata affatto, alla proprietà intellettuale. Le reti collaborative open source hanno dato origine a una grande porzione dei codici dai quali oggi dipende internet – e non solo internet, ma anche gli smartphone, i mercati azionari e gli aeroplani.
Il sistema operativo del computer sul quale sto scrivendo si basa su Unix, un sistema creato tramite collaborazione, ma non per il profitto. I server web che uso per le mie ricerche funzionano grazie al software Apache, un altro programma open source. Questo è, per prendere in prestito una frase di John Barlow, il dot-communism: una comunità di persone che condivide e scambia, e che partecipa a sforzi congiunti senza aspettarsi ricompense personali. Che magnifica ironia, che assurdo: dalle viscere del complesso militare e industriale da Guerra Fredda, negli Stati Uniti capitalisti, è emersa una tecnologia di «scambio intenso, vario e decentrato» che sta dando origine a qualcosa di molto simile all’ideale del marxismo, molto più simile rispetto alle creazioni dei regimi comunisti.
Nessuno è responsabile di internet, e ringraziamo il cielo. Però molte persone continuano a cercare di impadronirsi del comando. L’istinto gerarchico, che ci dice che per far funzionare il mondo dobbiamo avere piani centralizzati e comitati centrali, non smette mai di tentare di imporsi online. Gli autoritari cercano di erodere la libertà online. È certo che non vinceranno, però riusciranno comunque a trasformare parti del sistema in feudi gerarchici. Una battaglia chiave in questa guerra è stata lo Stop online Piracy Act presentato al Congresso americano nel 2011, dietro richiesta dei grandi studios di Hollywood e di altre aziende di media fondate sulla proprietà intellettuale.
Con un sostegno bipartisan e un grande incoraggiamento da parte della burocrazia di governo, che non cessa mai di inorridire di fronte all’anarchia della rete, la legge pareva indubbiamente destinata a passare. Ma un’inaspettata ribellione all’ultimo minuto, nel gennaio 2012, quando centinaia di siti web si sono oscurati in segno di protesta contro la proposta di legge, ha ucciso lo Stop online Piracy Act nel giro di una settimana.
La tradizione di quella che Vint Cerf chiama «innovazione senza permesso» è fondamentale per il successo di internet ed è sotto attacco, dichiaratamente, da parte di governi e di impiccioni che in tutto il mondo insistono sul fatto che l’innovazione debba chiedere permessi. L’Unione internazionale delle telecomunicazioni (Itu), un organismo delle Nazioni Unite che conta 193 membri, ha subito un’attività di lobbying da parte di parecchi governi che volevano che l’Itu estendesse il proprio controllo sulla rete, che avesse potere sulla registrazione dei domini e introducesse regole internazionali che vietino, per esempio, il ricorso all’anonimato. Il presidente russo Vladimir Putin è stato esplicito, il suo traguardo è quello di «stabilire per mezzo dell’Itu un controllo internazionale su internet». Nel 2011 la Russia si è unita a Cina, Tagikistan e Uzbekistan per proporre all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite un Codice internazionale di condotta per la sicurezza delle informazioni.
La questione è venuta al pettine nel dicembre 2012 in occasione di una riunione dell’Itu a Dubai, quando gli stati membri hanno votato a favore (89 contro 55) della concessione all’agenzia delle Nazioni Unite di un potere senza precedenti sulla rete, e la Russia, la Cina, l’Arabia Saudita, l’Algeria e l’Iran erano in prima fila in questo assalto. Anche se molti paesi si sono rifiutati di firmare il nuovo trattato, il capo della Federal Communications Commission americana ha fatto notare il grave danno inferto alla libertà di opinione nel mondo, perché le forze favorevoli alla regolamentazione sono già riuscite a cambiare il significato di alcune definizioni cruciali del trattato che erano state concepite allo scopo di isolare la rete dal controllo intergovernativo. E ha dichiarato che «l’appetito normativo dell’Itu è insaziabile».
In generale resto ottimista, credo che le forze dell’evoluzione avranno la meglio su quelle del comando e del controllo, e che la rete continuerà a garantire a tutti l’esistenza di uno spazio libero. Ma solo grazie all’ingegno umano si riuscirà a restare un passo avanti ai dirigistes. Forse il frutto più importante, più profondamente importante, saranno le monete digitali indipendenti dai governi: i bitcoin, o le crittovalute che verranno dopo di questi. E non si tratta solo di bitcash; è la tecnologia che sta dietro i bitcoin quella che potrebbe finalmente decentralizzare non solo internet ma l’intera società. La tecnologia blockchain che fa funzionare i bitcoin ha implicazioni che arrivano lontano. La storia ha inizio nel 1992, all’epoca in cui internet stava appena cominciando a emergere. Un ricco pioniere dei computer, tal Tim May, invitò a casa sua a Santa Cruz un gruppo di persone per discutere su come usare metodi crittografici sui computer in rete per abbattere le barriere della proprietà intellettuale e dei segreti governativi. Si autodefinivano “cypherpunk” e già vedevano come la tecnologia potesse rappresentare una minaccia per la libertà e un’occasione di libertà: un’opportunità per aprire il mondo, ma anche un’opportunità per lo stato di invadere le nostre vite. Il loro manifesto dichiarava: «Noi, i cypherpunk, ci dedichiamo alla creazione di sistemi anonimi. Difendiamo la nostra privacy per mezzo della crittografia con sistemi che inoltrano mail, con firme digitali, e denaro elettronico».
I nomi chiave di questo gruppo erano Adam Back, Hal Finney, Wei Dai e Nick Szabo. Nell’affrontare i problemi dei sistemi monetari anonimi e auto-organizzati, Back inventò un sistema chiamato hashcash, Dai propose il b-money, e Finney sviluppò un protocollo fondamentale chiamato “prove di lavoro riutilizzabili”. Fu Szabo quello che più approfondì la storia e la filosofia di questo argomento. Con una laurea in informatica e un dottorato in legge, si lasciò affascinare dalla storia del denaro, e scrisse un lungo saggio, nel quale esplorava più a fondo un’osservazione buttata lì dal biologo evoluzionista Richard Dawkins, ovvero che «il denaro è un gettone formale di altruismo reciproco ritardato» – ossia il denaro permette di ripagare favori indirettamente e in qualunque momento.
All’inizio degli anni 2000 Szabo stava riflettendo su una cosa chiamata bitgold, prodotto immaginario di un software che avrebbe imitato le proprietà dell’oro: il bitgold sarebbe stato scarso e difficile da ottenere, ma gli altri avrebbero potuto verificarne facilmente la genuinità, e quindi sarebbe stato affidabile come riserva di valore. Chiaramente stava cercando di trovare il modo di ricreare online i passi chiave nell’evoluzione del denaro reale.
Passarono alcuni anni. Poi nell’agosto 2008, un mese prima dello scoppio conclamato della crisi finanziaria, venne registrato anonimamente un nuovo dominio: bitcoin.org. Due settimane dopo, qualcuno che portava il nome utente di Satoshi Nakamoto postò un documento di nove pagine in cui esponeva l’idea di un sistema di denaro elettronico peer-to-peer chiamato bitcoin. Pochi mesi più tardi Satoshi annunciò sul sito della Peer-to-Peer Foundation: «Ho sviluppato un nuovo sistema di e-cash open source P2P che si chiama bitcoin. È completamente decentralizzato, non c’è un server centrale, non ci sono autorità, perché tutto si basa su una prova crittata. Provatelo, o date un’occhiata agli screenshot e alla carta del progetto». Satoshi invitava gli utenti a sfuggire «al rischio di inflazione arbitraria che si corre con le valute gestite in maniera centralizzata».
Bitcoin è di fatto un libro mastro pubblico, un compendio di transazioni, immagazzinate in tutto il mondo da chi usa questa moneta digitale. Per partecipare, uno crea effettivamente una parte di quel libro mastro, e lo condivide con altri come “blocco” crittografato. Questo fa sì che bitcoin sia infallibile e pubblico, è un registro dove si sa chi ha trasferito valuta a chi, e non ci sono banche o altri enti a verificare quanto succede.
Satoshi Nakamoto è in realtà uno pseudonimo. Il fondatore o i fondatori del bitcoin volevano restare anonimi, per ragioni abbastanza evidenti. In passato gli inventori di monete private sono spesso finiti in guai grossi, per via della gelosia degli stati. Bernard von NotHaus, per esempio, a partire dal 1998 ha coniato e venduto abbastanza alla luce del sole i suoi liberty dollars, monete d’oro che non si presentavano affatto come dollari falsi. Intendeva competere con la Federal Reserve nello stesso modo in cui Federal Express compete con le Poste: voleva solo offrire un deposito alternativo di valore. Dopo undici anni di tolleranza, all’improvviso e senza alcun segnale premonitore, il governo federale degli Stati Uniti ha fatto un blitz, lo ha arrestato e incriminato per falsificazione, frode e cospirazione ai danni degli Stati Uniti. Nonostante il fatto che i suoi clienti non fossero stati ingannati, e non avessero mai protestato, è stato condannato – in realtà per aver fatto concorrenza al governo federale. I governi non accolgono a braccia aperte il denaro che è fuori dal loro controllo. Ecco il perché della riservatezza del fondatore dei bitcoin.
Chi è Satoshi Nakamoto? Chiunque sia utilizza un nome giapponese, un indirizzo web tedesco, una gran quantità di frasi e riferimenti britannici, e a giudicare dall’orario dei post vive secondo orari americani (della costa orientale). L’unica regione high-tech che non sembra in alcun modo legata a Satoshi è la costa occidentale del Nordamerica, dove vive Nick Szabo. Un’analisi forense del suo stile, delle sue idiosincrasie, della sua probabile età e dei suoi schemi di attività ha condotto l’autore e attore Dominic Frisby e altri – compresa una squadra di quaranta linguisti forensi dell’Università di Birmingham – alla conclusione che dietro la figura di Satoshi Nakamoto probabilmente si nasconde Nick Szabo. Lui nega.
La volatilità e il comportamento “a bolla” dei bitcoin non ne incoraggiano l’utilizzo come valuta di riserva mondiale, come del resto la loro disponibilità, relativamente ridotta. E non è facile convincere molti commercianti, anche online, ad accettare i bitcoin. Il primo cambio di bitcoin, Mt. Gox, è crollato sotto un mucchio di frodi. E come se non bastasse i bitcoin si sono dimostrati assai popolari tra i trafficanti di droga, specie tramite un portale online chiamato Silk Road.
Così non trattenete il fiato, o non concludete che il bitcoin sia il futuro del denaro. Più che altro è l’inizio di qualcosa. E non c’è dubbio che le critto-valute evolveranno. Come sottolinea in relazione a Silk Road Kevin Dowd, professore di Finanza presso la Durham University: «Ogni fallimento opera come una pressione in senso evoluzionistico, elimina i siti più deboli e mostra agli altri gli errori da evitare. Tagli una testa, e ne spuntano altre al suo posto: Silk Road 2.0 è già nata e operativa».
Proviamo solo a immaginare che cosa succederebbe se le crittovalute decentralizzate dovessero decollare sul serio. Se la gente cominciasse a usarle per i propri risparmi, e le società finanziarie cominciassero a offrire prodotti interessanti basati sulla crittovaluta, i governi vedrebbero diminuire di molto il proprio spazio di manovra. Non potrebbero contrarre prestiti in modo selvaggio, o tassare rapacemente, o spendere liberamente senza essere costretti a guardarsi alle spalle, senza vedere quali effetti potrebbe avere sulla valuta di Stato nella guerra contro (per esempio) il bitcoin. Frisby pensa che questo costringerebbe lo stato a tassare i consumi piuttosto che la produzione, ed espellerebbe dal sistema l’inflazione. Soprattutto metterebbe fuori gioco le grandi banche, cancellando la distorsione che ha fatto sì che gran parte della ricchezza mondiale finisse concentrata in un’unica industria. Jeff Garzik, uno sviluppatore di bitcoin, la definisce, «la cosa più grossa da quando è nata la rete – un catalizzatore per il cambiamento in ogni area delle nostre vite».
La tecnologia blockchain che sta dietro il bitcoin potrebbe rivelarsi un ingrediente di un mondo tecnologico interamente nuovo, grande come la stessa internet, un’ondata di innovazione in grado di eliminare l’intermediario da gran parte del commercio e di lasciarci molto più liberi di scambiare beni e servizi con gente in tutto il mondo senza passare per intermediari corporativi. Potrebbe decentralizzare radicalmente la società stessa, liberandoci dal bisogno di avere banche, governi, e perfino aziende e politici.
Prendiamo a esempio Twister, un rivale di Twitter basato sul blockchain, costruito interamente su una rete peer-to-peer. Se vivi sotto un regime dispotico, mandare su Twitter un messaggio critico rispetto al tuo governo ti espone perché il governo può costringere Twitter, l’azienda, a fornire i tuoi dati. Con Twister questo non sarà possibile. Poi c’è Namecoin, che punta a rilasciare nomi internet in maniera decentralizzata, peer-to-peer; Storj, che progetta di consentire un’archiviazione su nuvola di file nascosti dentro blockchain; ed Ethereum, che è una rete peer-to-peer decentralizzata «studiata per rimpiazzare qualsiasi cosa che possa essere descritta con un codice», per usare le parole di Matthew Sparkes. L’esperto digitale Primavera De Filippi vede Ethereum e affini presentarsi con contratti smart, che consentono di avere organizzazioni diffuse e autonome, che una volta dispiegate sulla blockchain, «non hanno più bisogno dei loro creatori, e non danno più retta ai loro creatori».
In altre parole, potremmo avere non solo auto senza guidatore, ma anche aziende senza“padrone. Immaginiamo in un futuro di chiamare un taxi che non solo è privo di conducente, ma appartiene a una rete informatica, non a un essere umano. Questa rete ha raccolto fondi, formato contratti e ritirato i veicoli, anche se il suo quartier generale è diffuso in rete. Questo rappresenterebbe il trionfo dei sistemi decentralizzati, autonomi e in evoluzione. Significherebbe che il software è riuscito dove hanno fallito i regolamenti, per dirla con Andreas Antonopalos di Blockchain.info. Lui sostiene che, a differenza dei sistemi centralizzati, le istituzioni decentralizzate sono resilienti e incorruttibili. «Non c’è un centro, non ci sono opportunità per la corruzione. Credo che sia un progresso naturale, per l’umanità».
Matt Ridley*
*Nato nel 1958, è il quinto Visconte Ridley. Giornalista e scrittore con diversi libri sulla scienza e la tecnologia al suo attivo è anche imprenditore e membro conservatore della Camera dei Lord. Tra le opere che più lo hanno reso celebre La regina rossa, Genoma e Un ottimista razionale. È membro della Royal Society di letteratura e dell’Accademia delle scienze mediche e membro onorario dell’Accademia delle scienze americane.
Ha frequentato il college di Eton e il Magdalen College di Oxford laureandosi con lode in Zoologia e completando il dottorato nello stesso campo nel 1983. La sua TedTalk, Quando le idee fanno sesso, sull’esistenza di una mente collettiva e globale ha avuto più di due milioni di visualizzazioni. Dal 2004 al 2007 è stato presidente della Northern Rock, la prima banca britannica a essere travolta dalla crisi finanziaria e successivamente salvata dal governo di Londra.
Il suo ultimo libro, non ancora pubblicato in Italia, è The Evolution of Everything, How New Ideas Emerge (Harper, 2015) di cui pubblichiamo un estratto.