VARIE 14/12/2015, 14 dicembre 2015
APPUNTI PER GAZZETTA - VERSO UNA SOLUZIONE IN LIBIA
PEZZO DI STAMATTINA DEL CORRIERE DELLA SERA
ROMA Forse c’è luce in fondo al tunnel della crisi libica. Forse può essere fermata la spirale distruttiva che sta inghiottendo il Paese nordafricano, stritolato tra l’incudine della guerra civile e il martello dell’infezione jihadista. Dalla Conferenza di Roma, voluta e organizzata dalla diplomazia italiana con l’appoggio degli Stati Uniti, viene un impegno forte della comunità internazionale a favorire e sostenere in tutti i modi il fragile processo di riconciliazione tra le fazioni libiche, messo in moto grazie alla mediazione dell’Onu.
Firmato da ministri e inviati di 17 Paesi e di 4 organizzazioni internazionali, fra cui l’Unione europea e la Lega Araba, il comunicato finale dell’incontro invita tutte le fazioni ad «accettare un immediato cessate il fuoco» e a sottoscrivere l’accordo per un governo di unità nazionale, la cui firma è prevista mercoledì prossimo in Marocco.
«Il messaggio di oggi è chiaro — ha detto il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni —, la cosa che conta è la stabilizzazione della Libia, perché può contribuire alla lotta contro Isis-Daesh». «Conflitto e instabilità in Libia sono andati avanti per troppo tempo — gli ha fatto eco il segretario di Stato americano, John Kerry —, non possiamo più stare a guardare un vuoto che rischia di essere riempito dai terroristi».
Il piano mediato dall’inviato speciale delle Nazioni Unite, Martin Kobler, prevede la creazione entro 40 giorni di un esecutivo di unità nazionale, che sarebbe poi legittimato a chiedere garanzie di sicurezza e assistenza economica all’esterno. Le parti libiche avrebbero cioè fino a febbraio per creare un consiglio presidenziale, che nominerebbe il governo, i nuovi vertici della banca centrale e dell’ente petrolifero nazionale, avviando intanto il delicato rientro di tutte le istituzioni del Paese a Tripoli, oggi sede della fazione islamista, sostenuta da Qatar e Turchia. Il governo e il Parlamento internazionalmente riconosciuti, che hanno in Egitto ed Emirati Arabi i loro grandi sponsor, siedono invece a Tobruk. L’accordo prevede anche il prolungamento di un anno del mandato parlamentare, con un ulteriore estensione di un altro anno se necessario. Una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu è pronta per l’adozione, non appena l’intesa verrà siglata.
Il vero fatto nuovo del vertice romano è che per la prima volta i grandi «burattinai» della crisi libica — Arabia Saudita, Qatar, Turchia, Emirati, Egitto, tanto per non fare nomi — abbiano finalmente preso un impegno concreto a esercitare la loro influenza per convincere anche i loro «protégé» a sottoscrivere l’accordo. Non è solo compito loro, ovviamente. E a tutti i protagonisti del vertice di ieri tocca lavorare in questo senso.
Ma come ha spiegato Gentiloni, solo «se questo impegno verrà mantenuto da tutti con coerenza», si potrà parlare di «una svolta nella crisi».
Non sarà un processo semplice e non è detto che finisca bene. Respinto da alcune fazioni in ottobre, l’accordo incontra ancora resistenze. I delegati libici, che ieri pomeriggio hanno raggiunto i ministri per il giro di tavola finale, rappresentano solo una parte dei due Parlamenti rivali e gli indipendenti delle comunità locali. Nessuno di loro può oggi promettere che i loro colleghi a Tripoli e Tobruk accetteranno l’intesa.
Ma il senso di urgenza imposto dalla crescente presenza delle bande jihadiste sulla costa intorno a Sirte può essere il catalizzatore di cui c’è bisogno: «La Libia è in corsa contro il tempo, il suo tessuto sociale, la sua unità nazionale e integrità territoriale sono direttamente minacciate dalle forze del terrore», ha detto Kobler.
Paolo Valentino
VINCENZO NIGRO
ROMA.
La diplomazia si misura anche interpretando i suoi riti nascosti. «Non c’è stato bisogno di riscrivere il comunicato finale, quello preparato dall’Italia con gli americani: alla fine tutti i ministri erano d’accordo », dice il responsabile della Farnesina Paolo Gentiloni.
Significa che il lavoro preparatorio degli italiani, la pressione fortissima degli Stati Uniti, della Russia hanno convinto perlomeno a una tregua i Paesi regionali che in Libia da mesi si combattono per procura: Turchia e Qatar, Arabia Saudita ed Emirati hanno sul campo libico i loro alleati, che armano e “manovrano”. Forse perché impegnati allo spasmo sul fronte siriano/iracheno, per il momento si sono impegnati ad appoggiare la pace in Libia.
La conferenza sulla Libia di ieri a Roma è stata un passo importante, che il premier Matteo Renzi definisce «una speranza e un successo diplomatico per l’Italia».
Questi i punti importanti: il 16 dicembre in Marocco le fazioni libiche firmeranno l’accordo per la nascita del nuovo governo proposto dal vecchio mediatore Onu Bernardino Leon in ottobre.
Il segretario di Stato John Kerry annuncia poi che entro 40 giorni quel governo dovrà entrare pienamente in funzione. E precisa che siederà a Tripoli, in quella che se tutto andrà bene tornerà ad essere l’unica capitale di una Libia più decentrata, in cui le autonomie locali avranno maggior ruolo. Entrerà in vigore un cessate-il-fuoco e verranno aperti dei corridoi umanitari per assistere la popolazione. Soprattutto a Bengasi, dove la situazione è di emergenza totale.
Paolo Gentiloni fa notare che la svolta più decisiva è maturata quando John Kerry in persona, e quindi l’amministrazione Obama, hanno deciso di ritornare a impegnarsi sulla Libia, di non tenersi più distaccati in attesa che gli eventi portassero chissà a che cosa. L’Italia ha fatto capire a Kerry che senza l’appoggio pesante degli Usa ogni idea o invenzione diplomatica italiana sarebbe stata debole. E Kerry spiega che nella divisione dei compiti «Gentiloni ha fatto pressioni su molti altri Paesi a muoversi con più velocità e con un maggior senso di urgenza sulla Libia, che è nel Mediterraneo, proprio al di là delle coste italiane».
Altro elemento che l’Italia ha analizzato in maniera “non convenzionale” è il fattore-Daesh. «Gli attacchi di Parigi, i nuovi bombardamenti in Siria/Iraq, l’allargarsi del Daesh in Libia congiuravano per una sola pericolosa evoluzione», dice un diplomatico che segue i negoziati. «Sarebbero state possibili azioni militari unilaterali di Paesi europei in Libia contro il Daesh, prima della formazione del governo. Un disastro, avrebbe significato creare una nuova Siria fuori controllo, in cui Daesh e mille altri gruppi jihadisti si sarebbero uniti e avrebbero prosperato per anni». E non è detto che il pericolo sia scongiurato: come dice Ludovico Carlino, senior analist dell’IHS a Londra, «è probabile che il prossimo colpo terroristico del Daesh sia in programmazione, e se lo faranno ci terranno a far sapere che è stato lanciato proprio dalla Libia».
Tra l’altro Kerry e il comunicato finale avvertono i potenziali spoilers, i sabotatori che vogliono far saltare l’accordo, che per loro sono pronte sanzioni Onu. «I responsabili della violenza e coloro che impediscono e minacciano la transizione democratica devono essere chiamati a rispondere delle loro azioni», dice il comunicato finale.
Martin Kobler, il nuovo inviato Onu, è realistico: «Ci vorranno mesi, anni per una vera pace e una vera stabilità, ma il treno è partito». Vedremo quanti libici sceglieranno di salirci sopra e quanti invece proveranno a farlo saltare per aria.
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ANTONELLA RAMPINO
Un deciso passo in avanti per la Libia. Non solo «tra 40 giorni avrà un governo di unità nazionale», come dice John Kerry, ma c’è il via libera di Russia e Cina a una risoluzione Onu per un intervento umanitario e per la sicurezza e la stabilizzazione, che verrà presentata al Palazzo di Vetro sin dal giorno dopo la firma dell’accordo per il governo, prevista il 16 a Skhirat in Marocco.
Obiettivo raggiunto
Il risultato, al quale si è lavorato freneticamente nelle bilaterali ai margini della conferenza Med2015, è stato raggiunto ieri nel vertice sulla Libia convocato da Paolo Gentiloni alla Farnesina. Diciassette ministri e 4 organizzazioni multilaterali hanno firmato il documento congiunto nel quale, spiega il ministro italiano, «sostengono l’accordo che si firma a Skhirat, accelerando la soluzione della crisi libica davanti alla minaccia del Califfo, e gli stessi leader libici presenti qui a Roma hanno preso l’impegno a rafforzare in Libia la base dell’accordo». Riconoscendo, dettaglio non da poco, le istituzioni libiche nuove e non le precedenti.
Il metodo «Vienna»
«Impressionante vedere il ministro del Qatar assieme a quello dell’Egitto, il turco a fianco del saudita», commenta una fonte diplomatica che ha partecipato ai lavori: si tratta dei Paesi che si fanno la guerra per procura in Libia, facendo da Lord protettori alla diverse fazioni che hanno sin qui osteggiato ogni accordo. Il metodo è lo stesso utilizzato a Vienna per la Siria: con la presenza forte della comunità internazionale, Stati Uniti, Russia, Europa, Cina, si sono messi attorno al tavolo i protagonisti, inducendoli ad assumersi le proprie responsabilità, davanti al pericolo dell’Isis, la «minaccia terroristica globale» come la si definisce nel documento finale.
Ma determinante è stata la presenza al vertice di Roma dei leader libici. E chi sarebbero?, chiede provocatorio all’inviato speciale dell’Onu per la Libia Martin Kobler (che a Roma ha avuto la sua prima uscita pubblica) il giornalista della tv del Qatar, Al Jazeera. «Sono i leader politici della Libia, i sindaci, i rappresentanti indipendenti», ha risposto Kobler. Non a caso sia Kerry sia Gentiloni hanno sottolineato che «è il popolo libico a chiedere un governo di coesione nazionale»: al vertice di ieri hanno partecipato i due leader di Tobruk e Tripoli, Shoeib e Makzoum, e i rappresentanti di 6 formazioni indipendenti, una di loro era una donna. Shoeib e Makzoum sono i vice, moderati, del Gnc di Tripoli e dell’Assemblea di Tobruk: i presidenti di entrambi gli organismi hanno posizioni molto più estremiste, e hanno sin qui rifiutato di sottoporre al voto parlamentare l’accordo per il governo di coesione nazionale.
Per questo, il 16 a Skhirat, Kobler punta ad avere per la firma almeno un paio di centinaia di rappresentanti.
Certo, è una base fragile in un paese devastato da 4 anni dalla violenza e nel quale, a Sirte, si è insediato il Califfato. Chi è contro si farà sentire, e la comunità internazionale ne è consapevole. Anche per questo il documento siglato ieri chiede l’immediato cessate il fuoco. Kerry ha diffidato dal remare contro, «chi danneggerà l’accordo pagherà il costo delle proprie azioni», ricordando che se non si procederà rapidamente sulla via della stabilizzazione politica il vuoto sarà riempito dal Califfato. Per l’Italia è una doppia responsabilità. L’iniziativa italiana sulla Libia ha segnato il ritorno alla centralità della nostra politica estera, e il vantaggio della diplomazia sul ricorso alle armi propugnato da Francia e Germania, indubbiamente un bel successo. Ma saremo in prima linea anche se qualcosa non dovesse andare per il verso giusto.