Alessandro Alciato, Wired 12/2015, 11 dicembre 2015
L’INTELLIGENZA NEL CALCIO SONO IO
[Carlo Ancelotti]
Chiudo gli occhi e non mi addormento. Né sogno. Chiudo gli occhi e vedo oltre. Vado oltre, anche. Al di là del buio abita il futuro, dicono, e allora voglio arrivarci prima. Scoprirlo, se possibile costruirlo, di certo non esserne travolto. Sarà un’Apocalisse tecnologica, un controsenso molto interessante: la fine di tutto e allo stesso tempo l’inizio di tutto, il concetto di ieri che riparte oltre il domani.
Il calcio tornerà nelle mani degli uomini. Vivrà delle loro idee, si ciberà della loro esperienza, si riprodurrà all’infinito, fra campi verdi e computer spenti. Distese di tastiere bruciate renderanno cupo il paesaggio, eppure i pensieri si salveranno, crescendo a dismisura. La cenere non lì coprirà di polvere, rendendoli obsoleti: al contrario lì concimerà, regalando loro l’immortalità (ma non l’immoralità).
Verrà finalmente un giorno in cui tutti gli allenatori del pianeta, soprattutto quelli dei più grandi club, scopriranno che per attraversare il cammino del tempo sarà necessario correre all’indietro. So bene qual è il segreto, lo conosco, è qui, chiaro davanti a me, in questo viaggio alla ricerca di ciò che quel giorno accadrà.
Per vincere, per capire quale formazione schierare, per arrivare sempre e comunque primi, sarà sufficiente un martello – lo strumento meno all’avanguardia che si conosca. Oppure una clava, che rende meglio l’idea: soprattutto quella del distacco da una routine pericolosa e da un’epoca all’apparenza senza fine. Noi la stringeremo in mano e colpiremo, con forza. I pc. Le stampanti. Le telecamerine che riprendono gli allenamenti a bordocampo. I cardiofrequenzimetri legati intorno al petto dei calciatori. I gps nascosti nelle loro canottiere. Provocheremo un infarto ai cuori artificiali, faremo andare fuori strada i navigatori satellitari, li espelleremo dai nostri corpi. Poi bruceremo i fogli con i grafici, sarà il falò della vanità. La nostra.
Vedo un mondo in cui l’intelligenza reale riprenderà il dominio su quella artificiale, un posto tutto nuovo che assomiglierà a quello dei nostri nonni, all’interno del quale le esperienze che abbiamo maturato e le conoscenze che abbiamo messo in cassaforte prenderanno il sopravvento. Conteremo noi. Solo ed esclusivamente noi (insieme ai nostri collaboratori). Nessun robot all’orizzonte o, meglio, niente più robot là in fondo, dove sono appoggiate le nuvole. Prima la puzza di bruciato, poi il profumo dei fiori che nascono dove meno te l’aspetti.
Fino a oggi molti di noi si sono affidati allo studio e alla raccolta dei big data che si dividono in due tipi: tecnici e fisici. Il dato tecnico ci spiega per esempio quanti passaggi oppure quanti tiri in porta, o ancora quanti colpi di testa si effettuano nel corso di una partita. Quello fisico, invece, riguarda aspetti come i metri che un giocatore percorre, a quale velocità, con quante accelerazioni o decelerazioni: è oggettivo, abbastanza interessante ma non troppo, utile negli allenamenti per calcolare il carico di lavoro da proporre alla squadra, tenendo sempre ben presente il fatto che ci si allena molto con il pallone tra i piedi.
Il primo, il dato tecnico, lascia il tempo che trova, anche se mi verrebbe voglia di gridare che ci troviamo di fronte a qualcosa di totalmente inutile. Viene studiato e catturato solo nel momento in cui il calciatore ha la palla fra i piedi, ma la palla fra i piedi ce l’ha al massimo per novanta secondi su novanta minuti. Un po’ pochino, una miseria. Non è correlato al risultato finale della partita, perché non è detto che se collezioni un possesso palla del 60 per cento e fai 30 tiri in porta, alla fine sarai tu il vincitore. Magari gli avversari se la cavano con un autogol e finisce 1-0 per loro.
L’unico dato tecnico direttamente legato al risultato, quindi il solo interessante e da prendere in considerazione, è il gol. Non sono mai stato un ultrà della tecnologia applicata allo sport, quantomeno al nostro. Do un’occhiata senza entusiasmarmi. Al Real Madrid avevamo un ingegnere che raccoglieva tutti i dati, poi li forniva al preparatore atletico che con me li valutava per organizzare un giusto programma di lavoro. Odiavo invece quando il reparto medico del club decideva di filmare gli allenamenti degli infortunati. Per esempio quelli di Jesé, per restare a uno degli ultimi casi famosi: si trattava di momenti strettamente privati, che tali avrebbero dovuto rimanere.
Magari a un calciatore scappa una lacrima mentre corre, se durante l’allenamento le aspettative di recupero non si tramutano in fatti. Le macchine sono prive di sensibilità e la loro presenza rischia di diventare la nostra sconfitta. Perché io so come comportarmi di fronte a un ragazzo in difficoltà emotiva, loro no. Non si spengono. Non perdonano. Inibiscono. E deprimono. Il gruppo di lavoro con le telecamere in mano, per noi dello staff tecnico, era “la Metro Goldwyn Mayer’’. I medici vivono nel loro mondo, c’è un conflitto di interesse palese: noi rivogliamo i malati il prima possibile, loro tendono ad allungare i tempi di recupero per ripararsi da eventuali accuse in caso di ricaduta.
Quando guidavo il Chelsea, Florent Malouda, centrocampista francese, non voleva saperne di farsi mettere addosso un gps e il cardiofrequenzimetro. Non capiva che i big data che venivano raccolti quelli fisici, non quelli tecnici, inutili sarebbero poi stati usati in qualche modo per non sbagliare i carichi di lavoro: li considerava un’invasione pericolosa, una forma di controllo non autorizzata esercitata dall’allenatore. Una violenza non contemplata dal contratto. È stato un ribelle, il primo protagonista del ritorno al futuro calcistico; ha dato un segnale sottile, impercettibile, che nei prossimi anni evolverà e diventerà una valanga.
So che esistono colleghi allenatori che decidono addirittura la formazione basandosi sui dati. Li considero dei matti: se ti fornisce maggiori garanzie da un punto di vista tattico, puoi anche mandare in campo un giocatore che non sta al cento per cento. Nella finale di Champions League del mio Milan, nel 2007 allo stadio Olimpico di Atene, nonostante fosse un rottame più a pezzi di un puzzle, ho schierato Pippo Inzaghi dal primo minuto: abbiamo vinto grazie a lui, ma se avessi ascoltato i sussurri dei computer e di chi da loro si fa guidare, probabilmente ciò che abbiamo vissuto non sarebbe accaduto. Sarebbe stato archiviato alla voce “desideri impossibili”. So che si andrà avanti, che ci sarà un’evoluzione, che i gps diventeranno sempre più piccoli e verranno integrati nei cerotti, che da lì partirà un impulso verso uno schermo di qualche ufficio, che inizierà a lampeggiare. I medici esulteranno; io ci vedrò una sirena che suona l’allarme, loro invece una lucina che indica la via e si affideranno totalmente a ciò che quel cerotto racconterà. Con il medico del Real Madrid ci ho litigato, per esempio: non può essere un cervello artificiale a obbligarci a fare delle cose.
Il calcio è imprevedibile, come un terremoto, e davanti all’imprevedibilità o ti rassegni o ti ingegni affidandoti all’istinto, a ciò che hai imparato, a quello che sai o che senti. Alla tua umanità. Un allenatore può inventare sempre qualcosa di nuovo, mai esisterà un calciatore con le stesse caratteristiche di un altro. Starà a noi trovare la maniera migliore per integrare l’uno con l’altro, per permettere loro di rendere al meglio, al cento per cento. Cambieranno i ritmi del gioco, aumenteranno la velocità e l’intensità, si dovrà andare per forza incontro a un’evoluzione degli allenamenti. Meno lunghi e più intensi. Lo so, sapremo gestire il cambiamento senza aiuti. Quello del futuro sarà un allenatore meno pratico e più teorico, a causa del numero di partite sempre crescente. Da un punto di vista tattico non ci sarà bisogno di allenarsi troppo sul campo: se non lavori con la stessa intensità che poi troverai in partita, il calcio è solo didattica e la didattica la puoi fare alla lavagna. Senza tastiera.
Apro una parentesi sulla video analisi. In un lavoro teorico, lo studio degli avversari davanti a un televisore assume un certo peso: è una tecnologia che non si intromette nel nostro lavoro. È il telecomando di casa trasportato in ufficio, un aiuto non invasivo. A pensarci bene, neppure quello è fondamentale o lo diventerà. Posso dire io a Cristiano Ronaldo come muoversi quando è davanti alla porta? O a Luka Modrić che invece di calciare di esterno destro deve tirare di interno sinistro? Forse sì, ma proprio non voglio. Se mai, a entrambi posso indicare il migliore posizionamento in fase difensiva, tutto lì: i dati tecnici, in tal senso, servono più o meno a nulla. So che anche José Mourinho la pensa come me.
Io sono contro. Contro le interferenze tecnologiche che vogliono controllarmi il battito del cuore. Infatti, a occhi chiusi, penso al pallone e sento un treno dentro al petto, senza bisogno di cardiofrequenzimetro. So dove andremo a finire, non mi serve il gps per vederlo. Sono un uomo, non una macchina, quindi posso essere felice. Se Cristiano Ronaldo in campo sta fermo al suo posto, senza toccare palla, sullo schermo del computer appare un puntino: niente da segnalare, nessuna notizia all’orizzonte, calma piatta, almeno all’apparenza. Però se Cristiano Ronaldo in campo sta fermo al suo posto, senza toccare palla ma nel frattempo sorride, io me ne accorgo, il mio competitor artificiale no. So cosa sta per accadere, anche se non sono più il suo allenatore. Si sta per scatenare l’inferno.
Sta per iniziare l’Apocalisse.
* A 56 anni – è nato a Reggiolo (Reggio Emilia) nel 1959 – è uno dei migliori allenatori del mondo. Da centrocampista di Parma, Roma, Milan e per 26 volte della Nazionale, ha vinto 4 Coppe Italia, 3 campionati, 2 Coppe dei Campioni, 2 Supercoppe Uefa, 2 Intercontinentali. Nel ’95 passa dal campo alla panchina come vice di Arrigo Sacchi in Nazionale e nel 1996 porta in A la Reggiana. Due anni al Parma, altrettanti alla Juventus (un amore mai consumato). Al Milan, dal 2001 al 2009, vince tutto: uno scudetto, una Coppa Italia, una Supercoppa, 2 Champions, 2 Supercoppe Uefa e un Mondiale per club. Alza trofei ovunque. Un Community Shield, una Coppa d’Inghilterra e uno scudetto in due stagioni al Chelsea. Un campionato al Paris Saint-Germain. Una Coppa di Spagna, una Champions, una Supercoppa Uefa e un Mondiale per club al Real Madrid. Oltre a fare il papà, il nonno e l’allenatore è anche attore: ha interpretato se stesso ne L’allenatore nel pallone 1 e 2 con Lino Banfi e in Mezzo destro mezzo sinistro con Gigi e Andrea; poi Don Camillo con Terence Hill. Nel prossimo Star Trek Beyond, interpreta un medico che esegue l’autopsia di un alieno.