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 2015  dicembre 05 Sabato calendario

DI COSA CAMPA ROMA


«Il Giubileo è alle porte. Non rendere immobile il tuo profitto». Volantinato nelle cassette postali da un’agenzia immobiliare romana, il business porta a porta dell’anno santo va sul classico: affitta una stanza al pellegrino. Affare ben minuscolo, rispetto alle maiuscole del grande evento: Giubileo, Capitale, Misericordia. E anche i 200 milioni alla fine scuciti dal governo – a sindaco morto – sono una miseria, rispetto al miliardo e mezzo del 2000. E stavolta chi sbarca nella capitale trova una città che produce, per ogni abitante, il 30% in meno di Milano. Ma quello del Pil è solo un indizio di un evento più grande: la fine delle rendite su cui la città ha sempre vissuto. Nel bene e nel male.
Se arriva dal mare, e fa la Cristoforo Colombo, il nostro pellegrino è subito accolto da una serie di vuoti. Il primo è quello spettrale delle due torri dell’Eur, grattacieli sventrati delle Finanze, per i romani “Beirut”. Dopo anni di tira e molla, dovrebbe andarci Telecom, ma per ora sono due scheletri di cemento nel cielo. A pochi metri c’è un altro vuoto, quello dell’incompiuta della Nuvola di Fuksas. Una manciata di chilometri intasati di traffico, ed ecco subito il terzo vuoto a perdere sull’arteria: la ex-Fiera di Roma, gigantesca area quasi centrale, invenduta e abbandonata. Mentre la nuova Fiera langue sul raccordo anulare, utilizzata assai sotto le potenzialità. Meglio andare direttamente per basiliche, a quel punto. Perché, a volerlo proseguire, il giro delle incompiute di Roma è impegnativo: gli ex Magazzini generali in cerca di destinazione, la stazione Tiburtina che doveva diventare un hub urbano e sembra un centro commerciale vuoto nel deserto, la Vela di Calatrava (semi)costruita per i Mondiali di nuoto, i giganteschi cantieri della Metro C che vanno per le lunghissime...
Ognuna di queste opere ha una sua storia, le sue centinaia di milioni già spesi, quasi sempre il suo processo penale. Tutte insieme, sono lo skyline perfetto di una città che si vede senza testa e senza progetto, nella quale i vuoti prevalgono sui pieni e sulla quale vigileranno, fino a giugno due funzionari degli Interni. Così è ridotta Roma, con la grande corruzione finita a ravanare nella terra di mezzo dei Carminati, con due papi e nessun sindaco, il Pil in picchiata, i palazzinari in fuga e l’immaginario precipitato dalla grande bellezza a suburra in meno di due anni?

Più case meno cose
Ma a volte le immagini ingannano, soprattutto in una città alla quale basta un niente per passare dall’autoesaltazione alla depressione. I numeri però stavolta confermano, e consentono di vedere meglio dove sono nati i vuoti. Cominciamo con il derby con Milano: il prodotto pro capite della capitale della finanza è sempre stato più alto che a Roma, certo. Ma adesso siamo a 45 mila contro 31 mila, dunque per ogni abitante Roma produce il 31% in meno di Milano. «Nel 2007 la differenza tra le due città, in termini di prodotto pro capite, era solo del 13%, ora è quasi triplicata», nota Giuseppe Roma, per anni direttore generale del Censis e adesso animatore della rete Rur (osservatorio su realtà urbane e loro rappresentanze). Che c’è stato, nel mezzo? La crisi, certo – quella stessa che, al di là dei demeriti del personaggio, è alla base dei disastrosi numeri economici degli anni di Alemanno rispetto a quelli in confronto luccicanti dei suoi predecessori. Ma la crisi c’è stata per tutti. Anzi, in termini di prodotto complessivo e di occupazione, ha colpito più duro a Milano. «Il fatto è che mentre a Milano si faceva Porta nuova qui si facevano solo case, tante case». I giganteschi quartieri di metà degli anni 2000, nei quali la cifra di ogni costruttore ricorre qua e là, a ridosso del Grande Raccordo Anulare (Gra): i balconcini coi fascioni bianchi delle case di Caltagirone, quelli con la“ics”di Bonifaci. Perché per capire come campa Roma, è bene partire da dove campa: dunque da quella città cresciuta fuori, che ha portato a vivere oltre la cintura del Raccordo il 26% degli abitanti – più di 700 mila, erano il 13% alla vigilia del Giubileo del 2000. Quasi tutti gravitanti verso la città, che dal canto suo li accoglie con un sonoro “arrangiatevi”: il numero di autobus per abitante è pari a 60 km/vetture. Lo stesso indice, che misura la capacità del trasporto pubblico è pari a 83 a Milano.
E cosa vengono a fare a Roma per lo più con la loro auto? L’emorragia dal pubblico impiego non è novità recente, ma certo si è approfondita negli ultimi tempi. 23.000 posti in meno, e una grande fabbrica produttrice di precariato pubblico: sono lontanissimi i tempi nei quali ministeri e annessi erano motore, oltre che di stipendi e consumi, anche di edilizia pianificata, quella targata “Incis” che costeggia il nobile corso Trieste come le rovine di Porta Maggiore. Il settore pubblico è ancora importante, e fa da solo l’8% del prodotto pro capite. Ma oggi non basta avere un lavoro statale, regionale o comunale per vivere bene a Roma, anzi tutt’altro. Mentre fuori dal pubblico, le fettine della torta prodotta vedono poca industria e pochi servizi alle imprese: «Questo è il dato più preoccupante», dice Roma, «è chiaro che una metropoli di oggi vive di servizi, ma quali servizi? Non è strano che Milano abbia più industria che Roma, ma lo è che abbia più servizi per il turismo, in termini di valore aggiunto». La capitale vive in gran parte di turismo, i suoi alberghi hanno un tasso di riempimento medio del 70%, che fa invidia a molte altre zone. Eppure, non ci guadagna molto e soprattutto non ne fa un’occasione di internazionalizzazione. Sono proprio gli indici che misurano i rapporti con l’estero a dare una brutta sensazione, di “Roma città chiusa”: l’80% delle imprese lavora solo per il mercato locale. Le esportazioni della città metropolitana sono scese, e sono sotto il 7% del prodotto, contro una media nazionale del 20 per cento. Ci sono tre università, ma la più grande di queste (e la più grande d’Europa) perde iscritti da un decennio. C’è un’altissima concentrazione di ricercatori, ma solo 49 brevetti per milione di abitanti, contro i 70 della media nazionale e i 160 dell’area di Milano.

La musica è finita
In tutto ciò, Roma sopravvive. Gli indicatori di disoccupazione non sono più alti di quelli nazionali, il tasso di scolarizzazione e lauree è buono, la sofferenza sociale aumenta ma non è esplosa. Insomma la città mangia, studia, lavora o lavoricchia. Come? Paradossalmente, si può dire che Roma vive, in parte, di se stessa: un’economia un po’autarchica ha i suoi letali difetti, ma anche i suoi pregi. Con i suoi 2.889.000 abitanti, più tutto il centro-sud che le gravita attorno, rimane un enorme centro di consumo. Nel quale molti abitanti riescono a inventarsi qualcosa di nuovo, o a tirare fuori grandi o piccole rendite. L’esempio degli affitta camere non è secondario. Dal Giubileo di Donna Olimpia in poi, il business non si è mai fermato, e i romani hanno mostrato grandi capacità di cogliere le novità del mercato – come mostrano le 10.000 stanze in un lampo messe in rete su AirBnB. «La bolla immobiliare non ha avvantaggiato solo i grandi speculatori, ma anche un ceto medio e piccolo, di famiglie che si sono trasferite fuori e hanno venduto o affittato la loro casa in centro, o parte di essa», racconta Walter Tocci, vicesindaco e assessore negli anni delle giunte Rutelli, autore di un libro che definisce impietosamente la capitale di oggi: “Non si piange su una città coloniale” (GoWare, 2015). Tocci fotografa e racconta quel che è successo ai tre pilastri della “città coloniale”: spesa pubblica, rendita immobiliare, consumo. Investiti dall’economia globale, dalla stagione della vendita delle aziende di Stato, dai tagli di bilancio. Ma non è che i tre bastioni sono crollati all’improvviso. Il processo ha impiegato un po’ di tempo, e all’inizio ha dato anche un qualche dinamismo. Basti pensare all’outsourcing di grandi imprese come Telecom ed Eni, degli stessi ministeri, di grandi banche, che a cavallo del millennio ha fatto sorgere una fitta rete di imprese grandi e piccole, soprattutto nell’informatica. Adesso i colossi sono andati via, hanno spostato i centri direzionali – o sono stati assorbiti e cancellati, come la Banca di Roma con il suo ruolo feudale ma potente per l’economia del territorio. Così, anche il loro indotto si è svuotato: la Tiburtina Valley è l’altro grande vuoto, meno visibile ma non meno importante degli scheletri dei grattacieli.

Dal mattone all’acqua
Resta la rendita immobiliare. O meglio restava, fino a pochi anni fa. Comune ai grandi speculatori e ai piccoli proprietari: non ultimi, le migliaia che hanno comprato dalla vendita di case dell’edilizia popolare, del Comune, della Regione, della Scip di Tremonti... tutte centrali, tutte pagate con sconto, molte rivendute o affittate. Beneficiari collaterali di quella che l’urbanista Giovanni Caudo – appena tornato all’università, dopo aver fatto l’assessore nella giunta Marino – chiama “l’urbanistica con gli estrogeni”. Quella continuamente dopata da spesa pubblica, eventi, varianti di piano. Un’era chiusa, dice Caudo. Anche lui cita con preoccupazione gli indici di una città chiusa agli investimenti dall’estero: nell’immobiliare, per dirne una, Roma ha attratto lo scorso anno meno di 500 milioni, contro i 3,5 miliardi di Milano, i 5 del totale dell’Italia, i 7 della Spagna (per non parlare dei 38 di Londra). «A questo non si rimedia con un nuovo doping immobiliare». Forse lo hanno capito anche gli ex poteri forti di Roma, i costruttori: «Ci hanno provato per l’ultima volta nel 2008, quando con la scusa dell’housing sociale hanno chiesto di edificare ancor di più l’Agro Romano, ma adesso guardano altrove». Intanto hanno cominciato a spostarsi verso la riqualificazione – che è oggi il principale settore economico dell’edilizia. «Poi hanno cominciato ad apprezzare che esiste un vero e proprio mercato per la casa a costo accessibile per l’ex ceto medio ormai impoverito». Mentre i loro affari cementizi, al momento, sono quasi tutti all’estero, dai paesi scandinavi a quelli arabi alla Turchia. Mentre qui i grandi affari sono alla ricerca di nuovi mercati monopolistici, dopo quello delle aree edificabili. Sono altri i business appetibili, in primo luogo quelli dei servizi pubblici locali. La crisi della giunta Marino ha fermato la trattativa sulla riduzione della quota del Comune in Acea (dove ha come soci il costruttore Caltagirone e i francesi di Suez) e i piani sul suo futuro. E nella Roma che accoglie i pellegrini, a cavallo tra misericordia e business, si gioca in silenzio anche la partita delle multiutility, a cavallo tra mercato e rendita.