Giuseppe Ragusa, Pagina99 5/12/2015, 5 dicembre 2015
SE VA IN CRISI IL MERCATO DEI SONDAGGI
Verrebbe da dire che il 2015 è stato l’annus horribilis per i sondaggisti. A marzo i pollster israeliani avevano erroneamente pronosticato la sconfitta del Likud di Netanyahu. Due mesi dopo i colleghi britannici hanno dato per appaiati Labour e Tory, che hanno poi vinto a mani basse le elezioni. Flop a novembre anche in Turchia, dove Erdogan ha sbaragliato il campo malgrado i sondaggi avversi.
Il 2015, però, non è stata un’eccezione. Da diversi anni ormai i fiaschi si susseguono in tutto il mondo: dagli Stati Uniti, dove i sondaggisti non avevano previsto lo straripante successo dei repubblicani nell’elezioni di midterm del 2014, all’Italia, dove l’exploit del M5S alle elezioni politiche del 2013 fu completamente sottostimato dalla totalità dei sondaggisti, che accreditavano in media al movimento di Grillo un 16%, contro il 25,6% effettivamente ottenuto.
Perché i sondaggi sono diventati sempre meno affidabili? In fondo essi sono basati su un’idea semplice e apparentemente facile da realizzare. Allo stesso modo in cui per capire se una zuppa è buona non è necessario mangiarla tutta, ma basta provarne una cucchiaiata, per comprendere l’orientamento dell’elettorato basta “assaggiarne” una parte. Il problema è che mentre la zuppa non si negherà al suo assaggiatore, al sondaggista l’elettorato si nega spesso. Perché non ha tempo o voglia di rispondere o perché è irraggiungibile.
La principale causa del deterioramento della performance dei sondaggi è nella difficoltà ad ottenere risposte alle chiamate telefoniche. Se negli anni novanta il sondaggista statunitense otteneva 35 risposte ogni 100 telefonate, nel 2014 ne ha ricevute mediamente 9 per lo stesso numero di chiamate. Ed è lecito assumere che il declino nei tassi di risposta sia comparabile in altri Paesi, visto che è sempre più difficile raggiungere le persone sul telefono di casa (se ancora ce l’hanno). Inoltre, chi ha deciso di non attivare una linea di telefonia fìssa, potrebbe avere caratteristiche, abitudini e preferenze politiche diverse da chi è rimasto affezionato al telefono di casa. Insomma, assaggiare la zuppa è sempre più difficile. E quando ci si riesce, la cucchiaiata provata ha un sapore diverso dalle altre.
I sondaggisti stanno provando ad arginare il fenomeno della bassa percentuale di risposte estendendo le interviste ai possessori di telefonini e con i questionari via web. Spesso, però, piuttosto che una soluzione ciò si rivela ancora più problematico, perché i tassi di non risposta al cellulare tendono a essere particolarmente bassi per certi gruppi socio-demografici.
Chi non è del mestiere è portato spesso a ritenere che i sondaggi siano poco affidabili perché basati su un numero esiguo di risposte. In effetti i sondaggi trasmessi durante i talk show nostrani sono comunemente basati su un numero di interviste che oscilla fra gli 800 e i 1.000 intervistati. Un numero piccolissimo se confrontato con i 50 milioni di aventi diritto al voto o con i 34 milioni di votanti alle ultime politiche. In realtà, anche un campione così esiguo permetterebbe in linea di principio una stima con un grado di precisione accettabile (tipicamente espressa in una forchetta di quattro/cinque punti percentuali), a condizione però che il campione non sia stato distorto da bassi tassi di risposta.
Un esempio di come un grande campione non sia garanzia di qualità ci è fornito dalla storia. Nel 1936 per la presidenza degli Usa si sfidarono Alfred Landon, il governatore repubblicano del Kansas, e il presidente uscente Franklin Delano Roosevelt. Come faceva dal 1920, la prestigiosa rivista Literary Digest realizzò un sondaggio che predisse una schiacciante vittoria di Landon, con il 57% dei consensi. Un giovane appassionato di politica e di statistica, George Gallup, condusse un sondaggio di ben più ridotte dimensioni ma che correttamente pronosticò la vittoria di Roosevelt. Il sondaggio del Literary Digest era basato su più di due milioni di risposte. Quello di George Gallup solo su alcune decine di migliaia. Ma gli elettori di Gallup erano rappresentativi, quelli del Literary Digest (i suoi lettori erano tendenzialmente conservatori) non lo erano. Di lì a qualche hanno il Literary Digest cadde in disgrazia; Gallup divenne invece il sondaggista per antonomasia.
La reputazione conquistata allora e consolidata nei successivi decenni però non porta (direttamente) denaro nelle casse della Gallup poll, la divisone dell’azienda che si occupa dei sondaggi di opinione. Anzi, i sondaggi costano alla compagnia circa 10 milioni di dollari di perdite – Gallup non accetta incarichi da Repubblicani e Democratici per garantire la sua imparzialità – ma dà lustro al suo brand. E gli permette così di attrarre quei 200 clienti circa – presenti nella classifica di Fortune che registra le 500 società Usa con il fatturato più pingue – per i quali misura l’indice di gradimento dei loro prodotti. E come la Gallup, molti altri istituti di ricerche usano gli eventi elettorali come vetrina per conquistare le aziende.
La prima conseguenza dei flop dei sondaggisti è quindi la crisi di un modello di business. E ora che i sondaggi si sono rivelati sempre meno affidabili, sia in Europa sia negli Usa la tendenza è di trovare nuove strade per comprendere fenomeni sociali. L’uso dei Big Data è un esempio eclatante di questo tentativo. L’incidenza è forte anche sui nostri sistemi politici. Pensiamo ai partiti che commissionano sondaggi per capire il consenso dell’elettorato verso determinate politiche pubbliche. O all’analisi dei flussi elettorali, suscettibili di inciampare negli stessi ostacoli che inficiano l’attendibilità dei sondaggi pre-elettorali. Ma nella democrazia “leggera” dei partiti liquidi il dibattito sul posizionamento politico è informato proprio dall’analisi di flussi e sondaggi.
C’è da chiedersi se dietro le difficoltà della politica nel mediare i conflitti sociali e dare rappresentanza ai cittadini non ci siano anche analisi basate su sondaggi poco attendibili. George Gallup amava dire che quando un leader presta attenzione ai risultati di un sondaggio d’opinione non fa altro che dare ascolto agli elettori. Il problema è capire a quali elettori stia oggi il leader prestando l’orecchio.