Walter Passerini, Origami 10/12/2015, 10 dicembre 2015
RECLAMARE NON BASTA: CAMBIAMO WELFARE
La sfida più grande è la trasformazione del vecchio welfare per affrontare le nuove emergenze sociali, che richiedono una buona dose di inventiva e progettazione. In primo piano vi è il passaggio da un welfare risarcitorio (politiche passive) a un welfare promozionale (politiche attive). Cambiano comportamenti e culture: ognuno dovrà sempre più partecipare e non solo chiedere o reclamare. È il caso delle tutele dei redditi e della lotta alle nuove povertà. Molti affidano le loro speranze al reddito minimo e al salario minimo. Su questi due strumenti regna spesso una grande confusione: il primo ha a che fare con la perdita del lavoro e la povertà, il secondo con la retribuzione minima che spetta alle diverse attività lavorative. Nel frattempo, in attesa di una legge nazionale sul reddito minimo garantito, le regioni battono governo e sindacati, dando vita al bricolage e al fai da te e a un vero e proprio dizionario del reddito di base, con nomi diversi e fantasiosi. Sono una decina le leggi regionali sulla materia: si va dal reddito minimo di cittadinanza della Basilicata al reddito di autonomia della Lombardia, dal reddito di dignità della Puglia alla Masr del Friuli (Misura attiva di sostegno al reddito). La misura serve a dare un sostegno al reddito (da 300 a mille euro al mese) a chi ha perso il lavoro, ha terminato la cassa integrazione o ha una famiglia numerosa. Il diritto al reddito è legato all’attivazione del richiedente nella ricerca di un nuovo lavoro. Diverso ancora è il caso di inclusione denominato reddito di ultima istanza, che ha a che fare con la povertà di chi non è più reinseribile nel mercato del lavoro. Si parla anche di reddito di cittadinanza che permetta una vita dignitosa, cumulabile con altri redditi, anche di lavoro. A livello nazionale circolano stime sulle risorse necessarie per l’avvio di misure chiamate Reis (Reddito di inclusione sociale) o Sia (Sostegno di inclusione attiva): si va dai quattro ai 10-12 miliardi di euro, cifre improponibili in questi tempi di magra. Diverso è invece il caso del salario minimo: in alcuni casi è la cifra che si garantisce a chi è temporaneamente sostenuto da ammortizzatori sociali; in altri è la soglia minima per l’esercizio di certi lavori o professioni. I sindacati non amano troppo questa misura, perché la ritengono lesiva del loro potere contrattuale di sottoscrivere accordi nazionali che ne stabiliscano l’entità (minimi sindacali). Dove i sindacati sono forti, sono i contratti a stabilirne il valore. Dove sono deboli vince la frammentazione e il dumping (salari al ribasso). Il salario minimo in molti paesi è legato all’ora di lavoro: sono note le rivendicazioni negli Stati Uniti e in Germania per stabilire il valore del compenso minimo orario, che è oggi rispettivamente di 7,5 dollari (che dovrebbero passare a 12-15 in alcuni anni) e di 8,5 euro come soglia minima per tutte le tipologie di attività. In Italia l’introduzione dei voucher ha portato per i lavori occasionali la cifra oraria a 10 euro lordi (7,5 netti), ma non mancano casi di compensi di due euro all’ora (raccolta di prodotti agricoli) e di due-cinque euro a pezzo o a cartella per redattori, traduttori e free lance. Un segno di disprezzo sia per lavori manuali che intellettuali.