Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  dicembre 11 Venerdì calendario

PERISCOPIO

Polemiche sulle presenze di pellegrini all’apertura del Giubileo. Il primo caso in cui la questura gonfia i numeri invece del contrario. Gianni Macheda.

Cara Santanchè, le tradizioni vanno difese ma indossare un albero di Natale alla prima della Scala mi sembra esagerato. Il rompi-spread. MF.

Putin: «Spero non servano armi nucleari». Deve aver visto l’abito della Santanchè. Spinoza. Il Fatto.

Ciao, di Walter Veltroni, è il romanzo di un eterno adolescente che denuncia una società fatta di eterni adolescenti e inspiegabilmente li invidia, è l’opera di un fanciullino di Pascoli ibridato con Forrest Gump, le sue rievocazioni prendono spesso la forma dell’«autoritratto (o selfie) con personaggio celebre». Guido Vitiello. Il Foglio.

Quei top manager internazionali raffinati, Enrico Mattei aveva imparato a conoscerli nel lavoro di ogni giorno. Erano di maniere squisite e meravigliosi nell’arrotare le «r» del francese e nall’aspirare le «h» dell’inglese: avevano spesso un debole per le fughe di Bach, per i poeti elisabettiani, per le chiese ipogee della Lucania, per il controllo delle nascite raccomandabile all’India, per il rosso delle giacche e per il suono dei corni dal fondo dei boschi della caccia alla volpe. Conoscevano a puntino gli echi di Harvard e di Cambridge; veneravano la democrazia; si accingevano a discutere di affari col signorile distacco degli antichi ufficiali di cavalleria usi a calzare i guanti bianchi prima della carica. Ma poi, venuti alle cifre, non conoscevano altra legge che quella delle «sette sorelle», implacabile e dura su tutte. Disdegnavano ostentatamente le posizioni del fine che giustifica i mezzi; ma sapevano che li fa dimenticare. Italo Pietra, I Grandi e i Grossi. Mondadori, 1973.

Mia nonna Desolina non parlava l’italiano, ne trasfigurava le parole, prendeva volutamente a colpi di leppa - il coltello sardo - quella lingua ostile, troppo dolce e dal suono falso. Non le interessava, era uno strumento dello «straniero», del dominatore sbarcato con scimitarre, cannoni, colubrine, cavalli, ordini, plotoni. Lo straniero. E l’acqua. Vita e morte. Desolina sapeva benissimo una cosa che «il continentale» non può capire: in Sardegna non c’è il mare. Perché il mare è il pericolo. Aveva visto molte mamme piangere la morte per acqua. Desolina il mare lo guardava da lontano. Come un nemico con la lancia che arriva al galoppo. Mario Sechi, scrittore. Il Foglio.

È Ottaviano Augusto a completare la conquista della penisola, sottomettendo fra il 25 e il 6 a.C. alcune popolazioni alpine ancora indipendenti fra cui Dalassi, i Reti, e i Vindelici. Secondo gli elenchi degli storici latini, erano, a quel punto, ben 46 le popolazioni italiche assoggettate a Roma. Fabrizio Rondolino, L’Italia non esiste. Mondadori, 2011.

Come i rivoluzionari russi del 1918 volevamo costringere gli uomini ad essere felici, e lo scrissero nei loro manifesti («Con la forza, costringeremo l’umanità a essere felice»), così, tre secoli prima di loro, il vescovo di Bascapé voleva costringere i suoi contemporanei a essere santi; e, se anche le parole sono diverse, la sostanza è più o meno la stessa. Sebastiano Vassalli, La chimera. Rizzoli, 2014.

La riga nera e tagliente sulla terrazza di casa mi affascinava. Riproduceva esattamente la linea del tetto, con l’abbaino e i comignoli, come in uno specchio, ma poi bruscamente la linea dell’ombra scompariva, e c’era il sole abbagliante, e bollente il cemento, se la mia mano lo sfiorava. Mi meravigliava come quella linea impercettibilmente si spostasse, costante e uguale: come un confine, come una frontiera segretamente stabilita, altrove. E l’ombra nera e la luce del mezzogiorno mi sembravano avversarie, sempre tese a contendersi la valle, strenuamente, fino ai più minuti sassi. Mi rifugiavo, d’agosto, nella quiete fresca dell’ombra; ma con gli occhi tendevo sempre al chiarore accecante del sole allo zenit - come se la luce mi chiamasse. C’era una meridiana, sulla casa di fronte, con l’asta di ferro arrugginito. L’ombra dell’asta sul muro indicava l’ora. Che cosa strana, pensavo, che il sole, così lontano e grande, stesse, fedele, ogni giorno, a quel gioco, e da millenni non cambiasse il suo giro nel cielo. Lo stesso sole che tracciava la mia ombra, piccola, sulla ghiaia del cortile. Come muovevo un passo, come alzavo una mano, ostinata, la mia ombra mi seguiva. Provavo a correre via. Lei, sempre, accanto. Misteriosa sorella, sagoma scura, quasi un’altra me, segreta e parallela. Marina Corradi. Avvenire.

L’unica concessione al passato che mi concedo è quando penso ai miei genitori. Mi capita sempre più spesso: prima di dormire penso a mio padre, a mia madre e a mia zia Rosa, a cui ho dedicato la canzone. Per me è stata una seconda mamma. Pippo Baudo (Chiara Maffioletti). Corsera.

L’uccellagione è in onore qui, nella piana sotto le Grigne, dove cessano bruscamente gli appicchi delle montagne e incomincia la grande pianura. Per tappe successive, gli uccelli di passo sorvolano le Alpi e picchiano gioiosamente a valle: il loro sollievo deve essere tale che credono persino ai goffi richiami dei merli, dei tordi, delle tortorelle perfidamente allenati in gabbia a ingannarli: si posano arzilli e fiduciosi sui rami di alberi sfrondati fino alla loro sintesi stilizzata: si offrono ignare vittime, alle fucilate assassine degli uomini rimpiattati dentro capanni invisibili. Gianni Brera, Il principe della zolla. Il Saggiatore, 1994.

La chiesa è illuminata da poche fonti di luce, una grande vetrata policroma e due piccole porte. La vetrata è alta sulla parete, da essa i raggi del sole volano come frecce ardenti verso un grande affresco in stile bizantino che sta sulla parete opposta, un ovale raffigurante il Pantocàtor. Le due porte sono strette e la luce del sole, sempre intensa in campagna, vi filtra densa come un fiume di latte. Ferdinando Camon, La mia stirpe. Garzanti, 2011.

Ero sul marciapiede, a New York, a guardar passare il fiume dei camion. Sul salvagente erboso che divideva la Broadway una donna anziana spargeva le briciole di pane che si era portata dietro in un sacchetto di carta marrone. I piccioni accorrevano in volo dai tetti, circondandola come una nuvola, becchettando le briciole. Il puzzo di benzina e di escrementi di cane si mescolava alla fragranza di un’estate incombente. Isaac B. Singer, Anime perdute. Longanesi, 1995.

Prego per chi va in chiesa senza credere in Dio. Roberto Gervaso. il Messaggero.

Paolo Siepi, ItaliaOggi 11/12/2015