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 2015  dicembre 11 Venerdì calendario

PARIGI, NELLA MENTE DEI KAMIKAZE – 

Poi prende il suo cellulare e gli mostra la sua nuova vita. Soldati siriani con le braccia legate dietro alla schiena nell’ultimo istante della vita. Prima che le loro teste vengano spiccate dalle lame del boia.
Il sogno di Samy è quello di Ismaël Mostefai e di Foued Aggad. Anche loro scappano dalla loro prima, giovanissima vita. Foued da un’esistenza normale, diligente, come può esserla quella di un ragazzo diplomato a pieni voti e deluso per aver fallito il concorso per entrare in Polizia. Ismael da un percorso a suo avviso già irrimediabilmente segnato. Ha la pelle chiara e gli occhi azzurri della madre portoghese, Lucia de Fatima Moreira, convertita all’Islam. Ha precedenti per spaccio e rissa. Ha, soprattutto, il marchio della fiches “S”, quella che, da quando si è messo a frequentare le moschee di Lucé e Beaulieu, lo condanna al girone del sospetto di Polizia. Ha anche una moglie algerina, Khadidja, che si è andato a cercare in Algeria, non lontano dal villaggio da cui viene suo padre, e con cui ha messo al mondo due figli. Non abbastanza per riempire di senso le sue giornate e il suo futuro. Sufficienti per lasciarseli alle spalle.
LA VENDETTA
Le bombe dei “crociati” americani e francesi cominciano a martellare il Califfato il 10 settembre 2014, quando Obama dà il via ai raid sulla Siria. Hollande lo segue nove giorni più tardi (operazione Chammal). Sangue chiama sangue. Il 17 gennaio del 2015, quarantotto ore dopo il blitz di Verviers, Abdelhamid Abaaoud è ad Atene. Sa di aver deluso Adnani. E con lui i fratelli Clain. Fabien e Jean Michel da Tolosa. Responsabili degli jihadisti francofoni dell’Is. Ma sa anche che portare la guerra nel cuore dell’Europa è solo questione di tempo. Che quel primo fallimento non si ripeterà. Si è nascosto in un appartamento del quartiere di Pangati, dove è continuamente al telefono. Ha bisogno dei fratelli con cui è cresciuto. Salah e Ibrahim Abdeslam. Ha bisogno dei ragazzi di Molenbeek. Perché il vincolo del sangue e delle radici è forte e profondo come il richiamo e la parola del Profeta. Irride chi gli dà la caccia e detta un’intervista a Dabiq, il patinato periodico del Califfato. “Allah li ha resi ciechi e così sono riuscito a partire dal Belgio pur essendo ricercato da così tante agenzie di Intelligence”, dice. E deve avere in parte ragione. Perché quando la polizia greca butta giù la porta della casa di Pangati dove si è nascosto per giorni, il letto è ancora caldo e i bicchieri con le sue impronte ancora sul tavolo.
BOMBARDATE RAQQA
A Parigi, all’Eliseo e negli uffici del Primo ministro, la convinzione che Charlie Hebdo non sia che l’inizio, che la Francia tornerà ad essere colpita e questa volta “con attacchi simultanei”, come documenta una memo interna dei Servizi, comincia a farsi strada prima come un cattivo pensiero, quindi come una certezza. E a ragione. In estate, Abaaoud comincia a una campagna di reclutamento capillare e, in estate, Salah Abdeslam e Ahmed Dahmani lo raggiungono almeno una volta a Patrasso passando per l’Italia. Per poi viaggiare in Austria e Ungheria. Stende piani che hanno una costante. Colpire i cosiddetti
soft target, gli obiettivi indifesi, per ottenere il maggior numero di vittime. Convince Reda Hame a portare la morte in una sala concerti di Parigi. Verosimilmente una di quelle in cui devono tenersi alcune delle serate del festival parigino del Rock sulla Senna. Ma Hame viene arrestato di ritorno dalla Siria con indosso una pennetta usb in cui Abaaoud ha caricato una prima serie di istruzioni crittate. Quindi, in agosto, è la volta di Ayoub El Khazzani, sul Thalys, il treno ad alta velocità sulla linea Parigi-Bruxelles. Ma anche lui è fermato con il dito sul grilletto del kalashnikov che aveva armato nella toilette di una delle carrozze.
La notte dell’8 ottobre, nei cieli siriani, un jet francese scarica il suo intero carico di bombe su un compound di Raqqa dove l’intelligence è convinta di chiudere i conti con Abaaoud.
I morti sono 14. Jihadisti francesi, belgi, canadesi e uno svizzero. Lui, Abdelhamid, non è più li da settimane. Cinque giorni prima, il 3 ottobre, ha raccolto sulle coste greche una parte del commando destinato all’operazione Venerdì 13. Gli uomini ci sono tutti. E stavolta sono quelli giusti. Salah e Ibrahim Abdeslam. Bilal Hadfi. Ismael Mostefai. Samy Amimour. Foued Aggad. E i due “fratelli” siriani sbarcati con l’ennesimo barcone spiaggiato sull’isola di Leros. Hanno detto di chiamarsi Ahmad Al Mohammad e Mohammad Al Mahmoud. Ma il loro vero nome non importa. Non importa più.
PARIGI, VENERDÌ 13
Al terzo piano del residence “Appart’City Paris” di Alfortville, nella camera numero 311, Ismael, Samy e Foued masticano lentamente delle madeleines al cioccolato. Su un letto c’è ancora della pizza nel cartone. Si sono lavati. Hanno pregato. Toccherà a loro, ai “francesi”, la parte militarmente più complicata di quella notte. Al-Adnani ha deciso così. Si sono addestrati per mesi. Nella stanza accanto, la 312, le miscele sono pronte. I detonatori acquistati da Salah sono quelli giusti. Ora bisogna solo vestirsi un’ultima volta. Fuori è buio. Nel parcheggio del residence è parcheggiata la Polo Nera che deve portarli da Alfortville a boulevard Voltaire all’ingresso del Bataclan. Dieci chilometri. Trentasei minuti, dice il navigatore. Guardano l’orologio. Le 20. È ora di andare.
In un appartamento di Bobigny, a Seine- Saint Denis, i fratelli Salah e Ibrahim si salutano per l’ultima volta. Il primo sale al posto di guida di una Clio nera. Bilal, Ahmad e Mohammad tacciono. Francia-Germania comincia tra meno di un’ora. L’A86 verso lo Stade de France è un tappeto di lamiera. Le 20. Faranno tardi.
Abdelhamid Abaaoud gira la chiave dell’accensione della Seat nera. Guarda Ibrahim. Controlla il cellulare che ha in tasca. I tre kalashnikov sono sul sedile posteriore. «Andiamo».