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 2015  dicembre 06 Domenica calendario

SPENDETE O RISCHIATE MA ATTENTI ALLE BOLLE

Viviamo in un mondo in cui i soldi in banca non rendono nulla, e un mutuo sulla casa costa meno del 3%. All’alba del secolo XXI, nel capitalismo trionfante delle società secolarizzate, si inverano i precetti dell’Islam e della Scolastica: no all’usura, il denaro non frutti altro denaro. Il tema è mondiale, ma ha alcune peculiarità nell’Eurozona (a proposito, diamo un nome meno scialbo al nucleo dell’Europa futura). L’euro naviga mari agitati, privo di un retroterra statuale, ma i tassi, a zero ovunque, sono i più bassi mai registrati in 321 anni dalla Bank of England. Sulla sterlina sono allo 0,5% da sei anni; sull’euro, sotto l’1% da tre anni, a zero da uno. Per lasciare i soldi in Bce le banche pagano, anziché ricevere, lo 0,3%.
Trattare compiutamente il tema è qui impossibile; se non vedremo come l’aquila, basti la visione dell’anatra. Nel 1929 la reazione incerta alla crisi la prolungò; essa finì, per il premio Nobel Paul Krugman, solo con un grande piano di opere pubbliche noto come Seconda guerra mondiale. Dopo il salasso della crisi petrolifera (1973), fine del «trentennio glorioso», le banche centrali, appresa la lezione, se l’economia è in recessione riducono i tassi e pompano liquidità: per il crac in Borsa del 1987, quello delle Casse Usa, la crisi russa, la bolla di internet e il crollo della Lehman.
Per quanto grande sia il potere delle banche centrali, esse non potrebbero comprimere a lungo i tassi; la forza del mercato li farebbe salire, checché vogliano. Le radici della crisi sono nell’economia reale, non nei detestabili eccessi della finanza. Da un lato, l’irruzione alla modernità di eserciti del lavoro sottopagato in continenti interi crea forti sbilanci commerciali. Dall’altro, il risparmio non rende perché ce n’è troppo rispetto agli investimenti realizzabili; meglio nessun rendimento su investimenti «sicuri» (inesistenti in natura) che il rischio di investimenti produttivi. Le banche centrali ci inondano di liquidità in reazione al declino pluridecennale degli investimenti; vogliono stimolarli e aumentare i consumi, stagnanti per la perdita di redditi reali dei dipendenti e della classe media che — lo prova una messe di dati nell’ultimo trentennio — rimedia indebitandosi.
La Bce vuole far salire l’inflazione, ora allo 0,1% e da tempo lontana dall’obiettivo, «appena sotto il 2%», che s’è data. Un po’ d’inflazione agevola il riequilibrio dei costi senza intaccare i salari nominali, svaluta il cambio aiutando l’esportazione, allontana la deflazione, trappola che aggrava il peso dei debiti, fermi mentre i salari scendono. La Bce agisce come le sue omologhe, solo con cautela per l’aperta guerra che la tedesca Bundesbank (Bb), suo «socio di riferimento» al 26%, le muove imperterrita. Il presidente, Mario Draghi, ha un vizio di fabbrica, è italiano: perciò tiene bassi i tassi, alleggerendo il debito pubblico del suo Paese. Peggio, la Bce ha pronti altri interventi contro il rischio che si sfaldi l’euro; questi sono ancora sotto naftalina, ma la Bb l’ha già trascinata avanti la Corte costituzionale tedesca, a sua volta ricorsa senza esito alla Corte europea di giustizia. L’accusa è di finanziamento monetario dei deficit, proibito dai Trattati. Per il presidente Bb, Jens Weidmann (un molto vocale banchiere centrale) il risparmio dei tedeschi soffre per i bassi rendimenti, che non potranno più integrare le pensioni. Gemono anche assicuratori e fondi pensione: con questi tassi sale il valore attuale dei loro obblighi con assicurati e pensionati.
La Bce non guarda attraverso il prisma dei singoli Stati, è fuori dalla sfera politica in cui apertamente agisce Weidmann: facile ricordargli che anche in Italia ci sono risparmiatori bisognosi di rendimenti elevati. Per Draghi l’Eurozona è un’entità unitaria, la vedano così anche i politici sui loro temi, come l’integrazione politica, l’immigrazione e il terrorismo, che ci farà ripiombare nel nazionalismo se la ragione non batterà l’istinto.
I tassi bassi possono causare altre «bolle»; alla ricerca di rendimenti, gli investitori comprano azioni e case, sostenendone i prezzi. Ciò avvantaggia chi le ha, e incoraggia altri ad acquistarle a debito. L’alternativa è però la deflazione, che una volta innescata dura a lungo, perché la prospettiva del calo dei prezzi fa rinviare le spese in beni durevoli; il caso del Giappone negli ultimi 20 anni insegna. Fu la deflazione, non l’inflazione, ad issare Hitler sul palco di Norimberga. In cambio di qualche euro in più di interessi attivi all’inizio, avremmo poi un salasso del lavoro dipendente; ciò costringerebbe infine a ridurre ancora, drammaticamente, i tassi. Potrebbe collassare l’euro, squassando il mondo intero.

Weidmann lo sa, ma non lo dice; l’opinione pubblica tedesca, cui egli parla, vorrebbe l’euro come il marco, e tutta l’Eurozona come una grande Germania. Oltre che indesiderabile, ciò è impossibile; i princìpi che hanno reso prospera la Germania sconfitta, un Paese medio ad economia «aperta», non varranno per l’Eurozona, terza economia mondiale, «chiusa» come tutte le grandi. Per avere saldi commerciali attivi del 6-8% del Pil — come ha, violando i Trattati, la Germania — dovrebbe vendere a Marte!
Cosa può fare dei risparmi chi per fortuna ne ha? O li spende, aumentando i consumi, o accetta i rischi, calcolati, di investimenti «non sicuri». Anche fondi pensione e assicurazioni scorderanno certezze svanite. Bisognerà valutare bene i rischi, con banche attente più a tenersi i clienti che a tosarli. Potremo così uscir bene dalla strettoia in cui le grandi banche centrali ci infilano; ciò richiede l’attenzione dei vigilanti, Consob e Bankitalia in primis , dopo le più severe norme sui salvataggi bancari.
Gestire una moneta senza un riferimento come fu l’oro, è arte, scienza o religione? Da fuori i banchieri centrali paiono una consorteria religiosa, ma l’ovvia realtà è che la moneta è strumento della politica, e di un’entità politica sovrastante ha bisogno. Sta nella costruzione di questa, opera certo ardua e complessa, la risposta a chi celebra l’imminente morte del più grande progetto politico della storia moderna (grandemente esagerando, direbbe Mark Twain); verrà il tempo in cui gli sviluppi del progetto imporranno a Draghi di seguitare, su altri piani, l’opera.