Il Giornale dell’Arte 12/2015, 4 dicembre 2015
OGGI CHI COSTRUISCE È IL PROFITTO, NON GLI ARCHITETTI
[David Chipperfield]
Nel presentarlo al collega David Cameron, Angela Merkel ha definito David Chipperfield (Londra, 1953) «Il migliore degli architetti tedeschi». L’autore della cittadella giudiziaria di Barcellona è di fatto una rara avis tra i progettisti britannici, come Norman Foster o Richard Rogers, per i quali ha lavorato. Chipperfield è un architetto pacato in tempi frenetici. La sua vocazione alla permanenza lo ha portato a erigere immobili solidi e ad ampliare alcuni dei migliori musei del mondo, come il Neues Museum di Berlino, per il quale ha vinto il Premio Mies van der Rohe. Con incarichi in mezzo mondo e apprezzamenti pressoché unanimi, ha inaugurato a Madrid una mostra nel Museo Ico («Essentials. David Chipperfield Architects», a cura di Fulvio Irace, fino al 24 gennaio), che ne riassume la carriera facendone un classico. (Grande assente nella mostra, il Mudec – Museo delle culture di Milano, opera sconfessata dallo stesso architetto, al punto da cancellarla anche dal sito internet del suo studio, che ha reputato male eseguita la posa dei 5mila metri quadrati di pavimentazione. Una querelle tuttora aperta, con Chipperfield che ha diffidato il Comune di Milano di associare il suo nome al Mudec e il Comune che, per uscire dall’impasse, ha nominato una commissione preposta a valutare la correttezza dell’esecuzione dei lavori e a individuare, se del caso, specifiche responsabilità, Ndr).
Lei si vede fuori dal tempo?
«L’architettura deve rispondere al proprio tempo e aspirare alla permanenza».
Non la tenta la ricerca formale?
«L’innovazione tecnica e formale sono fondamentali. Persino facendo degli edifici che mirano alla solidità è impossibile costruire come 200 anni fa».
Come fanno i suoi progetti ad avere quell’aria atemporale?
«La sostanza è la dimensione non detta, non parlata, dell’architettura. L’architettura è intrappolata nel mondo commerciale, in cui nessuno è disposto a rischiare. Non interessa nulla che non sia prevedibile. Ci siamo trasformati in rivestitori. Oggi l’architettura è fatta di superfici. Noi cerchiamo di preservare il modo di costruire senza rivestire. Non è facile, è come nuotare controcorrente».
Non è che alcuni architetti hanno la colpa di progettare quello che non saprebbero costruire?
«Lo chieda a loro. Noi non progettiamo mai nulla che non saremmo in grado di costruire. È la chiave della nostra architettura».
Il fatto che i suoi edifici siano rifiniti con tanta cura li rende architetture d’élite?
«Ribadisco, non progettiamo quel che non sappiamo costruire. Può sembrare logico, ma vedo gente che disegna edifici che io non riuscirei mai a fare. Non dico che non potrei immaginare quelle forme, ma non potrei costruirle. Per questo ho limitato la mia ambizione, per non limitare la mia immaginazione. L’ambizione ridotta è il miglior modo per garantire la qualità».
Più che alla vista i suoi edifici fanno appello al tatto.
«Sono le qualità fisiche dell’architettura a farmi sentire bene in altri edifici. Che questo lo si debba al fatto che ho cominciato a lavorare in Giappone o che sono cresciuto in una fattoria nel Nord dell’Inghilterra sono aneddoti».
Quando lei ha cominciato, in pieno fermento dello stile high-tech, di fronte a Foster, Rogers o Piano difendeva già un’architettura di sostanza. A loro interessavano le macchine, a lei la terra.
«Sì, preferisco scavare che atterrare. Ma è stata una scelta generazionale. Mi sono formato negli anni Settanta, quando l’interesse per la storia era di nuovo vivo. Vivevamo la crisi economica, c’era poco lavoro e di conseguenza molto dialogo. Questo ha dato luogo a teorie che riconsideravano il rapporto tra la città e la società».
Si può esprimere la qualità fisica dell’architettura con materiali industriali?
«Non è facile, però è possibile. Stiamo restaurando la Neue Nationalgalerie che Mies van der Rohe ha costruito a Berlino. L’ha fatta con elementi industriali, eppure in quei pezzi c’è una tale cura che conferisce loro sostanza. E questo la rende monumentale».
Mies è stato il suo eroe. Lei è più «miesano» che «lecorbusierano».
«Innegabilmente. Subisco la seduzione assoluta della qualità utopica di Mies van der Rohe».
Lei ha colto l’occasione del suo incarico di curatore della Biennale di Venezia per indagare il Common Ground, la parte pubblica delle città. Come fa un edificio a non isolarsi e a dare un contributo alla città?
«La ricerca partiva dal riconoscimento di una mancanza: c’è una ferita nel dialogo tra gli architetti e la società, in parte perché quello che di noi interessa è l’ultima opera che ha fatto Zaha (Hadid, Ndr) o la prossima che farà Foster. È la polemica a far sì che l’architettura arrivi sui giornali, non le idee».
Un giornalista dev’essere attento alla polemica.
«Ma non può inventarla. A Stoccolma costruisco il Nobel Center. Abbiamo discusso e credo che quel dialogo migliorerà il progetto; dal punto di vista giornalistico però quella è una controversia».
Lei come la definirebbe?
«Se si chiede alle persone quali cioccolatini preferiscano, alcuni risponderanno “quelli arancioni”, altri “quelli verdi”. E a nessuno verrebbe mai in mente di dire che si tratta di una controversia. Dialogare è sano. Perché in presenza di opinioni diverse pensiamo subito alla polemica e non alla ricchezza o alla libertà? La stampa ricorre alla polemica per trasformare l’informazione in intrattenimento, senza intenzione di illuminare o di dare delle idee. Neppure la professione prende sul serio il bisogno di dare delle spiegazioni».
La voce dei cittadini che giudicano gli edifici è disprezzata?
«L’opinione dei cittadini è fondamentale. Ma un edificio non può essere una democrazia in cui si spiega ogni passaggio».
E allora come si fa ad ascoltarla?
«Avendo una voce propria. Non è facile, abbiamo davanti a noi la voce del cliente e dietro quella dell’utente che dice l’opposto. A Londra non è che la gente non abbia voce: siamo noi architetti che l’abbiamo persa».
Ma sono gli architetti a firmare i nuovi edifici.
«Sì, ma ormai la forma del mondo non la decidono né gli urbanisti né gli architetti: è il profitto commerciale a dettare le regole. Oggi si costruiscono edifici che sono depositi di denaro: denaro internazionale in cerca di un posto in cui sistemarsi».
Che ne è dell’identità dei luoghi?
«Sono chiacchiere. Molti edifici li si costruisce non perché vengano abitati, ma perché il loro valore aumenti. Viviamo un momento nocivo e le città non stanno reagendo a questa globalizzazione perché porta soldi e occupazione».
Non è ottimista.
«Assolutamente. Ho una casa a Corrubedo, in Galizia, ma non mi faccio illusioni. La Galizia sarebbe la Costa del Sol se qualcuno fosse disposto a comprarla per farne la stessa cosa. Ci sembra orribile, ma i proprietari venderebbero, i politici lo permetterebbero, e gli architetti disegnerebbero i progetti».
Lei ha ricevuto il Praemium Imperiale, il Premio Mies van der Rohe, il Tessenow, continua però a mancarle il Pritzker.
«Non avere il Pritzker non mi toglie certo il sonno. La vita mi ha dato molto più di quanto avrei mai potuto immaginare. Mi diverte il fatto che non sia facile classificarmi. Così per esempio gli architetti messicani considerano il mio Museo Jumex un edificio messicano e ne vanno orgogliosi. Mi dicono che ho dimostrato che si può fare buona architettura con qualunque cosa».
Purtroppo in Spagna non è sempre andata così. L’edificio Veles e Vents da lei progettato a Valencia cade a pezzi.
«È stato fatto in un momento difficile. Lì l’architettura è servita a costruire un marchio (l’edificio è stato realizzato per l’America’s Cup del 2007, Ndr)».
Lei si è prestato a quel gioco.
«È l’edificio più stravagante che abbiamo mai fatto, il più gestuale. Ma era lì, vicino al mare, e aveva bisogno di più energia degli edifici in città. Non abbiamo mai saputo che cosa ne sarebbe stato, lo progettavamo mentre lo costruivamo; l’obiettivo non era il futuro ma l’inaugurazione».
È pentito di aver lavorato così?
«No. Non siamo degli indovini. Per un architetto è importante conservare l’innocenza e l’ottimismo; anche se invecchiando si diventa più cauti, se vuoi costruire devi mantenere l’ottimismo».
Anatxu Zabalbeascoa (El País)