Vincent Noce, Il Giornale dell’Arte 12/2015, 4 dicembre 2015
L’UNESCO COMPIE 70 ANNI. STATO DI SALUTE? PESSIMO
Dato che le guerre iniziano nella mente degli uomini, è nella mente degli uomini che devono essere costruite le difese della pace. Questo è il principio guida dell’Unesco, stabilito nel 1945. Settant’anni dopo la sua creazione, il cosiddetto braccio intellettuale delle Nazioni Unite e la sua direttrice generale Irina Bokova sono in una crisi profonda, alimentata dai forti tagli di budget, imposti principalmente dopo il ritiro dei finanziamenti statunitensi a seguito del voto del 2011 che ha concesso alla Palestina la piena partecipazione all’Unesco, oltre ai problemi strutturali interni e alle crescenti minacce al patrimonio culturale in varie regioni del mondo. Con 195 membri, l’Unesco (United Nations Educational, Scientific and Cultural Organisation) ha oggi poco in comune con l’idealistico club dei 30 Paesi che per primi si riunirono a Parigi alla fine del 1946 ed elessero il biologo britannico Julian Huxley loro primo direttore generale. L’Unesco di oggi è molto più complessa, con un mandato imponente e vulnerabile alle priorità politiche dei suoi membri.
«La Bokova ha cercato di trovare la sua strada in una situazione molto difficile», osserva Francesco Bandarin, che dell’Unesco è stato il vicedirettore generale per la cultura fino al 2014. «La verità è che l’Unesco è colpita non da uno ma da due gravi conflitti come può il suo messaggio umanistico essere pienamente trasmesso se il budget si contrae? E funziona ancora nel mondo odierno l’idealistica visione nata dopo la seconda guerra mondiale?». A ottobre la Bokova ha dichiarato che il mandato dell’Unesco «non è mai stato così importante» come oggi che «le forze della frammentazione, dell’odio e della violenza sono sotto gli occhi di tutti». E ha aggiunto: «Vediamo una crescita senza precedenti di estremismi violenti, accompagnata da pulizia culturale. Vediamo il patrimonio culturale distrutto, saccheggiato. Vediamo comunità perseguitate. Vediamo l’educazione sotto attacco, e abusi su bambini, bambine soprattutto, esclusi dall’insegnamento. Vediamo donne violentate come obiettivi di guerra. Vediamo la liberà di espressione minacciata, giornalisti decapitati».
L’età dell’oro
Perlomeno in passato l’Unesco aveva un forte impatto. Nel 1945, la sua prima priorità era l’educazione e giocava un ruolo chiave nelle imponenti campagne nazionali contro l’analfabetismo. Nel 1929, uno studio internazionale condotto dall’US Bureau of Education concluse che il 62% della popolazione mondiale di più di dieci anni non sapeva né leggere né fare di conto. Per quanto in Paesi in cui sussistono discriminazioni di genere, come il Mali e l’Afghanistan, la situazione rimanga disastrosa, i livelli di alfabetizzazione e di istruzione sono molto cresciuti in America Latina, nei Paesi Arabi e, più di recente, in Asia. Attraverso il suo reputatissimo Istituto di Statistica, l’Unesco ha fatto pressioni per raccogliere e analizzare i relativi dati in modo che i politici conoscessero esattamente l’andamento dei loro Paesi e dove esistessero delle lacune. Il suo Global Monitoring Report è diventato il documento di riferimento sullo stato dell’istruzione a livello mondiale.
«L’Unesco ci ha messo molto più tempo a capire che anche la cultura era una questione chiave», asserisce Bandarin. Agli inizi degli anni Sessanta la sua campagna internazionale per salvare i templi nubiani in Egitto dall’essere sommersi dalla grande diga di Assuan fu il primo riconoscimento del valore universale del patrimonio culturale, che portò alle convenzioni globali degli anni Settanta. L’elenco dei siti culturali e naturalistici più rilevanti al mondo e la convenzione contro il traffico illecito delle proprietà culturali divennero i fiori all’occhiello dell’Unesco. La sua influenza portò anche a ulteriori sviluppi d’avanguardia. Per proteggere l’opera di artisti e creatori, l’Unesco stabilì la convenzione sul copyright e inventò, di fatto, il simbolo ©. Scrisse gli accordi di Firenze del 1950 per l’abolizione delle tasse sulle pubblicazioni educative, scientifiche e culturali. Introdusse anche il termine «ecologia» in politica. Nel 1968, tenne una conferenza internazionale per conciliare sviluppo con la conservazione dell’ambiente, portando al concetto di «sviluppo sostenibile» che si affermò negli anni Ottanta. La sua promozione delle reti internazionali per il monitoraggio della salute degli oceani portò alla scoperta di un aumento del 30% dell’acidità oceanica a partire dalla Rivoluzione Industriale. Lanciò anche quello che ora è diventato in pratica un sistema di allarme globale sugli tsunami. Ma questa età dell’oro sembra ora essersi esaurita. La Bokova sta combattendo strenuamente: all’interno della stessa Onu, si è riaggiudicata la leadership sull’educazione togliendola all’Unicef; è anche determinata a mantenere il ruolo dell’Unesco nelle scienze ambientali e la sua reputazione come unico ente internazionale a difesa della libertà di stampa, che metta in discussione il controllo di internet e che lotti contro il doping nello sport. La scorsa primavera, ha ottenuto un importante successo con la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu contro la distruzione e il saccheggio del patrimonio culturale in Siria e in Iraq. Le sue proteste contro gli attacchi dell’Isis a musei e templi possono sembrare puramente formali: non la pensa così Mounir Bouchenaki, direttore dell’Arab Regional Centre for World Heritage nel Bahrein. Dal 2000 al 2006 l’archeologo algerino è stato a capo della cultura all’Unesco. «A Mosul [Iraq], come prima a Baghdad o a Kabul, ricorda, la maggior parte delle collezioni museali sono state messe in salvo prima dei saccheggi e delle distruzioni. A Timbuctu, i manoscritti sacri sono stati restaurati e i mausolei ricostruiti... ma queste azioni possono essere intraprese solo in presenza di un minimo di condizioni di sicurezza: l’Unesco non dispone di un braccio armato».
I «caschi blu» di Renzi
Lo scorso settembre all’Assemblea Generale dell’Onu il primo ministro italiano Matteo Renzi ha chiesto una task force di «caschi blu» per proteggere il patrimonio culturale, sotto la direzione dell’Unesco. Per attuare la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu in merito al patrimonio culturale in Siria e in Iraq, l’Unesco si coordina con l’Interpol per contrastare il traffico di manufatti mesopotamici. E a settembre, per la prima volta, è stato portato di fronte alla Corte Criminale internazionale dell’Aja una persona sospettata per la distruzione del patrimonio culturale nel Mali del Nord (il processo è stato fissato al prossimo 18 gennaio, Ndr). Contemporaneamente, la stessa Bokova insiste sulla «responsabilità degli Stati membri di fornire all’Unesco i mezzi di cui necessita per affrontare le principali sfide di oggi». Ma se gli Stati membri possono ben rappresentare una parte della soluzione, essi sono forse il principale problema dell’Unesco, con l’organizzazione sempre più tenuta in ostaggio da interessi politici e pressioni nazionalistiche. L’ultima riunione del consiglio esecutivo a metà ottobre è stata scossa da controversie su siti di Gerusalemme al centro di dispute israelo-palestinesi: l’Unesco ha condannato Israele per avere limitato la libertà di culto alla moschea di Al-Aqsa, ma ha rinunciato a una clausola della risoluzione che definiva il Muro Occidentale come spazio riservato ai musulmani. L’Unesco ha anche riaffermato che i siti funerari di Hebron e di Betlemme «fanno parte della Palestina». Intanto, la richiesta del Kosovo di essere riconosciuto come un membro dell’Unesco ha spinto il ministro degli esteri serbo Ivica Dacic a dichiarare che sarebbe tanto assurdo quanto ammettere l’Isis nell’organizzazione.
Credibilità minacciata
Preoccupazioni di questo genere non dovrebbero essere una priorità per l’Unesco. «É diventata il teatro di tutti i conflitti politici per procura», dice con rammarico una fonte diplomatica. Intanto, il Memory of the World Register, che elenca un inestimabile patrimonio documentale, è coinvolto in un conflitto tra Cina e Giappone in merito agli archivi riguardanti il massacro di Nanchino (ora Nanjing) del 1937 e la tratta di schiave del sesso organizzata dall’esercito nipponico durante la seconda guerra mondiale. Persino i programmi del Patrimonio culturale, i gioielli della corona dell’Unesco, sono a rischio deragliamento. Quello che era iniziato come un elenco di siti di «inestimabile valore universale» è caduto vittima di interessi nazionalistici ed economici, con l’etichetta di Patrimonio dell’Umanità utilizzata soprattutto per attrarre il denaro dei turisti. Gli esperti sono preoccupati dall’«inflazione» di questo elenco, che oggi comprende più di 1.000 siti, e della crescente tendenza dei diplomatici del World Heritage Committee, il Comitato per il Patrimonio mondiale, a non tenere conto delle loro raccomandazioni. La Francia, per esempio, ha esercitato pesanti pressioni per far ammettere nella Lista i suoi vigneti e vulcani estinti. La «dieta francese» gode ora dello status di tesoro del Patrimonio Culturale Intangibile. La credibilità di questo elenco, che alcuni avevano visto per molto tempo come il passo più innovativo intrapreso dall’Unesco, è ora messo a rischio dalle richieste di inclusione di pietre miliari della cultura quali la pizza napoletana o il cavolo fermentato coreano. Nessun ambito sembra al riparo da palesi interferenze politiche. Un premio per la ricerca in scienze umane «che migliorano la qualità della vita» è finanziato dalla Guinea Equatoriale, con il sostegno di tutti i rappresentanti africani, nonostante le proteste delle organizzazioni sui diritti umani che definiscono il Paese come una delle più sanguinose dittature in Africa. A Venezia, nel novembre 2011, una conferenza scientifica sul «futuro della città e della laguna nel quadro dei cambiamenti climatici globali» è stata cancellata all’ultimo momento sotto pressione del governo Berlusconi, che temeva critiche sul progetto di barriere galleggianti Mose nel quale stava spendendo 5.4 miliardi di euro. Trentacinque persone, tra cui l’allora sindaco di Venezia, sono stati inquisiti per tangenti tratte da un apposito fondo da 25 milioni di euro creato dal consorzio di gestione del progetto.
Specialisti che lavorano per l’Unesco dicono di avere visto cancellati i loro incarichi per evitare controversie politiche nel quadro della collaborazione con esperti sul campo. Il biologo marino cileno Patricio Bernal, direttore della Commissione Oceanografica Intergovernativa (Coi) dell’Unesco fino al 2009, ha parole di elogio per l’opera svolta in campo idrologico e geologico, ma punta anche il dito contro le «occasioni perdute». A suo dire il Coi ora «è troppo politicizzato, cosa che potrebbe preludere a seri rischi per il lavoro svolto nella stima della salute degli oceani». Bernal lamenta poi l’incapacità dell’Unesco di lanciare un «forum scientifico globale che possa divulgare gli elementi fondamentali di ambiente e natura per tutti i Paesi». Quando Bouchenaki parla di questioni sensibili come gli scavi archeologici a Gerusalemme o i mosaici bizantini danneggiati nella Chiesa della Natività a Betlemme, insiste sul fatto che la missione dell’Unesco «non è politica, ma solo tecnica». Ma ricordandosi della possibile interferenza politica, ha preso la precauzione di istituire un comitato scientifico internazionale. «Molti Paesi trattano l’Unesco con profondo disprezzo», dice un sottile osservatore dell’organizzazione, che definisce il suo quartier generale di Parigi, dove hanno i loro uffici le delegazioni permanenti, una «fogna», con rappresentanti che tramano e promuovono solo i loro interessi, sottoponendo a stretto scrutinio i conti e le azioni del segretariato dell’Unesco. Persone accusate di appropriazione indebita e persino di traffico d’armi hanno fatto parte in vari momenti di questo gruppo esclusivo, protetti contro azioni legali dal loro status di diplomatici.
Nel 1991 è stata apportata una profonda modifica alla costituzione dell’Unesco quando la conferenza generale ha abolito l’articolo V, che stabiliva che i membri del consiglio esecutivo dovessero essere persone «qualificate in uno o più settori di competenza dell’Unesco». Sostenendo che questa restrizione non fosse «efficace», il Giappone ha chiesto che fossero sostituiti da diplomatici degli Stati membri. L’Unesco non era più un luogo di incontro dove pensatori come Claude Lévi-Strauss, Michel Leiris e Alva Myrdal lanciavano studi contro il pregiudizio razziale, dove il museologo Georges-Henri Rivière cercava di inventare un nuovo museo, o dove Jean-Paul Sartre presentava una relazione su Kierkegaard. La rivista mensile «Unesco Courier», che nei suoi ultimi anni era diffusa in più di 1,5 milioni di copie in 30 lingue, promuovendo dibattiti in un ampio spettro di materie scientifiche e culturali, è scomparsa nel 2001; ora è solo un giornale Online pubblicato in sei lingue. Un esperto legale ed ex direttore dell’Unesco sostiene che Koichiro Matsuura. direttore generale dell’Unesco tra il 1999 e il 2009, «andava particolarmente fiero dell’emendamento giapponese. Matsuura ha gestito l’organizzazione, che era piuttosto caotica, meglio di chiunque altro prima e dopo di lui, ma mancava totalmente di carisma». Nel 2002, l’Unesco ha pubblicato un volume di 398 pagine degli interventi di Matsuura che solo i più coraggiosi avrebbero provato a leggere. L’ultimo leader dell’Unesco che si potrebbe considerare un intellettuale è stato Federico Mayor Zaragoza, direttore generale dal 1987 al 1999, biochimico ed ex ministro dell’educazione e della scienza in Spagna. La Bokova, la prima donna a capo dell’Unesco, certamente ha risvegliato ciò che un commentatore aveva definito la «piccola e sonnolenta organizzazione dell’Onu a Parigi». Ha dimostrato grande energia e impegno, anche se i critici sostengono che una gran parte del suo tempo sarebbe ora dedicata alla sua campagna per il posto di segretario generale dell’Onu. «La mia sola campagna è l’Unesco», ha dichiarato la Bokova al nostro giornale. Ma la sua scelta di «ambasciatori di buona volontà», per esempio, potrebbe ben essere letta come un indicatore delle sue ambizioni politiche. L’Unesco ha non meno di 55 di questi ambasciatori, oltre a 58 «artisti per la pace», sette delegati speciali e 13 «campioni per lo sport». Alcuni, come il jazzista Herbie Hancock o l’attore Forest Whitaker, svolgono senza dubbio un gran lavoro, ma è più difficile comprendere l’impatto di reali d’Europa o del Medio Oriente. Inoltre, la presenza di mogli di despoti, come Mehriban Aliyeva dall’Azerbaigian, un’amica personale della Bokova, e Chantal Biya, first lady del Camerun, è quantomeno discutibile. «La gestione è il tallone d’Achille della Bokova, asserisce un diplomatico che chiede di mantenere l’anonimato. È un autentico prodotto della nomenklatura comunista in Bulgaria. La sua riservatezza rasenta la paranoia. Certamente pensa che “chi non è con me è un mio nemico”». All’inizio dell’anno, la Bokova ha promosso la sua direttrice delle risorse umane Ana Luiza Thompson-Flores al posto di vicedirettore generale dell’ufficio di pianificazione strategica, a dispetto delle critiche sulle sue capacità di dirigere il personale. A settembre, la Thompson-Flores è stata degradata. Entrambe si sono astenute dal commentare. Secondo un diplomatico, la promozione dell’ex direttrice delle risorse umane non era avvenuta in base alle procedure canoniche, e il suo curriculum accademico potrebbe essere stato «abbellito». I direttori generali vanno e vengono, così come i loro progetti di riforma. Ma una riforma che nessuno sembra in grado di attuare è quella relativa alla governance dell’organizzazione. Tra gli enti internazionali più poveri, l’Unesco ha anche uno dei più pesanti sistemi di governance. Il consiglio esecutivo è composto da 58 rappresentanti, che si riuniscono due volte l’anno per sessioni che durano una quindicina di giorni, caratterizzate da interminabili e faticosi interventi, preceduti sistematicamente da lunghi passaggi di congratulazioni reciproche. La conferenza generale, che ogni due anni riunisce gli Stati membri, è stata abbreviata da tre settimane a poco più di due, e il suo budget è crollato sensibilmente dai 6,7 milioni di dollari nel 2010. Eppure per lo svolgimento di queste riunioni e per pagare le spese dei delegati si spendono ancora quasi 5,5 milioni di dollari all’anno. A titolo di confronto, l’Unicef, che ha un budget annuale di 4 miliardi di dollari, ha un consiglio esecutivo di soli 36 membri e le sue sessioni, che si tengono tre volte l’anno, durano circa tre giorni. Difficile sottovalutare il danno causato alle finanze dell’Unesco dal voto di ammissione della Palestina in qualità di Stato membro. Il voto è passato con la maggioranza degli Stati membri, nonostante le riserve di Stati Uniti ed Europa e un avvertimento da parte del segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon che la mossa «non avrebbe giovato» a nessuno. Immediatamente dopo, gli Stati Uniti hanno ritirato i loro finanziamenti, tagliando 80 milioni di dollari (o il 22%) del bilancio annuale dell’Unesco e mettendo l’organizzazione in ginocchio dalla sera alla mattina. Il voto sulla Palestina era giunto pochi giorni prima del pagamento da parte degli Stati Uniti del loro contributo per il 2011, quindi sei settimane prima della fine dell’anno, l’Unesco ha perso anche i 70 milioni di dollari dovuti per i precedenti 12 mesi.
Mal preparata
L’organizzazione ha iniziato il 2012 con un deficit di 188 milioni di dollari. Un finanziamento d’emergenza lanciato dalla Bokova ha raccolto circa 60 milioni di dollari da altri partner, colmando in parte il buco. Ma nessuna agenzia dell’Onu si è mai trovata prima d’ora in una situazione altrettanto pericolosa. Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama non ha potuto eludere una legge del 1990 che vieta ogni contributo finanziario americano a enti che riconoscano la Palestina come Stato, e neppure pagare gli arretrati per il 2011. Tuttavia, la sua amministrazione riconosce l’importanza dell’adesione all’Unesco e ha rinnovato la sua candidatura per un posto nel consiglio esecutivo dell’Unesco alle elezioni dello scorso mese. Parlando in occasione di un evento speciale presso la sede di Parigi in ottobre, il segretario di Stato americano John Kerry ha detto: «Il mandato dell’Unesco non è mai stato più necessario di adesso. È un momento critico per la missione dell’Unesco, un tempo per costruire la pace nelle menti di uomini e donne. Ecco perché gli Stati Uniti considerano l’Unesco di così grande importanza come piattaforma per la cooperazione». Ciononostante, per gli Stati Uniti ripristinare i propri finanziamenti rimane estremamente complicato.
Nonostante i precedenti problemi con gli Stati Uniti (nel 1975 congelarono per due anni il loro contributo all’Unesco: nel 1984 anche l’amministrazione Reagan si ritirò dall’Unesco, per rientrarvi solo nel 2003), il gruppo di comando dell’Unesco non prevede nessuno scontro imminente. Una relazione pubblicata nel giugno del 2013 dal suo revisore esterno, la Corte dei Conti francese, evidenziava una chiara «mancanza di preparazione». Dava atto alla Bokova di una energica e rapida risposta alla crisi finanziaria, ma sottolineava anche come il programma di riforme lanciato poco dopo la sua elezione a direttrice generale nell’ottobre del 2009 non avesse fatto grandi progressi, contribuendo alla confusione di tre anni dopo. Secondo la verifica, nel 2013 l’Unesco non aveva ancora «un piano di ricollocamento» del personale, né aveva fornito un chiaro «esame delle attività che erano state sospese, che spiegasse i criteri della loro selezione o l’impatto finanziario della loro soppressione». Il rapporto contabile criticava anche la gestione del programma di licenziamenti, che vedeva andarsene specialisti di talento, sostituiti da manager di minore esperienza. Come fattori del fallimento del primo progetto di riforme della Bokova puntava l’indice sulla «complessità della governance, la rigidità della gestione e le difficoltà per l’organizzazione di attuare un modello di responsabilità».
Il nostro giornale ha chiesto alla Bokova se l’organizzazione possa sopravvivere come attore chiave dello sviluppo internazionale con un budget di poco superiore ai 250 milioni di dollari annui e meno personale. «La questione oggi per l’Unesco non è “sopravvivere” ha risposto, insistendo sul fatto che «la crisi è finita». Ha sottolineato di aver «eliminato 500 posti di lavoro» sui 2mila che aveva trovato al suo arrivo, quando il budget annuale era di 375 milioni di dollari. E ha messo in evidenza anche le misure di riforma da lei introdotte per riposizionare le attività dell’Unesco, l’alleggerimento dei carichi amministrativi e il migliore uso delle risorse. Oggi, afferma la Bokova, l’Unesco «sta cambiando e andando avanti». Ma se gli Stati aderenti non rivedranno il proprio ruolo, la capacità dell’Unesco di rispondere alle scoraggianti sfide culturali che si presentano nel mondo rimane sostanzialmente incerta.