Paul Scanlon, RollingStone 12/2015, 4 dicembre 2015
STAR WARS ANNO ZERO
[vedi appunti]
La scorsa primavera, un vecchio amico appassionato di cinema mi ha portato a vedere un capannone a due piani piuttosto anonimo a Van Nuys, California. Era il quartier generale di Industrial Light & Magic, la società di giovani tecnici che stava realizzando gli effetti speciali di Star Wars, la fantasia spaziale da 9,5 milioni di dollari nata dalla mente del regista e sceneggiatore George Lucas.
Lucas e la troupe principale avevano appena iniziato a girare le prime scene del film in Tunisia, ma l’attività alla IL&M era così frenetica che sembrava mancasse un mese alla prima. John Dykstra, supervisore degli effetti speciali fotografici e collaboratore anche di Douglas Trumbull (2001: Odissea nello spazio) ci ha guidato al piano superiore in una sala proiezioni improvvisata, con delle sedie sparse in giro e un paio di vecchi divani buttati in un angolo. Uno degli animatori aveva appena finito di realizzare una serie di esplosioni laser e aspettava l’approvazione di Dykstra.
Le luci si sono spente e abbiamo visto i raggi illuminare lo schermo. Quelli venuti meglio sono stati salutati con applausi, i più spettacolari con grida di approvazione: “Wow!”, “Yu-hu!”, “Fantastico!”. Era evidente che questo gruppo di giovani e talentuosi creativi era stato motivato al massimo da George Lucas e dalla sua eccezionale immaginazione. Lucas ha sempre detto che tutti i suoi film sono caratterizzati da «una specie di effervescente senso di vertigine». Chiamatela come volete, ma è una cosa che influenza le persone che lavorano per lui e il pubblico nello stesso modo. Il suo primo film, THX 1138 – notevole dal punto di vista tecnico, ma non facile per il pubblico – è diventato un film di culto e ha guadagnato bene nei campus universitari negli ultimi anni. Poi è arrivato American Graffiti, la sua ode alla classe del ’62 tutta corse in macchina e rock’n’roll, girato in 28 giorni con una troupe ridotta e con soli 750mila dollari di budget, che è diventato l’11esimo film più redditizio di Hollywood. Infine, nel caso abbiate dormito negli ultimi due mesi o siate stati su Marte, è arrivato Star Wars, che sicuramente entrerà in classifica tra i primi 10 e potrebbe anche diventare il più redditizio di sempre. In 8 settimane ha guadagnato 54 milioni di dollari al box office, mentre il libro tratto dalla sceneggiatura di Lucas, pubblicato senza troppa enfasi da Ballantine Books lo scorso inverno, è arrivato al n. 4 nella classifica dei tascabili, con 2 milioni di copie già in corso di stampa. Stanno arrivando anche i poster, le t-shirt, i modellini, le maschere dei personaggi e altri libri. La colonna sonora è già disco d’oro. Niente male per un film che stava per non iniziare mai, e di cui nessuno ha saputo quasi niente fino alla data di uscita. Quando ho visitato il set di Londra, la primavera scorsa, non c’era nessuna effervescenza e ben poca vertigine. La produzione era impressionante (occupava tutti gli 8 studi di sonorizzazione alla Emi Elstree Studios), tutto sembrava procedere secondo le scadenze, ma George Lucas era preoccupato. Alcuni attori non erano contenti delle loro battute. I robot non erano belli. Un’intera scena con Peter Cushing è stata rifatta perché non era venuta bene. C’erano state diverse revisioni della sceneggiatura. Il personaggio interpretato da Alee Guinness veniva ucciso a meno di due terzi del film, e i produttori ancora non erano stati avvertiti. La troupe inglese aveva orari di lavoro rigidissimi, con turni di massimo 8 ore e due pause obbligatorie per il tè. Ho rivisto George Lucas insieme al produttore Gary Kurtz a casa sua a San Anselmo durante l’estate, ed era ancora più preoccupato. Gli studios volevano vedere un’anteprima e gli effetti speciali erano stati completati per non più di un terzo. I robot erano ancora più brutti, la colonna sonora non era pronta. C’erano problemi di luci e di sonoro.
Eppure in qualche modo (principalmente lavorando giorno e notte) è andato tutto a posto. Lucas e i tecnici del suono hanno messo a punto gli effetti sonori sulla versione in 70 millimetri fino all’ultimo minuto. Rimaneva solo una domanda: funzionerà? La risposta è sì.
Quello che fa stare Star Wars un gradino sopratutti i suoi predecessori nel genere di fantascienza sono proprio gli effetti speciali (girati con 365 diverse inquadrature) e la straordinaria ricchezza della fantasia di George Lucas. Un esempio è la scena del bar su Tatooine, in cui i nostri eroi si ritrovano in un locale pieno della feccia proveniente da una decina di galassie diverse.
Oppure i personaggi dei Java, piccole creature rumorose che contrabbandano vecchi robot per sopravvivere. Per quanto riguarda gli effetti visivi e le miniature, Lucas e Dykstra hanno creato un punto di riferimento con cui tutti i futuri film di fantascienza saranno costretti a confrontarsi. Prima dell’uscita al cinema, Dykstra ha detto in un’intervista che la battaglia finale di Star Wars sarebbe stata esaltante come l’inseguimento di automobili del poliziesco Il braccio violento della legge. Aveva ragione. Quindi oggi George Lucas, 33 anni, è nella suite di un hotel affacciato su Central Park. È in città per la prima del film del suo amico Martin Scorsese, New York New York, che è stato montato da sua moglie Marcia (responsabile del montaggio anche della maggior parte di Star Wars). Da qualche parte in città la gente sta facendo la coda per entrare a vedere il suo film. Lucas è appena tornato dalle Hawaii e non può fare a meno di sorridere.
Ti aspettavi il successo di Star Wars?
«Per niente. Quando è uscito American Graffiti pensavo che sarebbe stato un mezzo successo e che avrebbe guadagnato magari 10 milioni di dollari, che a Hollywood equivale già a un successo, e sono letteralmente impazzito quando è diventato un blockbuster. Mi sono detto: “Come faccio a fare meglio? È stato un colpo fortunato, non penso che si ripeterà”. Ero anche al verde, avevo talmente tanti debiti che ho guadagnato molto meno con Graffiti che con THX1138. Avevo bisogno di un film e per pochissimi soldi sono riuscito a strappare un accordo per girare Star Wars. Graffiti era una sfida, perché fino a quel momento avevo fatto solo film folli, astratti e d’avanguardia. È stato Francis Ford Coppola a lanciarmela: “Fai qualcosa di coinvolgente, tutti pensano che tu sia un tipo freddo, perché fai solo film di fantascienza”. E io ho detto: “Ok, lo farò”. Ho fatto Graffiti e poi sono tornato ai miei progetti di fantascienza».
E hai fatto Star Wars.
«Sono sempre stato un fan di Flash Gordon e un grande sostenitore delle esplorazioni spaziali e mi è sembrata subito una cosa naturale. Primo, perché farà sognare i bambini; secondo, perché forse farà diventare qualcuno di loro un piccolo Einstein, e la gente si chiederà: “Perché?”. Credo che sia necessario per l’uomo colonizzare altre galassie, allontanarci dalla dura realtà raccontata in 2001: Odissea nello spazio e buttarci nel lato romantico della cosa».
Lo hai detto chiaramente all’inizio di Star Wars con le parole: “Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana...”.
«All’inizio avevo paura delle critiche di tutti i vari genietti della fantascienza, cose del tipo: “Lo sai che non c’è suono nello spazio profondo?”. Ma io volevo dimenticare la scienza, quella basta da sola. Per quanto mi riguarda, Stanley Kubrick ha fatto il film di fantascienza definitivo e sarà difficile per chiunque fare qualcosa di meglio. Non volevo fare 2001: Odissea nello spazio, volevo un fantasy ambientato nello spazio, che fosse più simile ai libri di Edgar Rice Burroughs, quel tipo di storia che ha avuto molto successo, prima che negli anni ’50 prendesse piede il genere della fantascienza vero e proprio. Dopo la bomba atomica, tutti hanno cominciato a scrivere di mostri mutanti, di scienza, previsioni su cosa potrebbe succedere e cose del genere. I romanzi di divulgazione scientifica sono certamente molto validi, ma secondo me si dimenticano delle favole, dei draghi, di Tolkien e di tutti i veri eroi».
Hai trovato molta resistenza verso questo progetto?
«Sì, l’avevo presentato come un progetto vendibile, che poteva fare più o meno 16milioni di dollari. Sono andato alla United Artists Studios e ho detto: “Questo è quello che ho intenzione di fare. È Flash Gordon, è avventura, è una specie di James Bond, è esaltante”. E loro mi hanno risposto: “No, non la vediamo così”. Allora sono andato alla Universal e mi hanno detto la stessa cosa. Alla fine sono riuscito a convincere la Fox, che ha visto un potenziale e ha accettato di produrlo. Ma nessuno pensava che sarebbe stato un successo del genere. Ho continuato a fare ricerche e a scrivere la sceneggiatura, ho fatto quattro stesure prima di trovare quella giusta, perché il problema con un film così è costruire un genere completamente nuovo che non è mai stato fatto prima».
Come spieghi un Wookie ai membri del consiglio di amministrazione di uno studio?
«Non puoi, semplicemente. E come fai a spiegarlo al pubblico? Come fai a mettere a punto il taglio giusto di un film del genere? Non è un film per bambini, ma è comunque intrattenimento e non ha tutta quella violenza e quel sesso che vanno di moda adesso. È basato su una visione, una specie di onesta visione complessiva di come vorresti che fosse il mondo. Ho inserito anche dei temi su cui ho lavorato in THX e Graffiti, come per esempio accettare la responsabilità delle tue azioni. Ci ho messo molto tempo a finirlo. Abbiamo fatto la stima del budget e arrivava addirittura a 16 milioni di dollari. Allora ho detto: tagliamo i costi, eliminiamo un po’ di attrezzature e lavoriamo velocemente come sono abituato a fare. Graffiti e THX erano tutti e due sotto il milione di dollari. Ab- biamo ridotto il budget e siamo scesi a 8,5 milioni. Ma meno di così era impossibile per un essere umano».
Quando ci siamo incontrati a Londra, mi hai detto che eri in grado di fare un film da 2 milioni di dollari spendendone 1, ma non uno da 14 milioni spendendone 8.
«È stato difficilissimo, ma lo abbiamo fatto. Abbiamo fissato il budget a 8 milioni e ci hanno detto di abbassarlo a 7, ma noi sapevamo che era impossibile e lo abbiamo detto chiaramente alla Fox. Risposta: “Fatelo lo stesso”. Praticamente ho lavorato gratis, la mia unica speranza era che il film alla fine andasse bene. Con 8 milioni di budget, il pareggio dei costi è almeno a 20 milioni di incasso».
Quanto sei stato pagato?
«Credo 100mila dollari, circa la metà di quello che guadagnavano tutti gli altri. Ma non mi aspettavo che andasse così bene. Mi immaginavo solo di andare in pari, il resto ancora non me lo so spiegare».
Perché?
«Ho sofferto molto, è stato un periodo terribile. Era un film costoso e a un certo punto abbiamo cominciato a buttare via soldi per cose che non funzionavano. Io ero a capo di un’azienda, una cosa a cui non ero abituato. Per American Graffiti avevamo una crew di 40 persone più gli attori. Per THX più o meno lo stesso, è una situazione che riesci a tenere sotto controllo. Per Star Wars dovevo gestire 950 persone, davo un’indicazione al responsabile di un dipartimento e lui lo diceva all’assistente del responsabile di un altro dipartimento, che lo diceva a un altro tizio e così via, e alla fine di questa trafila non succedeva niente di quello che doveva succedere. Ho passato la maggior parte del tempo ad arrabbiarmi e a gridare e non mi era mai successo prima. Ho capito perché i registi sono delle persone orribili. Vuoi che le cose siano fatte nel modo giusto, la gente non ti ascolta e non c’è tempo per essere gentile».
Anche quando ci siamo visti in California la scorsa estate eri arrabbiato, perché i robot non erano venuti bene. R2-D2 sembrava un aspirapolvere, e si vedevano almeno 57 imperfezioni in C-3PO. Non ti piacevano le luci, sembrava che non funzionasse niente. Era così?
«Non mi piaceva la fotografia. Sono un cameraman e preferisco uno stile un po’ più eccentrico ed estremo di quello che ho avuto. Va bene lo stesso, è stato un film difficile con set molto grandi da illuminare e molti problemi da risolvere. I robot non funzionavano mai. Quando comandavamo R2-D2 a distanza, lui si girava su se stesso e andava sempre a sbattere contro le pareti. Quando c’era dentro Kenny Baker, il nano, era così pesante che non riusciva neanche a muoversi, faceva un passo e crollava a terra sfinito. Non sono mai riuscito a fargli attraversare una stanza: tagliavamo su di lui poi facevamo un primo piano e poi tornavamo su una inquadratura larga in cui lui era arrivato dove doveva essere. Pura magia cinematografica».
Quando ho visto il film sono rimasto sorpreso, non riuscivo a vedere i tagli e le cuciture che hai dovuto fare. Allora sono tornato a vederlo e ne ho viste forse un paio, ma non di più.
«Io invece non riesco a vedere altro. Diciamo che THX è il 70% di quello che volevo, perché al 100% non ci arrivi mai. Graffiti era il 50%, ma solo perché non ho avuto abbastanza tempo e abbastanza soldi. Star Wars invece è il 25%. Credo che il sequel sarà molto meglio e non vedo l’ora di girare l’ultimo episodio. Potrei fare il primo e l’ultimo e lasciare che qualcun altro giri gli episodi in mezzo».
Nessuno di quelli che hanno visto il film si chiede cosa sia un Wookie o un Jawa. Tutti lo accettano immediatamente, perché il film ha un fondamento di fantasia e un modo così elaborato di sottolineare i dettagli da rendere ogni cosa plausibile. Quindi diciamo che sei un antropologo e sei appena tornato dal pianeta dei Wookie. Cosa diresti?
«Che i Wookie sono un po’ primitivi. Vivono nella giungla, e c’è una scena bellissima, che potrebbe finire in uno dei film, in cui danzano intorno al fuoco con i tamburi e tutto il resto. Sono come gli indiani, dei nobili selvaggi. I Jawa invece sono degli spazzini, trafficanti di rifiuti galattici. C’era una scena ambientata nel villaggio dei Jawa, ma non l’abbiamo girata perché la location era troppo lontana e fuori budget».
Sono affascinato dalla relazione tra i robot e gli esseri umani. I droidi sembrano essere cittadini di seconda classe, come sottolinea C-3PO ogni tanto, ma allo stesso tempo sembrano avere un legame molto forte con gli umani.
«I droidi hanno il compito di servire gli umani e fanno quello che gli viene detto. Ma io adoro i droidi, sono i miei personaggi preferiti del mondo di Star Wars. Non volevo che fossero distaccati, anche in THX sono molto amichevoli e non hanno mai cattive intenzioni. In Star Wars volevo approfondire la loro vita e i loro problemi, volevo rendere loro giustizia, hanno dovuto mandare giù molte cose nel corso degli anni e non hanno mai avuto la possibilità di dimostrare cosa sono capaci di fare».
C-3PO è molto affezionato a R2-D2.
«Esatto, sono stati progettati come una versione del futuro di Stanlio e Ollio. Rappresentano la parte comica del film, sono quelli che fanno ridere. Non volevo che fosse una commedia, ma volevo che fosse comunque un film divertente. Non potevano essere gli uomini a fare sempre battute, quindi le ho lasciate tutte ai robot perché volevo che sembrassero più umani».
Qualcuno sul set a Londra scherzava sul fatto che il film sembra una specie di guerra di accenti tra inglesi e americani...
«Ho cercato di bilanciare con attenzione gli accenti, in modo che a parlare inglese fossero sia i buoni che i cattivi. Ho anche cercato di renderli piuttosto neutri. C-3PO doveva essere come un venditore di auto usate, un po’ untuoso. Avevo scritto il suo personaggio come quello di un truffatore, e non come un puntiglioso maggiordomo inglese. Ma dentro C-3PO c’è Tony (Anthony Daniels) e lui è entrato molto bene nel ruolo. Abbiamo provato altre 30 persone, ma nessuno è stato bravo come Tony, quindi abbiamo tenuto la sua voce».
Di chi è la voce di Darth Fener (Vader nell’edizione originale, ndr)?
«James Earl Jones, il miglior attore che potessi trovare. Ha una voce profonda e autoritaria».
Perché Darth Fener respira così rumorosamente?
«Perché volevo che fosse così, quindi l’ho inserito direttamente nei dialoghi».
Una mossa azzeccata, perché aggiunge qualcosa all’elemento terrificante del personaggio.
«Gran parte del merito è del tecnico del suono Ben Burtt. Ha provato 18 tipi di respiro diversi, attraverso tubi di metallo o respiratori subacquei, cercando quello che suonasse più meccanico, poi ha deciso che sarebbe stato molto ritmato e simile a un polmone d’acciaio. Questa era l’idea. È tutta in una parte della trama che è stata tagliata, forse ci sarà in uno dei sequel».
Raccontamela.
È la storia di Ben Kenobi e del padre di Luke e di Darth Fener quando erano giovani cavalieri Jedi. Fener uccide il padre di Luke, poi si scontra con Ben Kenobi, proprio come succede in Star Wars, che quasi lo uccide. In realtà cade nel cratere di un vulcano e rimane gravemente ustionato. È devastato, per questo deve indossare l’armatura nera e la maschera, gli serve per respirare. È intrappolato in una specie di polmone d’acciaio ambulante. La sua faccia sotto la maschera è orribile. Volevo girare un primo piano di Fener e lasciare intravedere la faccia, ma poi ho detto no, non voglio distruggere il mistero.
Sono abbastanza felice di aver visto, alla fine del film, Fener sparato via sulla sua navicella nello spazio profondo, ma ancora vivo. L’unica cosa che mancava era la scritta sullo schermo: “Prossimamente al cinema”.
Giusto. L’idea era di lasciare spazio per i sequel. Di solito i miei film sono tratti da un libro, da un fatto storico o da una parte della mia vita. Graffiti l’ho scritto in tre settimane, è stato facile. Ma con Star Wars devi inventarti tutto, devi pensare a tutte le culture diverse di quell’universo, a cosa appartiene e a cosa no, immaginare un territorio che stia a metà tra tecnologia e umanità. Devi trovare l’equilibrio. Quanto puoi spingerti oltre? Il pubblico lo capirà?».
Ti dà fastidio l’inevitabile paragone con 2001: Odissea nello spazio?
«Anzi, ne aspettavo ancora di più. In realtà è stato paragonato più ai film western che a 2001. Dal punto di vista tecnico, il paragone ci può stare, ma personalmente credo che il film di Kubrick sia molto superiore. Aveva a disposizione dieci volte il denaro e il tempo che ho avuto io, e quindi è venuto meglio. Tempo e soldi sono fattori determinanti negli effetti speciali. In Star Wars la maggior parte degli effetti sono stati fatti al momento, li abbiamo girati, montati e messi nel film così com’erano. Buona la prima, nella maggior parte dei casi. Abbiamo lavorato duramente, ma il mio più grande desiderio sarebbe tornare indietro, avere più tempo e rifarli tutti».
Come sono stati i giorni precedenti alla prima? Ho sentito che hai montato e tagliato fino all’ultimo minuto.
«È stato un film difficile perché abbiamo avuto solo 70 giorni per girare sul set e in location. In Inghilterra dovevamo finire alle cinque e mezza del pomeriggio, quindi lavoravamo 8 ore al giorno. Sono stato sui set di Steve (Spielberg) e Marty (Scorsese) e li ho visti girare per 12 o 14 ore di seguito. I produttori volevano che finissimo entro l’estate e anche io lo volevo, quindi eravamo con le spalle al muro. Quando siamo tornati in Inghilterra pensavo di trovare almeno la metà degli effetti speciali completati, invece c’erano solo tre scene finite e non erano all’altezza di quello che volevo. I responsabili degli effetti speciali lavorano a un ritmo diverso rispetto alle altre unità di produzione, sono soddisfatti se fanno una scena al giorno. Io invece sono convinto che si possa lavorare con gli effetti speciali seguendo la stessa tempistica di un film normale, quindi abbiamo avuto qualche discussione».
Cosa mi dici della colonna sonora di John Williams? È piuttosto emozionante.
«Sono molto, molto soddisfatto. Volevamo una cosa romantica vecchio stile, alla Max Steiner».
Si sente per tutto il film, come se fosse una serie. Alla Flash Gordon, ovviamente.
«Ci sono 90 minuti di musica su 90 minuti di film. Volevo usare brani di Liszt, Dvorák, anche qualcosa da Flash Gordon, ma John ha detto no. Voleva fare una musica forte, che ricordasse qualcosa di classico in certi punti, ma che fosse completamente originale. È stata immaginata come il classico di animazione Pierino e il Lupo, con una musica per ogni personaggio, che parte ogni volta che questi compare sullo schermo. Avevo paura della reazione del pubblico: “Oh mio Dio, che cosa fuori moda, come puoi essere così banale?”. Invece la gente ha reagito bene. Mi aspettavo che mi facessero a pezzi su tutto, e facessero a pezzi anche John. Comunque ci sono ancora delle battute nel film che mi fanno trasalire».
In che senso “su tutto”? Pensavo ti riferissi solo alla colonna sonora.
«Su tutto, specialmente alla fine quando riparte la colonna sonora, romantica e drammatica. C’è un dialogo banale e uno snodo della trama troppo semplice e scontato».
Forse alcune battute di Mark Hamill sono un po’ banali...
«Ma alcune sono anche molto buone. C’è voluta una buona dose di coraggio, non volevo fare un film per bambini e nemmeno un film troppo frivolo. Volevo fare un buon film. Volevo che fosse vero».
Il personaggio di Harrison Ford, Ian Solo, è un po’ al limite, con il suo modo di fare alla John Wayne.
«Si è spinto solo fino a dove volevo io».
“Ho attraversato questa galassia in lungo e in largo, ragazzino”...
«(Ride) È in linea con il personaggio. Harrison è un attore molto intelligente, abbiamo lavorato cercando di mantenere un equilibrio in tutto. Non sai mai se ci riuscirai, come con la colonna sonora, quindi abbiamo discusso molto su cosa fare, fin dove spingerci per non esagerare. Io ho preso la decisione di seguire fino in fondo la storia, e di dare a tutto la stessa atmosfera un po’ vecchio stile, un po’ divertente, ma anche con tutti gli elementi drammatici ed emotivi possibili».
Uno degli esempi migliori è il personaggio di Peter Cushing, l’ammiraglio Wilhuff Tarkin. Ha delle battute bellissime, per esempio alla fine quando dice: “Abbandonare la stazione adesso? Nell’ora del mio più grande trionfo?”.
«Peter Cushing, come Alec Guinness, è un grande attore, e i grandi attori ti portano sempre qualcosa. Soprattutto Alec Guinness: nella sceneggiatura originale non viene ucciso nel combattimento con Fener, ma quando siamo arrivati più o meno a metà della produzione, l’ho preso da parte e gli ho detto che l’avrei fatto morire. Lui ha accettato e ha cominciato a costruire il personaggio e la sua storia di conseguenza».
Si sono arrabbiati i produttori quando hai comunicato loro che Kenobi sarebbe morto?
«Molto. Avevo un problema con una scena più o meno a due terzi del film, mi mancava il colpo di scena per renderla coinvolgente. Continuavo a riscriverla, a lottare contro quel problema e a un certo punto mia moglie mi ha suggerito di far morire Ben. Mi è piaciuta subito, perché ha reso immediatamente Fener molto più minaccioso e ha dato più importanza al lato oscuro della Forza che lui poteva utilizzare. Poi, insieme ad Alec, abbiamo avuto l’idea di far continuare a vivere Ben Kenobi come parte della Forza. In una delle prime stesure della sceneggiatura c’era un’idea ancora più potente riguardo alla Forza, una cosa alla Carlos Castaneda in L’isola del Tonal».
Quindi in teoria ci potrebbe essere un sequel sulla Forza, uno sui Wookie, uno su Ian Solo e uno su Luke...
«Sì. Era una delle idee iniziali, fare un sequel di tutto. Oppure, se un attore mi dava dei problemi e non volevo più utilizzarlo, fare un sequel con tutti, tranne uno».
Parliamo della scena nel bar su Tatooine. Se ricordo bene, quando stavate girando a Londra c’erano dei problemi.
«Stuart Freeborn, il responsabile degli effetti speciali e del trucco, ha fatto un lavoro fantastico per creare i Wookie, ci ha messo un sacco di tempo e di energia e poi è dovuto correre a creare le creature per il bar mentre stavamo ancora girando in Tunisia. Abbiamo ritardato la scena di una settimana e io nel frattempo continuavo ad aggiungere mostri. Qualche settimana prima di iniziare Stuart è stato male ed è finito all’ospedale, per cui non avevamo tutti i mostri che volevamo».
Quindi quando l’avete finita?
«Volevo farla con la seconda unità, ma gli studios hanno detto che non avrebbero mai speso altri soldi, perché avevamo già superato il budget di un milione. Ne abbiamo parlato con Alan Ladd Jr. che aveva seguito il progetto fin dall’inizio ed era diventato il presidente della compagnia. Lui ci ha detto di farlo, ma potevamo spendere solo 20mila dollari, quindi abbiamo dovuto togliere almeno metà delle cose. È stato comunque sufficiente. Volevo che nel bar ci fossero dei mostri veramente folli, orribili e sorprendenti. Ci siamo riusciti, ma non tanto quanto speravo».
La band con il vestito nero è meravigliosa. Perché suonano musica degli anni ’40?
«Volevo usare Glenn Miller, ma non potevamo, quindi Johnny ha scritto una cosa simile e secondo me ha fatto un ottimo lavoro. Ha tirato fuori un suono bizzarro, molto anni ’40, ma anche molto strano. Doveva essere una big band in origine, ma ha funzionato lo stesso».
Ogni volta che la nave spaziale di Ian Solo fa il salto nell’iperspazio, il pubblico esulta. È una cosa che adorano.
«Tecnicamente è stato semplice. In pratica, il salto nell’iperspazio non è altro che una retromarcia improvvisa delle stelle e un’inquadratura della nave che sparisce velocemente. Soprattutto è stato divertente, anche perché è messa dopo una scena che dal punto di vista del montaggio e dello stile è molto buona, sparare. E poi ci sono due code musicali molto valide».
È una scena di inseguimento.
«Non vedi l’ora che scappino e quando lo fanno, succede in un lampo. Non c’è niente che ti possa emozionare come sparare una vecchia nave spaziale nell’iperspazio».
Il successo del film dovrebbe garantire ottimi risultati con la linea di merchandise che hai lanciato.
«Una delle motivazioni principali che mi hanno spinto a fare questo film è il fatto che io adoro i giochi. Pensavo: “Potrei aprire una specie di negozio che vende fumetti, dischi a 78 giri, vecchi album rock’n’roll, giocattoli antichi e tutte le cose che piacciono a me, di quelle che non trovi nei negozi normali”. Mi piace anche creare giochi e personaggi, e una delle cose belle di questo film è che mi ha permesso di farlo. E poi ho pensato che le vendite del merchandising e i sequel di Star Wars mi daranno abbastanza per dedicarmi definitivamente ai miei film sperimentali, astratti e assurdi».
Quindi, da oggi in poi, venderai giocattoli e farai solo film esoterici?
«Voglio vendere le cose che vorrei comprare io. Sono anche diabetico e vorrei aprire un negozio di hamburger e gelati senza zucchero, perché credo che tutti quelli che non possono mangiare zucchero, come me, si meritino un buon gelato. Non sono mai stato come Francis Ford Coppola, che costruisce imperi giganteschi ed è sempre pieno di debiti e deve continuare a lavorare per mantenerli in vita. Anche se gli riconosco il merito di voler creare un’indipendenza per tutti noi, ovvero la possibilità di non dover sottostare agli ordini degli Studios, che ti dicono quali film fare».
Immagino che i tuoi amici ti abbiano fatto parecchia pressione per farti cambiare idea e non smettere di fare film del genere.
«Sì. Nessuno ci crede, soprattutto Francis. Si rifiuta di accettare il fatto che lo farò. Quando dico “ritirarmi”, tutti pensano che me ne andrò alle Hawaii per il resto della mia vita. Non è così, mi dedicherò ai giocattoli e al merchandising e farò il produttore esecutivo dei sequel di Star Wars, in modo da poter avere un’entrata economica e continuare a seguire un progetto che ho iniziato. E poi, chi lo sa? Potrei dirigere ancora qualcosa, ma credo di poter essere più efficace come produttore esecutivo».
Quando uscirà Star Wars fuori dagli Stati Uniti?
«In ottobre (1977, ndr) uscirà in Europa e il prossimo luglio in Giappone. Mi piace il Giappone, ci ho passato molto tempo perché pensavo di girare lì THX. Mia moglie dice sempre che sono uno shogun reincarnato, o almeno un signore della guerra. Sono curioso di vedere cosa succederà: Star Wars è disegnato su misura per il Giappone».
Ma non è una produzione Toho o un film di Godzilla.
«No. Il genere di fantascienza ha raggiunto un livello molto basso in Giappone, è stato spremuto fino all’ultima goccia come da noi in America, perché è stato fatto dalle persone sbagliate. La fantascienza divulgativa è un genere molto importante che non è stato preso abbastanza sul serio, anche in letteratura. Per questo c’è la tendenza a reagire e a essere più seri possibili e pieni di valori, cosa che ho cercato di evitare in Star Wars. Kubrick ha fatto il film più importante per quanto riguarda il lato razionale delle cose, e io ho cercato di fare il film migliore per il lato irrazionale, perché credo che ne abbiamo bisogno. Viaggeremo ancora su astronavi costruite dalla Stanley Aviation (l’azienda americana che forniva alla NASA i veicoli della missione Apollo, ndr), ma spero che ci porteremo dietro una delle mie spade laser e che avremo un Wookie al nostro fianco. Mi piacerebbe molto se un giorno quando avrò 93 anni qualcuno riuscisse a colonizzare Marte e mi dicesse: “L’ho fatto perché speravo di trovare un Wookie”».